Gennaio
2016
La
“crescita” di Orvieto
un’analisi
dei piani regolatori comunali
Paolo Borrello
a Cinzia e Elisa
Notizie sull’autore
Paolo Borrello, nato a Orvieto nel 1957, si è laureato in Scienze Economiche
presso l’Università di Siena. Ha frequentato il master in gestione
dell’economia e dell’impresa organizzato dall’Istao (Istituto Adriano Olivetti
di Ancona), allora presieduto da uno dei più importanti economisti italiani del
‘900, Giorgio Fuà.
Ha svolto diverse attività lavorative: consulente di
alcune associazioni imprenditoriali, consulente per conto della Regione
dell’Umbria relativamente all’utilizzo di contributi dell’Unione europea,
consulente del Comune di Orvieto riguardo varie problematiche inerenti lo
sviluppo economico. Attualmente è funzionario del Comune di Orvieto.
Ha fatto parte del gruppo di lavoro
dell’osservatorio sulla situazione economica e sociale dell’area orvietana, fin
dall’inizio della pubblicazione del bollettino realizzato dall’osservatorio.
Ha scritto su incarico del Comune di Orvieto, nel 1998
“L’andamento e i caratteri della popolazione residente nel comune di Orvieto” e
nel 2006 “L’economia orvietana dal 1870 agli inizi del 2000". Inoltre, nel 2010,
“Dove va Orvieto - il punto sulla situazione economica e sociale
dell’Orvietano”, Intermedia edizioni.
Indice
Introduzione pag.
1
Il piano Bonelli pag. 5
Il piano Piccinato pag. 23
La variante Benevolo-Satolli pag. 43
Il piano Rossi-Doria pag. 57
Conclusioni pag.
92
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Introduzione
Mi è sembrato opportuno prendere in
esame i principali contenuti dei quattro
piani urbanistici che fino ad ora sono stati elaborati ed approvati dal Comune
di Orvieto perché ho ritenuto utile analizzare le scelte urbanistiche
effettuate con quei piani. Infatti le scelte in campo urbanistico sono tra le
più importanti fra quelle che possono essere prese in ogni comune, in quanto
incidono notevolmente sulle stesse condizioni di vita, quotidiane, della
popolazione. Inoltre è proprio in campo urbanistico che i Comuni hanno le maggiori
competenze, anche se devono rispettare norme regionali e nazionali.
E’ indubbio però che le scelte
urbanistiche, in ogni comune, non vengono effettuate solamente tramite i piani
regolatori.
Spesso i piani urbanistici vengono
stravolti, successivamente, con tutta una serie di varianti, anche molto
parziali ma numerose (e non faccio riferimento alla variante Satolli che sarà
qui analizzata, perché essa può essere considerata quasi come un piano
regolatore) e ciò è avvenuto anche ad Orvieto, prevalentemente negli anni ’80 e
nei primi anni ’90, quando, per certi versi, la variante Satolli fu ritenuta
superata da alcuni amministratori e però non si riuscì a varare un nuovo piano
regolatore, fino al 2000 quanto diventò operativo il piano redatto da Rossi
Doria. In quel periodo furono approvate ben 10 varianti parziali.
Peraltro alcune varianti parziali furono
approvate dal Consiglio comunale di Orvieto anche successivamente al piano
Rossi Doria.
Occorre inoltre tenere presente che
Orvieto, fino agli inizi degli anni ’70, è rimasta priva di un piano regolatore
approvato in via definitiva.
Quindi sono consapevole che analizzare
le scelte urbanistiche di un comune, facendo riferimento solo ai piani
regolatori può fornire una visione parziale di quanto è avvenuto relativamente all'urbanistica
dal dopoguerra ad oggi, ad Orvieto.
Ma esaminare anche le varianti parziali
avrebbe appesantito il lavoro qui presentato, che non è rivolto solo agli
addetti ai lavori, ma, potenzialmente, a tutti i cittadini.
Inoltre analizzare non solamente i piani
urbanistici avrebbe comportato per il sottoscritto un dispendio di tempo
eccessivo rispetto alle mie possibilità ed anche alle mie competenze. Infatti
io non sono un urbanista, mi sono sempre occupato di economia, ma ho ritenuto e
ritengo che le scelte urbanistiche siano molto importanti, non solo perché
incidono sulle caratteristiche del sistema economico locale ma
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soprattutto perché, come ho già rilevato
peraltro, incidono sulle condizioni di vita quotidiane dei cittadini.
E quindi ho deciso comunque di
analizzare le scelte urbanistiche, prendendo in considerazione solo i piani
regolatori, perché anche così, ho pensato, avrei realizzato uno studio
ugualmente utile (peraltro ad Orvieto non sono stati mai realizzati studi
simili), nella consapevolezza che così facendo mi sarei esposto a qualche
critica circa appunto la parzialità dell’approccio scelto.
Ma le critiche sono e saranno, comunque, ben accette.
Ma le critiche sono e saranno, comunque, ben accette.
I piani urbanistici, o regolatori che
dir si voglia, esaminati sono quattro, tutti quelli elaborati fino ad ora, a
partire dal dopoguerra: il piano Bonelli, il piano Piccinato, la variante
Satolli, realizzata con la consulenza del professor Benevolo, e il piano Rossi
Doria.
I quattro piani sono stati analizzati
prendendo in considerazione le relazioni e i dibattiti svoltisi in Consiglio
comunale. Tali elementi sono stati ritenuti da me sufficienti per individuare i
contenuti principali dei quattro piani.
L’esame dei principali contenuti dei
quattro piani si è rivelato, a mio avviso, di notevole interesse anche perché
esso consente, tra l'altro, di ricostruire, seppure parzialmente, alcune “tappe” fondamentali
delle vicende politico-amministrative del Comune di Orvieto, relative a circa
40 anni, poco conosciute ma molto importanti per i loro effetti sulla stessa
situazione attuale del nostro comune. Del resto non poteva essere altrimenti.
Infatti i piani urbanistici, per tutti i comuni, rappresentano sempre momenti
di notevole rilievo dell’azione politico-amministrativa.
Comunque sono consapevole, per le
considerazioni già svolte, che, se si vorrà in futuro effettuare uno studio più
approfondito sull’urbanistica ad Orvieto, occorrerà utilizzare una più ampia
documentazione, peraltro disponibile.
Spero che il mio lavoro rappresenti
almeno uno stimolo affinchè tali studi più approfonditi siano effettivamente
realizzati.
Intendo precisare fin da ora che ho
scelto di dedicare un maggiore spazio all’ultimo piano, il piano Rossi Doria,
non perché quel piano, a mio giudizio, sia il piano più importante, nel senso
che produsse le conseguenze di maggior rilievo sulle scelte urbanistiche nel
comune di Orvieto, e sulle stesse condizioni di vita della popolazione.
Infatti, senza alcun dubbio, da quel
punto di vista, il piano di maggiore importanza fu il piano Piccinato, con il
quale si decise di dare vita alla nuova città, che si affiancò alla città
antica, il centro storico, individuandola a Ciconia, scelta che io considero
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sbagliata, seppure ci
siano delle parziali giustificazioni per una decisione che io continuo comunque
a considerare un errore.
Altri sono i motivi che mi hanno spinto
ad attribuire quello spazio all’esame del piano Rossi Doria.
Innanzitutto il fatto che il processo di
formazione e di approvazione del piano Rossi Doria risultò essere piuttosto
lungo e complesso. Fra l’altro nella riunione del Consiglio comunale nella
quale fu approvato il piano erano presenti consiglieri i quali non erano tali,
perché nel 1999 si svolsero le elezioni comunali che determinarono il rinnovo
del Consiglio stesso, quando fu adottato il piano. Quindi ciò causò la più
ampia discussione, rispetto ai piani precedenti, per i quali gran parte del
dibattito si esaurì in fase di adozione, che si sviluppò in fase di
approvazione del piano, discussione che quindi non potevo che riportare,
seppure sinteticamente. Un altro motivo ha determinato la mia scelta:
nell’ambito delle discussioni in Consiglio comunale sul piano Rossi Doria ci
furono molti riferimenti da parte dei consiglieri alle caratteristiche dei
precedenti piani.
Quindi il dibattito che si sviluppò
relativamente al piano Rossi Doria fu anche l’occasione per analizzare il
complesso dei piani che furono approvati, in precedenza, dal piano Bonelli, al
piano Piccinato, alla variante generale Benevolo-Satolli, e ciò come già
rilevato rappresenta proprio l’oggetto principale di questo studio.
Infine una spiegazione sulla scelta
della prima parte del titolo: “la crescita di Orvieto”.
Due sono i motivi.
Perché con i piani regolatori approvati
si determinò un aumento della parte urbanizzata del territorio comunale, o
meglio si verificò un aumento dei centri nei quali si concentrò una parte
consistente della popolazione, soprattutto con la nascita e lo sviluppo di
Ciconia. Si consideri, peraltro, che nel dopoguerra nel centro storico
abitavano circa un terzo dei residenti nell’intero comune, mentre attualmente
nel centro storico vi risiedono circa il 20% del totale degli abitanti, e il
numero dei residenti a Ciconia è quasi uguale al numero dei residenti nel
centro storico.
Perché, inserendo le virgolette che
racchiudono il termine crescita, intendo sottoporre all’attenzione dei lettori
una domanda: la crescita urbanistica di Orvieto, nei termini appena delineati,
è stata anche una crescita di natura qualitativa? Insomma le condizioni di vita della
gran parte dei cittadini orvietani sono migliorate oppure no?
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Forse, la mia risposta a questa domanda
la potrete individuare leggendo, interamente, l’e-book.
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Il
piano Bonelli
Il piano dell’architetto professor
Renato Bonelli fu redatto nel 1956 e subì tutta una serie di vicissitudini,
anche abbastanza complesse, di cui si riferirà successivamente, che ne
impedirono di fatto l’attuazione, almeno nella sua versione originaria.
Ma chi è stato Renato Bonelli?
Per rispondere a questa domanda ho
ritenuto opportuno riportare completamente quanto è scritto su di lui su
“Wikipedia”.
“Renato Bonelli (Orvieto
2 gennaio 1911 – Orvieto 25 marzo 2004) è stato uno storico dell’architettura e
un architetto. Laureatosi
in architettura nel 1934, presso l’università degli studi di Roma, La Sapienza,
dimostra di possedere una personalità rigorosa già dal tema di tesi,
opponendosi al progetto del gerarca fascista Renato Ricci, relativo alla
trasformazione della sede del convento di San Domenico, in Orvieto, in Accademia
nazionale di educazione fisica femminile, dimostrando la possibilità di non
dover intaccare il corpo della chiesa, pur soddisfacendo ogni esigenza
distributiva e di spazio. L'8 settembre 1944 fonda l’Istituto storico artistico
orvietano (Isao), come riferimento privilegiato per studi e ricerche storiche,
iniziative culturali e attività di interesse artistico e musicale, nell'intento
di offrire un luogo di incontro per coloro che gravitano culturalmente nel
territorio orvietano. Nel 1945 pubblica
il saggio ‘Teoria e metodo nella storia dell’architettura’, come primo
bollettino dell'Isao, col quale si schiera contro una storiografia
dell'architettura tipologica, evoluzionistica, sostenendo, crocianamente che l'arte ‘è forma
universalizzata dell'individuale’, che supera tutti i legami estrinseci, quali
i fattori economici, costruttivi e strutturali, funzionali, sociali o comunque
empirici. Concetto che ribadirà, nel 1983,
nell'introdurre i lavori del XXI congresso di architettura. Nel 1948 conclude il servizio di assistente
nella facoltà d'Architettura dell'Università di Roma, conseguendo, l'anno
successivo, la libera docenza in ‘Storia dell'arte e Storia e Stili
dell'architettura’. Nel 1950 diviene
professore incaricato di ‘Arte dei giardini’ nella facoltà d'Architettura
dell'Università di Roma, sino al 1953, anno in cui ottiene l'incarico di
‘Letteratura artistica’, sempre nella stessa Università. Dal 1959 al 1961,
ricopre anche l'insegnamento di ‘Storia dell'arte e Storia e Stili
dell'architettura’ e, dal 1962 è
professore ordinario di ‘Storia dell'Architettura’ nella facoltà di
Architettura di Palermo, dove rimane sino al 1968, quando ritorna a Roma
all'Università La Sapienza; da questo stesso anno è anche direttore
dell'Istituto di Fondamenti dell'architettura.
Dal 1960 al 1964 è al
servizio dell'associazione Italia Nostra, come segretario nazionale. Dal 1979 è accademico cultore
dell'Accademia Nazionale di San Luca. Dal 1982 dirige il dipartimento di Storia
dell'architettura, restauro e conservazione dei beni architettonici nell'
Ateneo romano (fino al 1984) ed è direttore della ‘Scuola di specializzazione
per lo studio e il restauro dei monumenti’
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della stessa Università,
fino al collocamento a riposo (1986), a seguito del quale è nominato professore
emerito. Nel 1990, con la relazione d'apertura del convegno per il settimo
centenario dalla fondazione del duomo di Orvieto, ‘Il duomo di Orvieto come
problema storiografico’ (edita
nel 1995), respinge la presunzione che sia possibile stabilire fra gli ‘indirizzi
storiografici’ una ‘gerarchia fissa e permanente, e determinare oggettivamente
la graduatoria dei valori che ne deriva’; questo perché ‘il processo storico è
in sé privo di unità oggettiva’: ci si deve aprire, quindi, a temi ‘di
carattere extrastilistico, di storia quantitativa finora quasi inesplorati’,
accogliendo con vero entusiasmo la realizzazione di una banca dati con la
documentazione archivistica dei primi centoventi anni del cantiere del Duomo
(1321-1450). La riflessione sul metodo sarà
estesa da Renato Bonelli anche al restauro. Bonelli, insieme a Roberto Pane e
Agnoldomenico Pica, è teorico del ‘restauro critico’, ma rispetto agli altri
due studiosi, Bonelli, sviluppa come ‘rapporto dialettico’ il processo critico
e l'atto creativo”.
Nella relazione al piano, Bonelli inizia
con una considerazione di notevole importanza: Orvieto aveva relazioni molto
strette con l’alto Lazio - Bonelli parla esplicitamente di forti legami con la
Tuscia - mentre le relazioni con il resto dell’Umbria erano limitate. Bonelli
affermò testualmente: “Orvieto e il suo territorio fanno attualmente parte
dell’Umbria in dipendenza soprattutto di una finzione di carattere
amministrativo. In realtà la maggior parte del territorio orvietano (escludendo
cioè i comuni della parte settentrionale) non può essere considerata terra
umbra, fino all’unificazione d’Italia ha fatto sempre parte dell’alto Lazio o
meglio della Tuscia…”. Fu sostenuto inoltre che i caratteri, geografici e
geologici, storici e sociali, e soprattutto economici, di Orvieto erano
analoghi a quelli che contraddistinguevano l’alto Lazio.
Si può osservare, quindi, che il
movimento politico per la costituzione della regione della Tuscia, che operò ad
Orvieto per un certo periodo, agli inizi degli anni ’90, ebbe come oggettivo
punto di riferimento culturale un personaggio della notevole statura quale fu
il professor Bonelli.
Occorre precisare che il territorio
orvietano, secondo il professor Bonelli, era composto da 27 comuni, di cui 17
(Orvieto, Allerona, Fabro, Ficulle, Monteleone, Montegabbione, Parrano, San
Venanzo, Baschi, Montecchio, Guardea, Alviano, Lugnano, Attigliano, Porano,
Castel Giorgio, Castel Viscardo) facevano parte della regione dell’Umbria e 10
(Acquapendente, Proceno, Onano, Grotte di Castro, San Lorenzo nuovo, Bolsena,
Bagnoregio, Lubriano, Castiglione in Teverina, Civitella d’Agliano)
appartenevano al Lazio.
Le conseguenze sul piano urbanistico di
tali valutazioni del professor Bonelli furono essenzialmente due: nella
definizione del piano regionale era necessario riconoscere
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“la parziale autonomia del territorio
orvietano attraverso la delimitazione di uno speciale comprensorio urbanistico
da pianificare con criteri distinti e metodi adeguati” ed inoltre si doveva
promuovere il “coordinamento del piano regionale dell’Umbria con quello del
Lazio, in relazione alla necessità di provvedere alla singolare situazione del
territorio orvietano, diviso tra le due regioni”.
Nelle parti successive della relazione
il professor Bonelli effettuò una analisi piuttosto approfondita e senza dubbio
molto interessante degli elementi geografici e dei caratteri fisici del
territorio, della storia edilizia di Orvieto, dei dati demografici, della
situazione economica e occupazionale, dei servizi pubblici, della situazione
abitativa e dei problemi del traffico.
Tale analisi non viene qui riportata, se
non marginalmente, perché non rientra negli obiettivi che ci si era proposti,
tra i quali occorre considerare l’intenzione di limitarsi, prevalentemente, ai
contenuti urbanistici dei piani regolatori esaminati.
L’interesse che suscita quell’analisi,
però, dovrebbe spingere coloro che ritengono importanti le problematiche
trattate, a prendere in esame questa parte della relazione del professor
Bonelli, piuttosto corposa, e che rende il suo piano qualcosa di più di un
piano urbanistico, per certi aspetti anche un piano economico e sociale.
Alcuni degli elementi dell’analisi
citata però non possono essere assolutamente trascurati soprattutto perché
hanno influenzato il programma urbanistico vero e proprio e verranno di seguito
presi in considerazione.
Nella parte dedicata alla storia
edilizia, il professor Bonelli rilevò che dopo il 1930 furono realizzate
alterazioni molto consistenti, valutate in modo del tutto negativo, al
precedente assetto urbanistico del centro storico.
Bonelli si riferiva agli “edifici delle
caserme e dell’Accademia di Educazione Fisica (per la quale fu demolita in
parte la chiesa di San Domenico), cui si aggiungono la brutta sede delle scuole
elementari, il rifacimento delle carceri e l’apertura o l’ampliamento di alcune
piazze (Soliana, San Domenico e Cahen) e della via del Pozzo, anonime e fuori
scala.
Infine il secondo dopoguerra ha visto,
con le sue manifestazioni sempre banali e spesso chiassose, l’incontrollato
sviluppo dell’edilizia privata e sovvenzionata, che ha invaso la maggior parte
degli spazi liberi, distruggendo gli orti, trasformando le strade, alterando i
rapporti di dimensione, volume e colore, guastando brutalmente il carattere
della città. La distruzione si è esercitata specialmente nella zona occidentale
dove piazza Cahen e le strade vicine sono diventate un pessimo campionario di
case e ‘villette’ isolate, la via Postierla, un tempo chiusa fra i muri degli
orti e così
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suggestiva, non esiste più. L’ambiente
di alcuni monumenti è stato violato e la visuale della rupe dall’esterno è ora
turbato dai casoni dell’Incis e delle cooperative edilizie”.
Fra i dati demografici presi in
considerazione, occorre citare innanzitutto il numero degli abitanti del centro
storico - che Bonelli significativamente chiamava città - pari a 9.657 unità,
nel 1956, mentre nell’intero territorio comunale i residenti erano 24.974.
E pensare che oggi nel centro storico
abitano solamente poco più di 5.000 persone!
Per quanto riguarda la composizione
della popolazione attiva, il professor Bonelli rilevò il peso preponderante
assunto dall’agricoltura (con il 53% degli attivi complessivi). Gli addetti
all’industria erano pochi e in numero minore - 11,6% sul totale - rispetto ai
pubblici impiegati - 13,8% -. Normale veniva considerata la percentuale degli
addetti al commercio (10,2%), mentre i lavoratori nel settore edilizio era
ritenuto eccessivo (7% sul totale). Gli spostamenti periodici per motivi di
lavoro venivano considerati di scarso rilievo (circa 150 persone si recavano
quotidianamente, utilizzando i treni, soprattutto a Roma e a Terni).
Le scuole allora esistenti erano sette
(a parte quelle elementari): la scuola media, il liceo ginnasio, la scuola
tecnica industriale, la scuola di avviamento agrario, l’istituto commerciale
“Vivona”, l’istituto magistrale femminile “San Lodovico” ed il seminario
vescovile (gli alunni frequentanti nel 1956 erano, rispettivamente, 415, 261,
261, 59, 148, 126, 43 ed il 34,2% proveniva da altri comuni).
Ampio spazio venne dedicato all’analisi
del settore agricolo, le cui caratteristiche principali erano le proprietà
molto frazionate, la presenza di condizioni ambientali, geologiche, pedologiche
e climatiche, poco favorevoli, in molte zone, alle colture, il rendimento
produttivo piuttosto basso. Tali caratteristiche rendevano quella orvietana,
“una zona di transizione tra quelle, tradizionalmente riconosciute intensive,
umbre e toscane, e quelle estensive o semiestensive, della vicina Maremma”. Si
sosteneva inoltre che lo sviluppo della produzione agricola fosse ostacolato da
vari fattori: la conduzione a carattere familiare che tra l’altro imponeva
l’utilizzo di metodi di produzione arretrati, la carenza di capitali fondiari,
messa in relazione alla scarsa produttività dei terreni ed alla mancanza di
consorzi di bonifica, l’inadeguata istruzione professionale di tutte le
categorie degli addetti ai lavori agricoli, la carenza di mezzi meccanici e
soprattutto di impianti di irrigazione, l’insufficienza dei servizi nelle
abitazioni coloniche e negli edifici ad uso agricolo.
E’ bene soffermarsi un attimo su queste
considerazioni relative al settore agricolo. Viene confermata da Bonelli la
tesi, sostenuta anche da altri, secondo la quale tale
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settore era caratterizzato da problemi
di notevole rilievo, che peraltro lo caratterizzarono anche nei decenni
precedenti al periodo nel quale Bonelli scrisse la sua relazione. E l’esistenza
di tali problemi, le cui cause furono diverse, esercitò effetti non solo
sull’agricoltura, ma essi si estesero anche ad altri settori, in primo luogo
l’industria. Infatti, in molti territori, anche dell’Umbria, i capitali
formatisi nel settore agricolo, una volta manifestatasi la sua crisi ma anche
in precedenza, furono utilizzati per effettuare investimenti in altri settori,
in primo luogo appunto nell’industria (si consideri che qui come altrove il
termine “industria” non necessariamente equivale a un insieme di grandi imprese
ma più semplicemente ad un insieme di imprese, piccole e grandi, che producono
beni, e non erogano servizi, che non sono ovviamente beni agricoli). E’ del
tutto evidente che, se si accetta la tesi della produttività limitata del
settore agricolo, è più che probabile che i capitali utilizzabili per essere
investiti per favorire lo sviluppo industriale fossero altrettanto limitati e,
oggettivamente, tale situazione rappresentò un ostacolo non indifferente al
manifestarsi di uno sviluppo industriale adeguato a fornire opportunità
occupazionali alternative a quelle che si verificavano in agricoltura,
soprattutto quando quest’ultima fu contraddistinta da una tendenza, sempre più
forte, alla riduzione del proprio peso, anche in termini occupazionali.
Per quanto concerne le attività
industriali, fu osservato che gran parte di esse venivano svolte da piccole
aziende che presentavano “i caratteri dell’organizzazione e del metodo di
lavoro artigianale” e che, nel complesso, fino alla metà degli anni ’50,
avevano avuto uno sviluppo molto limitato, inferiore alle potenzialità ed alle
necessità occupazionali. Gli addetti erano 1.863 (di cui 698 nell’edilizia),
mentre gli addetti nel settore agricolo erano 5.204, nel commercio 1.000 (di
cui 315 nelle attività collegate al turismo). Negli anni precedenti al 1956 si
era, poi, verificato un aumento, considerato eccessivo, del numero degli
esercizi commerciali, che causò notevoli difficoltà economiche ad una parte
delle aziende, anche in seguito “all’improvvisazione dei nuovi e relativamente
numerosi esercenti”.
Anche quest’ultima osservazione è
opportuno che sia brevemente commentata. Anche allora si rilevò la presenza di
un eccessivo numero di esercizi commerciali. Anche allora, scrivo, perché
attualmente, e ormai da diversi anni, il numero degli esercizi commerciali
rispetto alla popolazione residente è eccessivo ad Orvieto, comunque maggiore
rispetto a quanto si verifica nelle altre città più importanti dell’Umbria.
Tale situazione è poco conosciuta dagli orvietani, diversamente da quanto sarebbe
necessario, ma la sua esistenza è appunto avvalorata da quanto scrisse Bonelli
nel 1956.
Il turismo, considerando
soprattutto il numero limitato di
occupati in questo settore, all’opposto di ciò che si pensava a quel tempo, non
assumeva una notevole importanza.
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E’ bene ricordare che nel 1956 non
esisteva ancora il casello autostradale di Orvieto, che fu inaugurato solo
successivamente, nel 1964.
Gli occupati nella pubblica
amministrazione erano 1.355 (tale numero elevato dipendeva soprattutto dalla
presenza delle caserme).
Il fenomeno della disoccupazione non
era, secondo il professor Bonelli, particolarmente preoccupante, come invece
avveniva nelle città maggiori o nei centri industriali e interessava, in
prevalenza, il settore edilizio, che assorbiva metà dei circa 500 disoccupati
allora presenti. Gran parte dei disoccupati del settore edilizio era
rappresentato da manodopera non qualificata, proveniente in genere
dall’agricoltura (molti lavoratori abbandonavano fin da allora il settore agricolo
per vari motivi).
Il fenomeno delle “convivenze” era
piuttosto consistente: nel 1956 riguardava 3.541 persone, di cui 2.715
militari, 164 religiosi, 160 detenuti, 124 persone che abitavano in ospizi e
orfanotrofi, 235 che abitavano in collegi e convitti.
La rete stradale era, poi,
caratterizzata dall’attraversamento del centro storico da parte della S.S. 71
(era ancora in fase di progetto la “variante” che avrebbe poi collegato il
bivio per Bagnoregio con la zona vicina al cimitero, l’attuale strada
dell’Arcone), come del resto non era ancora presente, nel territorio comunale,
l’autostrada di cui non si conosceva allora, con precisione, il tracciato, come
peraltro ho già rilevato. La funicolare, inoltre, era considerata ormai
insufficiente a soddisfare le esigenze che si manifestavano in quel periodo.
Nel 1956 esistevano solo 7 alberghi (con
205 posti letto) e 6 locande (55 posti letto) nel centro storico, e altri 2, di
IV categoria, ad Orvieto scalo. Nel 1954 le presenza presso gli esercizi
alberghieri furono complessivamente 38.107 (con una percentuale di utilizzo dei
posti letto disponibili pari a circa il 40%) e gli arrivi 10.515 (l’indice di
permanenza media era pari a 3,6).
Un breve ulteriore commento: allora
l’indice di permanenza media era 3,6 molto più elevato di quanto è attualmente,
per la verità da molti anni ormai, circa 1,5. Tale valore peraltro viene
valutato negativamente, in quanto rappresentativo del fatto che il turismo ad
Orvieto sia soprattutto un turismo di passaggio, e il suo incremento è
considerato un obiettivo da perseguire ma che da molti anni a questa parte non
è stato raggiunto. Pertanto negli anni ’50 il turismo orvietano aveva delle
caratteristiche profondamente diverse da quelle che attualmente lo
contraddistinguono. Però, occorre aggiungere, allora era un fenomeno molto
limitato - si pensi solamente al numero delle presenze alberghiere che non
superava le 40.000 unità - diversamente
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da quanto avviene oggi, con le presenze
alberghiere che superano non di poco le 100.000 unità e che sommate a quelle
extralberghiere raggiungono quasi le 200.000.
I cinema erano 5 (con 1.906 posti
complessivamente).
Per quanto concerne la situazione
abitativa, venne innanzitutto rilevato che l’indice medio di affollamento, pari
a 1,18 abitanti per vano, solo apparentemente poteva indurre a formulare una
valutazione positiva, in seguito alle notevoli differenze che si registravano
all’interno del territorio comunale. Fu sostenuto, più precisamente, che gli
alloggi con indice di affollamento superiore ad 1 erano 1.504, quelli con
famiglie in coabitazione 474 e quelli pericolanti 180.
Fu calcolato, poi, il fabbisogno totale
dei vani, con l’obiettivo che in ogni abitazione vi fosse presente una persona
per ogni vano. Si ottennero 2.630 vani a cui furono aggiunti altri 900 in
sostituzione di alloggi pericolanti e 1.930 in sostituzione di locali
“scadenti” da sostituire (il numero complessivo dei vani necessari era pertanto
pari a 5.460).
Inoltre fu previsto che nei venti anni
successivi gli abitanti nel comune sarebbero cresciuti fino a raggiungere le
28.000 unità nel 1976 (occorre rilevare che quella previsione non si verificò
affatto e che la popolazione invece diminuì). E questa fu la prima delle
previsioni sbagliate sull’andamento demografico futuro, contenuta in un piano
urbanistico, seguita anche da altre, nei successivi piani.
In base a queste previsioni
sull’andamento futuro della popolazione, fu calcolato che sarebbero stati
necessari altri 4.500 vani, ottenendo così un totale di 10.000 vani da
costruire in venti anni. Poiché i calcoli effettuati si riferivano, in gran
parte, alla situazione esistente al 1951 e poiché in 5 anni furono costruiti
circa 3.000 vani, il fabbisogno totale fu ridotto a 7.000 vani. Di questi 7.000
vani, 1.000 dovevano essere realizzati nel centro storico (in sostituzione dei
vecchi edifici), 2.000 ad Orvieto scalo (nuove abitazioni), 600 nel “suburbio”
(sempre nuove abitazioni) e 3.400 nelle frazioni (per affrontare il problema
dell’affollamento e per sostituire gli alloggi pericolanti o scadenti). Nel
primo periodo di attuazione del piano (dal 1957 al 1963) doveva essere
costruita solo una parte dei 7.000 vani necessari nel ventennio e cioè circa
4.000.
A monte di tutti questi calcoli vi era
fra l’altro la convinzione della necessità che nel centro storico non venissero
costruite nuove abitazioni e che le principali zone di espansione dovessero
essere Orvieto scalo e Sferracavallo.
A proposito di Sferracavallo il
professor Bonelli notò che questo nuovo insediamento abitativo si stava già
formando rapidamente soprattutto in seguito alla “convenienza
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da parte di gruppi di coltivatori
diretti di costruire le loro case intorno ad un nucleo già esistente, situato
vicino sia ai terreni e alle zone di lavoro, sia alla città, anzi a metà strada
tra gli uni e l’altra. Si trattava perciò della tendenza ad avvicinarsi al
nucleo urbano effettuando un inizio di inurbamento, che si fermava alla
creazione di nuclei satelliti tendenzialmente semiautonomi e destinati a servire
alla popolazione agricola quale aggregato intermedio fra l’abitato compatto
della città e la casa colonica isolata. E’ un processo logico e sano che deve
essere incoraggiato e al tempo stesso disciplinato”.
Ricordo ancora un volta che quando
Bonelli parlava di città si riferiva sempre e solo al centro storico.
Notevole attenzione fu attribuita, nella
relazione, ai problemi del traffico che, ovviamente, erano molto diversi da
quelli attuali ma forse non meno importanti. Il principale problema fu individuato
nell’eccessiva circolazione dei veicoli nel centro storico, in relazione
soprattutto al fatto che la gran parte della rete viaria presentava una
larghezza insufficiente. E’ necessario precisare che allora la rete principale
era costituita dal tracciato di attraversamento della S.S. 71 (Porta Romana -
piazza Cacciatori del Tevere - sottopassaggio del Palazzo Comunale - piazza
della Repubblica - viale Crispi - piazza Cahen) e dal percorso, che formava un
anello, composto da corso Cavour - via del Duomo - piazza del Duomo - via
Soliana - via Postierla - piazza Cahen, dove si ricongiungeva al primo.
Il professor Bonelli sostenne, quindi,
che le caratteristiche della rete viaria del centro storico erano del tutto
inadeguate a sopportare il traffico che vi si dirigeva e ciò causava difficoltà
di varia natura, tra le quali “ingorghi, rallentamenti del flusso, rumori,
vibrazioni, polvere, pericolo alle persone, invasione continua dell’intera sede
stradale…” ed anche notevoli problemi per il passaggio dei pedoni, determinando
una vera e propria alterazione della tradizionale vita orvietana. In seguito
all’eccessivo traffico, il professor Bonelli rilevo che “una città come
Orvieto, ricca di tradizioni e di ambiente architettonico, che ora, nel giro di
pochi anni, è rimasta quasi priva del proprio centro civico funzionante come
tale, deve necessariamente ritrovare un proprio organico equilibrio nella
complessità dei fattori che ne condizionano la vita. Uno dei principali intenti
del piano deve essere appunto quello di riportare il centro cittadino alla sua
vera funzione, e questo non può essere fatto che ripristinando nel cuore della
città le condizioni indispensabili allo svolgimento di una normale vita
associata, con l’assegnare altre e nuove sedi, distinte e idonee, al traffico
turistico e a quello commerciale”.
Il professor Bonelli, insomma, in forte
anticipo rispetto a molti, era già consapevole, nel 1956, che il centro storico
dovesse “appartenere” più ai pedoni che agli autoveicoli.
13
La parte della relazione contenente le
proposte per una pianificazione generale inizia con alcune considerazioni sui
risultati delle indagini, soprattutto relative ai problemi economici, che danno
vita a un vero e proprio programma economico (Bonelli infatti riteneva che la pianificazione
urbanistica dovesse attribuire notevole importanza alle attività economiche).
Il professor Bonelli affermò
testualmente che “nel suo complesso l’economia del comune è sana, solida,
stabile, dotata di un sicuro equilibrio, largamente attiva; non presenta grandi
possibilità di rapido sviluppo, ma consente di assicurare una reale ed adeguata
prosperità agli abitanti dei territori. Essendo basata in gran parte sulle
attività dell’agricoltura, risente delle presenti difficoltà di questa, che
rappresentano però un fenomeno di carattere generale ed un problema
nazionale…”. Il professor Bonelli, inoltre, rilevò che lo sviluppo
dell’economia locale non dovesse mutare i suoi caratteri tradizionali,
basandosi quindi ancora sull’agricoltura e su attività commerciali ed
industriali ad essa collegate.
Non si aveva cioè la consapevolezza che,
ad Orvieto come altrove, nel procedere dello sviluppo economico, fosse
inevitabile una consistente riduzione del peso del settore agricolo, che poteva
essere frenata, con provvedimenti specifici, quali quelli indicati dallo stesso
Bonelli, ma non più di tanto (per arrivare a tali conclusioni sarebbe stato
sufficiente analizzare la storia dei processi di sviluppo economico di nazioni
che prima dell’Italia furono interessate dalla cosiddetta “rivoluzione
industriale”).
Bonelli, poi, sostenne che “la presenza
di un’alta percentuale di appartenenti alle pubbliche amministrazioni, civili e
militari (quasi il 14% della popolazione attiva) e la permanenza periodica di
un grosso contingente di soldati (2.500-3.000 persone), rappresenta un peso
notevole, economico, materiale e psicologico, per la vita orvietana. E’
sufficiente porre a confronto il numero degli abitanti della città (circa
10.000) con quello dei militari presenti che da soli arrivavano a costituire un
quarto della popolazione, per intendere la portata dell’errore commesso circa
25 anni fa con la costruzione delle grandi caserme sulla vecchia rocca, in cima
alla rupe”. E Bonelli propose che il numero dei militari presenti nel centro
storico dovesse ridursi a 1.000-1.500 persone.
Una posizione molto originale, quella di
Bonelli, se si considera che soprattutto da parte degli operatori economici, la
presenza dei militari fu ritenuta sempre determinante per le prospettive del
centro storico e, anche quando la caserma Piave fu chiusa, per decisione dello
Stato centrale, tale opinione rimase sempre piuttosto diffusa, tra gli abitanti
del centro storico.
14
Per quanto riguarda il turismo Bonelli
rilevò che dovesse essere compiuta una scelta “quella fra il turista isolato
che è cliente di qualità e il movimento di comitive, distinte in gruppi che
viaggiano a scopo ricreativo e pellegrinaggi religiosi. E’ naturale che il
turismo di massa sarà preferito anche dalle organizzazioni alberghiere, quando
però desideri di effettuare il pernottamento, poiché il vero problema del
turismo è di riuscire a trattenere sul luogo il viaggiatore almeno per una
giornata, compresa la notte”. E come nel caso dell’agricoltura, il professor
Bonelli formulò precise proposte volte a favorire lo sviluppo del turismo e non
si manifestò, invece, favorevole ad una crescita del settore edilizio, ritenuto
già troppo ampio.
Bonelli, formulando tale considerazione,
fu un anticipatore, rispetto ai molti che successivamente evidenziarono la
necessità che si dovesse accrescere la permanenza media presso gli esercizi
ricettivi, soprattutto nel centro storico, puntando a far restare ad Orvieto
una parte di turisti più giorni. Se da un lato però quella considerazione fa
ritenere Bonelli un anticipatore, essa si presta a valutazioni piuttosto negative
rispetto all’efficacia dell’azione svolta da diversi soggetti, pubblici e
privati, negli anni successivi, per aumentare la permanenza dei turisti nel
centro storico, obiettivo mai raggiunto.
Nella formulazione del piano riguardante
il centro storico, si partì dall’attribuzione a questa parte del comune di una
funzione principale, cioè quella di “centro residenziale e di scambio di una
vasta zona agricola nel quale alcune presenze e attività, come quella dei
centri militari, appaiono stranamente disambientate; ma essa è anche luogo
ricco di memorie storiche e di opere artistiche e costituisce nel suo insieme,
per i suoi spiccati caratteri, per le opere architettoniche che racchiude e per
la sua speciale positura, un complesso paesistico e monumentale, fra i più
singolari. Nei riguardi del vecchio nucleo il piano deve quindi adottare il
principio fondamentale di conciliare il mantenimento e lo sviluppo delle
funzioni che la città ha assunto da secoli, con il rispetto dei suoi caratteri
formali. Il nucleo storico dovrà conservare ed accrescere tutte le funzioni
rappresentative e di sede
amministrativa, commerciale, culturale e turistica che ha avuto finora; potrà
ancora tollerare la permanenza di sedi militari in contrasto col proprio
carattere, purchè opportunamente ridotte nella loro entità e densità, ma non
dovrà proprio assolutamente ancora servire da zona di espansione a se stessa.
Nel periodo posteriore al 1944, invece, la tendenza a costruire delle
abitazioni nelle aree libere della vecchia città si è manifestata e sempre più
accentuata, provocando la distruzione di larghe zone prima dotate di
caratteristiche ambientali”.
Quindi già Bonelli attribuiva una
funzione ben precisa al centro storico, la stessa funzione che fu ritenuta
essenziale, e ne fu oggettivamente il presupposto, da coloro che idearono e
attuarono, circa 25 anni dopo, il cosiddetto Progetto Orvieto.
15
Quindi secondo il professor Bonelli non
doveva essere prevista nel centro storico alcuna zona di espansione edilizia.
La principale zona di espansione venne
individuata ad Orvieto scalo (il numero dei nuovi vani ritenuti necessari era
pari a 2.000 unità, in un’area ben precisa, al di là della ferrovia, fra la
S.S. 71, la strada Amerina ed il Paglia, separata dal nucleo esistente di circa
600-700 metri).
Ad Orvieto scalo, quindi, si pensava di
mantenere distinti il vecchio ed il nuovo nucleo abitato. Nel primo, che doveva
rimanere sede industriale e commerciale e punto di transito, oltre che
comprendere anche una sede residenziale semiautonoma e quindi dotata dei
principali servizi, doveva essere vietata la costruzione di nuove abitazioni,
che sarebbero sorte invece nel secondo, per garantire la residenza di 1.800-2.000
persone, in cui sarebbe stato incluso il piccolo nucleo Ina-casa, già allora
esistente.
Ad Orvieto scalo erano previsti anche
altri interventi:
la realizzazione della variante della
S.S.71, già citata in precedenza;
la creazione di alcuni impianti sportivi
nell’area ricompresa tra la S.S. 71 ed il Paglia;
la creazione di una zona per piccoli
insediamenti produttivi nelle vicinanze della ferrovia;
la costruzione della sede della scuola
di avviamento professionale di tipo agrario;
il possibile spostamento delle scalo
merci delle ferrovie dello Stato.
Occorreva poi regolare la formazione di
un aggregato residenziale a Sferracavallo (in cui allora vi erano 300 abitanti)
in precedenza realizzatosi in modo disordinato, predeterminando l’ubicazione,
le dimensioni e le forme delle nuove abitazioni che dovevano sorgere sul fondo
valle e sulle pendici dei colli che fronteggiano il centro storico, a distanza
non superiore ai 3 km., e garantire la residenza ad un massimo di 500 persone,
con pochi servizi essenziali (scuole, ambulatorio, negozi).
Inoltre si prevedeva di creare un nuovo
nucleo abitativo nella zona del Tamburino e di indirizzare le eventuali
richieste di costruire nuove abitazioni a Ciconia verso la nuova unità
abitativa di Orvieto scalo (in pratica Ciconia non si doveva ampliare).
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Quindi per Bonelli Ciconia non si doveva
ampliare e questo rappresenta, oggettivamente, uno degli elementi
caratterizzanti del suo piano, se si considera quello che avvenne dopo, in
attuazione del piano Piccinato, con la notevole espansione edilizia
verificatasi a Ciconia che, ovviamente, determinò anche un forte aumento dei
residenti (ora sono circa 5.000).
Gli interventi del piano Bonelli,
riguardanti il centro storico, tendevano a perseguire 4 obiettivi principali:
la risoluzione del problema del
traffico;
il completamento e il potenziamento dei
servizi collettivi (acquedotto, fognature, sedi scolastiche, edificio delle
Poste, mercato coperto, musei, ecc…);
il risanamento delle vecchie abitazioni
e la sostituzione degli alloggi “scadenti” (per la definizione delle proposte
specifiche si rinviava però all’elaborazione del piano particolareggiato);
la conservazione e la valorizzazione
dell’intera struttura edilizia, dei monumenti e delle visuali della rupe
dall’esterno, mediante l’adozione di nuove norme edilizie.
Il principio fondamentale che ispirava i
provvedimenti, proposti relativamente al traffico, consisteva nell’assegnare ad
ogni categoria di traffico una distinta sede stradale. Il traffico locale,
riguardante cioè i veicoli dei residenti nel centro storico, si doveva infatti
svolgere nella rete interna allora esistente. Le autolinee si sarebbero
indirizzate, provenendo da porta Cassia - che era localizzata prima di piazza
Cahen nella strada che attraversava la zona delle tombe etrusche - e che ora
non esiste più, verso la strada che terminava a piazza Angelo da Orvieto, dove
sarebbe stata realizzata un’autostazione e il traffico dei giorni di mercato
sarebbe arrivato fino a piazza XXIX Marzo, che sarebbe stata utilizzata come
parcheggio. Tale soluzione poteva essere ampliata prolungando la strada di
penetrazione lungo via di Loreto e proseguendo con una nuova strada da
realizzare presso il ciglio della rupe fino alla zona dove sorgeva porta Vivaria.
Il traffico turistico, sia proveniente da porta Romana che da porta Cassia,
sarebbe stato indirizzato verso la nuova strada da costruire lungo il margine
della rupe, da porta Romana a piazza Cahen (era previsto in questo percorso un
parcheggio in piazza del Duomo e un parcheggio secondario in piazza Soliana).
Il piano, a parte la realizzazione delle
due nuove strade periferiche già citate, manteneva intatte le restanti parti
del centro storico (erano previsti solo due “tagli”, il
17
primo per creare una via d’accesso
sufficientemente ampia da corso Cavour alle scuole di piazza Soliana,
allargando e prolungando un vicolo cieco, e il secondo, demolendo e
ricostruendo due vecchie abitazioni nell’angolo tra il corso e via San
Leonardo, per allargare quest’ultima e dare vita così ad una strada abbastanza
larga per arrivare a piazza del Popolo).
Si prevedeva inoltre di realizzare a
piazza Vivaria un piccolo mercato e la nuova sede delle Poste (allora ubicate
presso l’attuale palazzo dei Sette), di trasformare a portico il pianterreno
dell’attuale palazzo dei Sette per ricavarne un passaggio coperto con negozi,
di migliorare l’assetto dell’ospedale, allora localizzato in piazza del Duomo,
di trasferire l’istituto tecnico commerciale nella sede che sarebbe stata
lasciata libera dalla scuola media, di consentire la costruzione di un nuovo
albergo per ampliare la ricettività turistica, di richiedere l’utilizzo, da
parte dei cittadini, di alcuni impianti sportivi dell’ex Accademia e di
impedire l’uso da parte dei militari, per il loro addestramento, di piazza
Cahen, essendo sufficienti i piazzali interni alle caserme.
Anche allora si prevedeva che i
residenti potessero utilizzare gli impianti sportivi dell’ex Accademia! Fatelo
sapere alla Guardia di Finanza che attualmente occupa gli spazi dell’ex
Accademia e poi ex Smef…
Per risolvere il problema rappresentato
dalla necessità di fornire una maggiore quantità di energia elettrica e di
garantire contemporaneamente l’irrigazione di zone prive di acqua, evitando la
creazione di invasi che riducessero o danneggiassero le coltivazioni agricole,
fu proposto di costruire lo sbarramento della Valle del Paglia nella zona di
alta collina fra Torre Alfina e Allerona (in questo modo sarebbero stati
evitati gli allagamenti della Valle del Tevere).
Inoltre per la localizzazione del Foro
Boario e del Mattatoio, fu scelta la zona del Campo della Fiera.
Nella parte finale della relazione il
professor Bonelli ribadì la necessità di conservare e valorizzare il “carattere
artistico e paesaggistico” del centro storico. Tale obiettivo doveva essere
conseguito, tra l’altro, con una serie di norme ben precise (restrizioni alla
possibilità di costruire sulle pendici del colle fino a fondo valle, divieto di
costruire sulla fascia lungo il ciglio della rupe, emanazione di speciali
prescrizioni per quanto riguarda le costruzioni).
Furono anche individuati i tempi di
attuazione della parte edilizia del piano.
Fra il 1957 e il 1959, nel centro
storico si sarebbe dovuto procedere alla costruzione delle strade periferiche,
dell’autostazione, della scuola media, della sede delle Poste e alla
sistemazione dei musei di piazza del Duomo. Ad Orvieto scalo si doveva
18
realizzare la variante della S.S. 71,
costruire la scuola agraria e iniziare la nuova unità di abitazione. Si doveva
realizzare la “sistemazione” del nucleo di Sferracavallo e costruire, nelle
frazioni, circa 10 edifici scolastici.
Tra il 1960 e il 1966, nel centro
storico si doveva realizzare il “taglio” di via San Leonardo ed il porticato
nel palazzo dei Sette, la costruzione del mercato coperto e la “sistemazione”
dell’ospedale e delle sedi della scuola industriale, dell’istituto tecnico
commerciale e della scuola elementare. Ad Orvieto scalo si doveva completare la
nuova unità di abitazione, realizzare la zona sportiva (erano previsti un campo
di calcio con piscine interne, un campo di pallacanestro e uno di pallavolo,
due campi da tennis, una piscina coperta). Nelle frazioni si doveva realizzare
il mattatoio, il Foro Boario, il nucleo residenziale del Tamburino e circa
venti edifici scolastici.
Il piano Bonelli, dopo la sua redazione,
ebbe un “iter” piuttosto travagliato che ne impedì di fatto l’attuazione.
Il Consiglio comunale, nella riunione
del 1° ottobre 1956, deliberò di approvare “in via di massima”, con due voti
contrari, il piano redatto dal professor Bonelli, rinviando l’esame delle
modifiche, proposte dalla Giunta comunale, alle norme urbanistico-edilizie e
dell’ubicazione delle zone che suddividevano il territorio di Orvieto scalo
alla seduta successiva alla pubblicazione degli elaborati, quando sarebbero
state adottati i cambiamenti al progetto derivanti dall’accoglimento totale o
parziale delle osservazioni presentate.
Quel rinvio fu determinato dal fatto che
su alcuni aspetti importanti del piano furono formulate delle critiche nel
corso del dibattito in Consiglio comunale ed inoltre dalle caratteristiche
delle modifiche proposte, sempre in Consiglio comunale, alle norme
urbanistico-edilizie, modifiche che tendevano ad eliminare o ad attenuare
diversi vincoli, di cui Bonelli sosteneva l’assoluta necessità, riguardanti
soprattutto le nuove costruzioni e le ristrutturazioni nel centro storico, ma
anche il vecchio nucleo abitativo di Orvieto scalo, la zona industriale e la zona
agricola.
Solamente nella riunione del 23 agosto
1958 il Consiglio comunale approvò all’unanimità il piano regolatore con alcune
modifiche già discusse nella seduta dell’ottobre del 1956.
Più di un anno e mezzo trascorse tra le
due riunioni del Consiglio in seguito alle “laboriose” discussioni che
intervennero tra il progettista e la Giunta comunale, a proposito delle
modifiche da apportare al piano originario. Le modifiche approvate nell’agosto
del 1958, secondo quanto sostenuto nel testo della delibera consiliare, erano
solo lievemente diverse da quelle già concordate con il professor Bonelli.
Della stessa opinione non fu il professor Bonelli che, precedentemente alla
riunione del 23
19
agosto, scrisse una lettera al ministero
dei Lavori Pubblici nella quale spiegò i motivi per cui il piano regolatore
presentato nel 1956 non era più da considerarsi uno strumento adeguato alla
situazione del 1958.
Il 7 novembre 1959 furono esaminate dal
Consiglio comunale le 22 osservazioni al piano presentate da vari soggetti. In
parte furono recepite e in parte no e, soprattutto, non furono recepite,
all’unanimità, le osservazioni formulate dallo stesso professor Bonelli.
Nelle sue osservazioni il professor
Bonelli innanzitutto rilevò che il piano, redatto nel 1956, non rispondeva più
alla situazione esistente agli inizi del 1959, per vari motivi.
In primo luogo, secondo Bonelli,
dall’ottobre del 1956 in poi l’Amministrazione Comunale autorizzò, in contrasto
con i criteri contenuti nel piano, la costruzione di abitazioni in ogni parte
del territorio comunale (ciò avvenne soprattutto ad Orvieto scalo). Inoltre,
nel centro storico, i limiti fissati nel piano, relativamente alle nuove
residenze, furono superati, “distruggendo quasi tutte le zone verdi che
restavano, aumentando la densità edilizia e gli inconvenienti derivanti dal
traffico”, e consentendo la costruzione di case sul ciglio della rupe che di
fatto avevano impedito la costruzione di una strada che rappresentava uno degli
aspetti fondamentali del piano.
In seguito a tali considerazioni Bonelli
propose di adottare il divieto “generale, completo e assoluto di costruzioni,
ricostruzioni ed ampliamenti nel centro storico” e di vietare nuove costruzioni
ed ampliamenti nel vecchio nucleo abitativo di Orvieto scalo.
Il Consiglio comunale approvò,
all’unanimità, alcune controdeduzioni alle osservazioni di Bonelli, nelle quali
si affermava che “le considerazioni esposte dal progettista architetto Bonelli
non rispondono a verità…”, in quanto, soprattutto, le autorizzazioni edilizie
rilasciate dal Comune non erano considerate in contrasto con le norme
urbanistiche edilizie proposte nella riunione pre-consiliare del 1° luglio 1958
da una apposita commissione composta da vari rappresentanti dei cittadini,
presenti lo stesso Bonelli e un funzionario della Soprintendenza di Perugia e
poi approvate dal Consiglio comunale nella riunione del 23 agosto 1958 e
neppure in contrasto con i regolamenti vigenti. Inoltre nelle controdeduzioni
furono criticate tutte le argomentazioni utilizzate dal professor Bonelli e si
concluse rilevando che “l’Amministrazione respinge in blocco tutte le
osservazioni formulate dall’architetto Bonelli, progettista del piano
regolatore, perché non serene, non veritiere, non obiettive, ma soltanto ispirate
ad acredine e contrarie al benessere e allo sviluppo della propria città”.
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Furono utilizzati termini decisamente
forti a testimonianza del notevole contrasto manifestatosi tra
l’Amministrazione Comunale, peraltro unanime, e il professor Bonelli, le cui
motivazioni andrebbero indagate perché non necessariamente potrebbero
corrispondere a verità le accuse formulate, e appena citate, rivolte al
professor Bonelli, il quale, come emerge dalla biografia prima riportata, aveva
già una statura culturale e un profilo professionale di notevole livello.
Comunque rimane un dubbio, ma perché fu
incaricato Bonelli di redigere il primo piano urbanistico del comune di Orvieto
se, successivamente, l’Amministrazione Comunale di fatto respinse i principali
contenuti del piano stesso? Non c’era stato un confronto preliminare
all’affidamento dell’incarico al professor Bonelli o invece qualcuno aveva
cambiato idea o ancora qualcuno pensava che Bonelli potesse essere facilmente
influenzabile?
Nella seduta del 16 marzo 1963, il
Consiglio comunale tornò ad occuparsi del piano Bonelli.
Infatti il piano, con le osservazioni
presentate, fu sottoposto all’esame dell’assemblea generale del Consiglio
superiore dei Lavori Pubblici che, nella seduta del 14 aprile 1960, si espresse
favorevolmente all’approvazione del piano, con modifiche, integrazioni e
raccomandazioni, e in base a queste valutazioni il ministero dei Lavori
Pubblici predispose il decreto presidenziale 6 febbraio 1961. Tale decreto,
trasmesso alla Corte dei Conti, fu da questa restituito al ministero, con
l’invito di richiedere al Comune di Orvieto l’accettazione delle modifiche
apportate al progetto originario. Il Comune venne invitato dal ministero
ad accettare quelle modifiche con una lettera del 22 giugno 1961.
Da quel momento intercorsero numerosi
contatti tra l’Amministrazione Comunale e il ministero per ottenere la modifica
delle norme contenute nel decreto, soprattutto relativamente al divieto di
edificabilità “in senso assoluto”. Le richieste dell’Amministrazione furono
esaminate dall’assemblea generale del Consiglio superiore dei Lavori Pubblici,
nella seduta del 12 aprile 1962, che stabilì nuovamente che al piano originario
dovessero essere apportate modifiche ed integrazioni in parte diverse da quelle
indicate tramite il primo esame, in quanto l’assemblea accolse alcune delle
richieste dell’Amministrazione Comunale (veniva perciò mantenuto il divieto di
costruzioni per l’intera collina “attenuandolo con l’eliminazione
dell’aggettivo assoluto prescritto in precedenza”).
Mi domando: quanto l’eliminazione
dell’aggettivo assoluto diminuì l’efficacia del divieto? Non riesco proprio a
comprendere, perché per me un divieto rimane un divieto, sia che venga
considerato assoluto sia che non venga ritenuto tale.
21
21
Le principali modifiche indicate
dall’assemblea del Consiglio superiore dei Lavori Pubblici riguardavano il
divieto di costruire edifici industriali nella zona agricola, il
ridimensionamento dello sviluppo del vecchio nucleo abitativo di Orvieto scalo
e delle nuove espansioni a Sferracavallo, a Ciconia e nella zona del Tamburino
(le nuove abitazioni dovevano essere realizzate soprattutto nella nuova unità
abitativa di Orvieto scalo), il divieto di nuove costruzioni nel centro storico
(dovevano essere consentiti solo interventi di bonifica interna e di
consolidamento degli stabili esistenti), l’indicazione secondo la quale il
progetto per la realizzazione della variante della S.S. 71 doveva essere
stralciato e definito d’intesa con l’Anas e il ministero dei Trasporti.
Il Consiglio comunale accettò,
all’unanimità, la proposta della Giunta comunale di approvare il piano Bonelli,
con le modifiche indicate dal Consiglio superiore dei Lavori Pubblici,
considerando anche che il divieto di nuove costruzioni previsto per il centro
storico e per l’intera zona collinare, già sottoposta a vincolo da parte della
Soprintendenza ai monumenti, non poteva che intendersi come temporaneo fino
cioè all’approvazione dei piani particolareggiati di esecuzione, ed inoltre che
la nuova situazione venutasi a creare ad Orvieto scalo, a seguito della
costruzione dell’autostrada del Sole, poteva essere oggetto di una variante al
piano generale che avrebbe dovuto essere predisposta nei tempi più brevi
possibili.
Fu rilevato, infatti, dal sindaco Italo
Torroni che, poiché il Comune di Orvieto era allora sprovvisto di uno strumento
urbanistico che regolasse il proprio sviluppo, presente e futuro, doveva essere
richiesta urgentemente al ministero l’autorizzazione per realizzare una variante
al piano Bonelli, ma che, per ottenere questo obiettivo, occorreva approvare il
piano con le modifiche indicate dal Consiglio superiore dei Lavori Pubblici.
Nell’ampio dibattito che si sviluppò in
Consiglio comunale, fra l’altro, fu specificato che era intenzione
dell’Amministrazione Comunale di indicare il professor Piccinato, urbanista di
fama nazionale, per redigere la variante al piano regolatore Bonelli e fu
richiesto da un esponente della minoranza che, nella successiva variante, la
zona industriale venisse prevista in località Patarina.
L’assessore all’urbanistica Leccese - anche allora gli assessori all’urbanistica
erano socialisti una costante che si ripetè negli anni successivi fino a quando
l’Amministrazione Comunale fu retta da un maggioranza Pci-Psi - rispose a
questa ultima richiesta che molto probabilmente nella definizione della
variante non sarebbe stato possibile prevedere la zona industriale in quella
località perché il piano di sviluppo economico dell’Umbria la prevedeva già
“lungo la ferrovia verso Allerona”.
22
Occorre rilevare, infine, che il
ministero dei Lavori Pubblici non emanò il decreto di approvazione in via
definitiva del piano Bonelli.
L’“iter” così complesso che caratterizzò
l’approvazione del piano Bonelli - è da rimarcare comunque che l’approvazione
in via definitiva non avvenne mai - è stato determinato, a mio avviso, anche allora,
ma non solo, dalla discussione, e dai contrasti, che si sono manifestati più
volte, anche successivamente, fra quanti sostenevano e sostengono che le scelte
urbanistiche, in tutto il territorio comunale e non solo nel centro storico,
debbano essere contraddistinte da vincoli piuttosto stringenti e quanti,
invece, sostenevano e sostengono che tali scelte debbano essere caratterizzate,
non dico dall’assenza di vincoli, ma dalla presenza di regole piuttosto
permissive.
Tale discussione e tali contrasti non si
sono certo manifestati solamente nella città di Orvieto, in Italia, ma comunque ad
Orvieto, perché di Orvieto mi occupo qui, sono stati piuttosto accesi e, forse,
in certi periodi, hanno avuto la meglio posizioni troppo estreme, in un senso o
in un altro.
Infatti in alcuni periodi, nella politica
urbanistica, soprattutto in quella praticata concretamente, non tanto e non
soltanto in quella prevista dai piani regolatori, hanno prevalso i sostenitori
di vincoli troppo rigidi, in altri i sostenitori di regole eccessivamente
permissive.
Forse sarebbe stato preferibile che,
sempre, si fosse manifestato un equilibrio tra queste diverse, e spesso
opposte, posizioni, cosa che, raramente, è avvenuta.
Infine, un’ultima considerazione.
Sebbene il piano Bonelli non fu mai
attuato, esso non può che suscitare, comunque, un notevole interesse, soprattutto di carattere storico e
culturale.
Consente, infatti, di conoscere come
fosse Orvieto nell’immediato dopoguerra, ed oggi tale conoscenza è molto
limitata, non essendoci tra l’altro studi che ricostruiscano appunto come
Orvieto fosse, dal punto di vista urbanistico, in quel periodo.
Inoltre esaminando il piano Bonelli si
può apprendere anche che certe posizioni relativamente agli interventi da
realizzare ad Orvieto o certi giudizi su quanto fu realizzato furono
manifestate da Bonelli, in primo luogo, ma probabilmente anche da altre
persone, già alla metà degli anni ’50, posizioni e giudizi che ancora emergono,
nell’ambito del dibattito cittadino, “solo” 60 anni dopo.
23
Il piano Piccinato
Con la delibera del Consiglio comunale
n. 153 del 5 agosto 1963, il professor Luigi Piccinato fu incaricato
inizialmente di redigere la variante generale al piano Bonelli, riadottato
dallo stesso Consiglio nella seduta del 16 marzo 1963, con le modifiche e le
integrazioni indicate dal Consiglio superiore dei Lavori Pubblici.
Successivamente, poiché il professor
Piccinato rilevò la necessità, alla luce di fatti nuovi di notevole importanza
quali in primo luogo la realizzazione dell’autostrada del Sole, di promuovere
la stesura di un nuovo piano regolatore generale, la Giunta comunale decise di
accettare quanto proposto da Piccinato, il quale presentò il nuovo piano
nell’aprile del 1966.
Ma chi è stato Luigi Piccinato?
Anche in questo caso una breve
biografia, ripresa da una voce di “Wikipedia”.
“Luigi Piccinato
(Legnago, 30 ottobre 1899 - Roma, 29 luglio 1983) è stato un architetto e
urbanista italiano. Si laurea in
architettura all’università La Sapienza di Roma nel 1923, avviando sin dai
primi anni un'intensa attività didattica e professionale, soprattutto nel campo
dell'urbanistica. Dimostra subito la sua estrema sensibilità per le matrici
storiche del territorio e per l'ambiente. Nell'ambito sempre di una sua vasta
visione di soluzioni derivanti da una sintesi quotidiana di tutti i problemi
urbanistici, fra i molti suoi interventi per Napoli, è bene ricordare il
progetto per la stazione centrale ed il progetto per il concorso
nazionale per la facoltà di Medicina e Chirurgia (premio In/Arch Domosic) dove
esaltò particolarmente il problema dell'ambientamento. Dal 1941 si dedica alla
conclusione della costruzione del teatro Salieri, nella sua città natale, ma i
lavori secondo il suo progetto non vennero mai completati. II premio In/Arch
Domosic
gli viene assegnato anche nel 1961 per lo stadio Adriatico di Pescara.
Per quanto concerne l’urbanistica, nel 1954 riceve il premio nazionale Olivetti
per l’urbanistica, motivato fra l'altro dall'“equilibrio fecondo” con cui egli
seppe cogliere “gli aspetti storico-problematici e creativo-pratici
dell'attività urbanistica”. La profonda conoscenza delle matrici storiche del
territorio gli permette altresì di intervenire con raro equilibrio, nel
delicato tessuto di numerosissimi centri urbani in Italia: da Brescia a Matera,
da Napoli a Roma, le
sue analisi e le sue previsioni si sono sempre dimostrate profetiche, come pure
la sua fama di grande urbanista lo ha portato ad affrontare temi internazionali
prestigiosi. Autore di una vastissima serie di pubblicazioni e di studi nel
campo dell'urbanistica, viene chiamato a tenere corsi e conferenze ad altissimo
livello scientifico in numerose città, sia italiane che straniere, facendo
parte contemporaneamente di commissioni e comitati di studio e partecipando a
congressi urbanistici nazionali ed internazionali. Nel 1942 viene
chiamato dalla casa di
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produzione Sagif Artisti Associati per
la realizzazione delle scenografie del film “La fortuna viene dal cielo”,
girato negli stabilimenti Fert di Torino, che rappresenta
il suo unico lavoro nel campo della cinematografia. Membro di numerose
accademie ed istituti culturali italiani e stranieri, quali: l'accademia
nazionale di San Luca, l’accademia linguistica di Genova, la deutsche akademie
fur stadtbau und landesplanung di Dusseldorf, è stato vicepresidente dell’Inu
(istituto nazionale di urbanistica) dal 1952 al 1969. Nel 1945 fonda
insieme a Bruno Zevi, Mario Ridolfi e Pier Luigi Nervi l’Apao (associazione per
l’architettura organica) per promuovere quel tipo di
architettura derivante dalle opere di Frank Lloyd Wright. Professore emerito dal 1975, la sua
carriera universitaria comincia fino dai primi anni di laurea con la libera
docenza in urbanistica. Dal 1937 al 1950 svolge attività didattica presso
l’università di Napoli, passando poi, quale professore ordinario di
urbanistica, alla facoltà di Architettura di Venezia, dove rimane fino al 1963,
anno in cui si trasferisce alla stessa cattedra della facoltà di Architettura
di Roma. È stato consigliere comunale di Roma per il partito
socialista italiano dal 1956 al 1960”.
Nella parte iniziale della
sua relazione il professor Piccinato rilevò che, negli anni precedenti al 1966,
la mancanza di una normativa di piano consentì lo svilupparsi di un’attività
edilizia disordinata, valutata da Piccinato in modo fortemente negativo. Il
professor Piccinato citò, ad esempio, la costruzione di abitazioni di 4 o 5
piani sul ciglio della rupe e, sulle colline ad essa prospiciente, di diversi
edifici in zone panoramiche e vincolate dalla Soprintendenza, la realizzazione
della concessionaria della Fiat lungo la strada dell’Arcone a 200 metri da un
antico acquedotto e di nuove abitazioni ad Orvieto scalo, senza che “fosse
possibile dare una conformazione urbanistica a questa zona”.
Le principali motivazioni
alla base, secondo Piccinato, della necessità di realizzare un nuovo piano
erano le seguenti:
la realizzazione
dell’autostrada del Sole (il cui tracciato impediva fra l’altro che potessero
attuarsi le scelte del piano del 1956 riguardanti le nuove costruzioni ad
Orvieto scalo);
l’acquisizione da parte
dell’Amministrazione Comunale di un’area da destinare ad insediamenti
industriali, a Fontanelle di Bardano;
la creazione della nuova
strada statale Todi-Baschi.
Piccinato, poi, descrivendo Orvieto,
notò che “l’unità espressiva” del centro storico non poteva essere “sconvolta o
interrotta”, altrimenti sarebbe stato distrutto “un quadro storico di inestimabile
importanza”.
25
Ma il professor Piccinato aggiunse che
“il quadro non si limita all’antica città, isolata sulla rupe: esso trae, com’è
logico, la sua forza e si giustifica proprio nell’intero paesaggio che esalta
la forma e la struttura della città, immergendola in uno spazio che, da sempre,
ne ha formato il supporto indispensabile”. “Il paesaggio, dunque, fa parte
della città…La presenza di questo paesaggio è, di per se stessa, un tema che
chiede una sola soluzione, senza mezzi termini, quella della conservazione”. Ma
questa città non è solo e tanto un mondo da conservare…il tema della sua
conservazione non può essere risolto che in quello più vasto di una
pianificazione globale, nella quale siano almeno adombrati - se non presenti -
i termini di una visione programmatica dell’economia e dello spazio economico
di Orvieto”.
Pertanto, secondo Piccinato, nel piano
non si doveva affrontare solo il problema della conservazione del centro
storico, ma dovevano essere considerate molto importanti anche altre questioni
(nuove attività, nuovi “traffici”, nuova edilizia). Piccinato affermò inoltre
che “il piano regolatore generale deve individuare lo spirito della vita della
città: considerare, insomma, con gli aspetti storici, paesistici, anche quelli
economico-sociali…”.
Piccinato, poi, passò ad esaminare
sinteticamente le principali caratteristiche dell’economia orvietana, in gran
parte basata sull’agricoltura, (ciò aveva causato secondo Piccinato la lenta e
continua emigrazione di abitanti verificatasi a partire dal dopoguerra
soprattutto verso Roma ed anche una certa immigrazione locale dalle frazioni
verso la città, fattori che determinarono la sostanziale stabilità della
popolazione tra la metà degli anni ’50 e la metà degli anni ’60 accompagnata da
un notevole aumento del movimento pendolare giornaliero anche in questo caso
soprattutto verso Roma). Fra i dati sulla popolazione, riportati nella
relazione, si possono citare, per l’interesse che possono suscitare, il numero
degli abitanti residenti nel 1964 nel centro storico, ad Orvieto scalo e a
Sferracavallo, rispettivamente 9.694, 2.046 e 503.
Piccinato rilevò, quindi, che nel 1964
si era verificata “una clamorosa rottura” dell’isolamento di Orvieto, con
l’apertura al traffico dell’autostrada del Sole, che avrebbe determinato per Orvieto
nuove ed importanti prospettive economiche (già si era registrato nel corso di
due anni un incremento dei flussi turistici abbastanza consistente).
Piccinato, poi, affermò che, fino alla
metà degli anni ’60, l’isolamento di Orvieto fece sì che “per quanto riguarda
l’edilizia la città ha vissuto di se stessa, sfruttando, malauguratamente,
passo a passo la disponibilità del suolo” e che, esaminando la situazione
esistente nel 1920, da allora in poi erano scomparse le grandi aree libere che
ancora erano presenti nel centro storico. Fuori della città antica, l’unico
nucleo che ebbe un notevole sviluppo edilizio fu quello realizzato intorno alla
stazione
26
ferroviaria, dove furono create anche
alcune attività economiche. Il nucleo di Sferracavallo si sviluppò
successivamente, quasi come “propaggine dell’antica città”, mentre l’abitato di
Ciconia “ha avuto solo negli ultimi anni un certo sviluppo che ora sta
vivamente qualificandosi”.
Piccinato, inoltre, notò che, dalla metà
degli anni ’50, furono costruiti circa 3.000 vani, solo in apparente
contraddizione con la stabilità della popolazione, in quanto queste nuove
abitazioni furono realizzate in seguito alla scissione di nuclei familiari e
per migliorare il livello abitativo. Era cioè in corso un processo di
rinnovamento edilizio al quale il nuovo piano intendeva dare un preciso
indirizzo, altrimenti si sarebbero verificate conseguenze negative di notevole
rilievo, se si fosse lasciato spazio ad una espansione edilizia spontanea,
senza regole.
Piccinato, poi, affermò che Orvieto
stava sempre più assumendo “una nuova e più precisa qualificazione
comprensoriale”, a seguito soprattutto della futura realizzazione del nuovo
ospedale (occorre ricordare che il nuovo ospedale iniziò la sua attività solo nel
2000…), dell’istituto tecnico per geometri, del nuovo impianto polisportivo,
oltre che della già avvenuta apertura del casello dell’autostrada del Sole (ciò
avrebbe determinato la necessità di un’espansione residenziale).
Il piano era dimensionato sul fabbisogno
di un venticinquennio e, poiché in questo periodo piuttosto lungo si sarebbero
potuti verificare eventi non prevedibili
al momento della sua elaborazione, fu considerato un piano “aperto”, tale cioè
da consentire una realizzazione degli interventi previsti “a tappe” e da poter
far fronte ad eventuali imprevisti di notevole importanza.
Quindi anche il piano Piccinato, almeno
dall’autore, fu considerato un piano flessibile, definizione che fu attribuita,
anche perché determinata dalla nuova normativa regionale, 30 anni dopo, da
molti osservatori, al piano Rossi Doria.
Per arrivare a determinare il fabbisogno
abitativo Piccinato prese in considerazione vari elementi: l’andamento della
popolazione nell’ultimo decennio, l’andamento della popolazione nell’ultimo
triennio, l’incremento naturale della popolazione, la struttura della
popolazione in base all’età, la composizione della popolazione per tipo di
occupazione, i movimenti migratori, il numero dei nuovi vani necessari per
diminuire l’indice di affollamento, il numero di vani necessari per il rinnovo
delle abitazioni già esistenti e alcuni fattori di correzione.
Soprattutto fu considerato che
l’incremento notevole delle nascite faceva supporre che fosse in corso un
notevole processo di “ringiovanimento” della popolazione, che le emigrazioni
superavano le immigrazioni, che lo sviluppo edilizio verificatosi negli anni
’50 indicava l’esistenza di un fabbisogno dovuto alla scissione dei nuclei
27
familiari e alla ricerca di un migliore
livello abitativo, che sarebbe aumentato il numero dei lavoratori a seguito
della realizzazione di nuovi insediamenti produttivi, consentita dal piano, e
che il flusso turistico era notevolmente aumentato negli ultimi anni.
Tenuto presente tutto ciò, nella
relazione al piano fu esplicitamente sostenuto che l’obiettivo finale era di
raggiungere il numero di 35.000 abitanti nel 1990 (nel 1965 erano circa
24.000).
Non si può non rilevare che queste
previsioni non si verificarono affatto. La popolazione invece diminuì, nel
periodo considerato, in misura piuttosto notevole. E questa fu la seconda, e
grave, previsione decisamente sbagliata, sull’evoluzione demografica del comune
di Orvieto, alla base di un piano urbanistico, seguita da altre previsioni
relative alla popolazione, sempre sbagliate e sempre alle base di importanti
decisioni di carattere urbanistico, preceduta dalla previsione sbagliata che
utilizzò anche Bonelli per il suo piano.
Piccinato aggiunse che per gli 11.000
nuovi residenti nel venticinquennio (ulteriore considerazione personale, ma
perché fare una previsione relativa a un periodo così lungo, 25 anni, tale da
rendere molto incerte e poco attendibili le previsioni?), era auspicabile non
una loro uniforme distribuzione nel territorio comunale, ma una “localizzazione
qualificata sia quantitativamente sia qualitativamente”. Una frase decisamente
un po’ sibillina e non certo molto chiara.
Ma, riflettendoci un po’, l’espressione,
non certo molto esplicita, lascia trasparire quello che è stato senza dubbio
l’aspetto di maggiore rilievo del piano Piccinato, la scelta di Ciconia come
luogo dove far sorgere quella che potremmo chiamare la “nuova Orvieto”.
Piccinato, però, concluse la prima parte
della relazione al piano affermando che “naturalmente la dimensione totale - il
fabbisogno abitativo corrispondente cioè alla previsione di un aumento dei
residenti pari a 11.000 unità - è programmatica: non è quindi logico che essa
venga considerata come raggiungibile in modo assoluto. Dentro le maglie previste
deve, invece, rimanere lo spazio necessario per consentire un libero gioco di
scelta per il mercato delle aree, senza il quale si arriverebbe a un
supervalore delle aree fabbricative”. Altra frase non molto chiara, a mio
giudizio, che poteva rappresentare o la volontà di Piccinato, per così dire, di
mettere le mani avanti circa un eventuale errore nella previsione di
quell’incremento così consistente dei residenti o, invece, che quel fabbisogno
abitativo dovesse essere considerato come potenziale, nel senso che il numero
di nuove abitazioni, conseguenti al fabbisogno ipotizzato, sarebbe stato
realizzato solo se, effettivamente, si fosse verificato l’incremento
demografico previsto.
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5 erano gli elementi fondamentali del
piano Piccinato:
la riorganizzazione territoriale della
struttura urbana definendo le nuove zone di espansione e riqualificando quelle
esistenti;
l’individuazione di “centri di
produzione e di lavoro” (di aree per insediamenti produttivi cioè);
il completamento delle “attrezzature generali”
necessarie nelle varie parti del territorio comunale;
la risoluzione dei problemi della
“circolazione principale e secondaria”;
l’adozione di vincoli volti alla tutela
del paesaggio e al “risanamento conservativo” del centro storico.
Per quanto concerne l’individuazione di
nuove zone di espansione edilizia, secondo Piccinato il criterio di una
completa duplicazione della città - come avvenne ad esempio a Bergamo - non
poteva essere recepito “in toto” ad Orvieto.
Occorreva però considerare però che la
presenza di alcune vie di comunicazione molto importanti avevano già allora
reso Orvieto scalo una zona in cui si era verificata, nel corso degli ultimi
anni, un’espansione edilizia consistente, quasi “una nuova città”. Orvieto
scalo non poteva essere definito un vero e proprio quartiere (la popolazione
che vi risiedeva non era commisurata alla sua importanza economica e non era
possibile realizzarvi un’espansione edilizia notevole per mancanza di aree
edificatorie a meno che non si intendesse “distruggere il paesaggio
circostante, spingendo l’edilizia a risalire la valle del fosso dell’Abbadia”).
Per creare “un nuovo settore urbano”,
secondo Piccinato, era necessario oltrepassare il Paglia. Ed infatti il piano
individuò in una vasta area pianeggiante triangolare, ricompresa tra le strade
esistenti, l’attuale Ciconia, la zona ideale per “una espansione urbanistica
organizzata”. Nel piano si prevedeva la creazione di “un vero settore urbano
dotato di tutti i servizi, provvisto di scuole, centro commerciale, centro
religioso, zone verdi, strade veicolari e passaggi pedonali. Tutta la zona
marginale al fiume doveva essere destinata a verde: parco pubblico, campo
polisportivo, istituto per geometri, campi da gioco, passeggiate”. Il nuovo
settore urbano sarebbe stato strettamente collegato con Orvieto scalo tramite
il ponte sul Paglia, che era di recente costruzione.
29
Piccinato era consapevole del fatto che
sempre di più Orvieto scalo sarebbe stato interessato da consistenti flussi di
traffico, poiché vi si sarebbero concentrate tutta una serie di vie di
comunicazione. Di qui la necessità di separare “i due tipi principali di
circolazione: locale e intercomunale che oggi sono commisti in un unico
difficile slargo presso il piazzale della stazione e della funicolare. Il piano
provvede dunque a creare una deviazione della provinciale della stazione
prossima a diventare statale, sottopassando la ferrovia…”.
Per quanto riguarda Sferracavallo,
Piccinato rilevò che questa frazione non presentava “la compattezza che,
invece, esiste allo scalo, ma le casette sono sorte disponendosi linearmente
lungo le strade, con pregiudizio della struttura urbanistica locale che, fino
ad oggi, non è riuscita a qualificare una comunità ma solo a portare disturbo
all’unità del paesaggio”. Il piano, accettando la presenza di quella frazione,
prevedeva il suo completamento edilizio, garantendo con la realizzazione delle
mancanti “attrezzature” una coerenza urbanistica all’intero nucleo abitativo.
Con il piano, invece, si cercava di
impedire il proseguimento della tendenza già in atto alla “proliferazione di
casette, ville e villette in località Gabelletta…proliferazione che tende ad
estendersi fino alla località Tamburino, intorno al cimitero”. Se non fosse
stata contrastata quella tendenza, sarebbe stato danneggiato uno “spazio
paesistico importante” e si sarebbe formato “il solito anonimo sobborgo
lineare, purtroppo frequente in casi consimili, privo dei necessari servizi”.
Invece il piano individuò un’ampia area, in località Buon Viaggio, utilizzabile
per realizzarvi “un settore residenziale a ville”.
Per quanto riguarda le numerose piccole
frazioni esistenti nel territorio comunale, Piccinato rilevò che, pur nella
loro diversità, esse erano accomunate dalla tendenza al verificarsi di una
certa espansione edilizia, dovuta sia alla scissione dei nuclei familiari sia
alla ricerca di abitazioni migliori rispetto a quelle preesistenti. Alcune di
queste frazioni avevano un valore architettonico e paesistico di notevole
interesse, altre si prestavano ad essere località di villeggiatura. In ogni
piccola frazione il piano prevedeva “sufficienti” aree edilizie disposte in
modo tale non solo da conservare gli aspetti caratteristici delle diverse zone
ma da creare unità abitative dotate di una certa organicità e dei servizi
essenziali.
La necessità di prevedere due aree per
gli insediamenti produttivi (una a Fontanelle di Bardano e l’altra a Pian del
Vantaggio) veniva messa in relazione all’apertura del casello autostradale che
avrebbe reso possibile il verificarsi di un certo sviluppo dell’industria
manifatturiera e dell’industria di trasformazione dei prodotti agricoli.
Entrambe le aree erano situate a cinque chilometri dal casello autostradale,
“entrambe ben servite da buona viabilità”.
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Nella relazione, poi, si prevedeva che i
flussi turistici sarebbero aumentati in misura considerevole. Occorreva
pertanto riorganizzare la struttura ricettiva, realizzando nuovi alberghi e
camping.
Per quanto riguarda il terzo elemento
fondamentale del piano, le “attrezzature collettive”, si notò che fin da allora
il territorio comunale disponeva di un adeguato numero di queste
“attrezzature”. In seguito però all’espansione edilizia prevista nel piano, fu
anche indicata la necessità di costruire nuove scuole. Un centro scolastico di
notevole importanza sarebbe dovuto sorgere sulle rive del Paglia, nella zona di
Ciconia, in cui avrebbe trovato sede l’istituto tecnico per geometri ed una
scuola elementare. Nelle frazioni, veniva proposta una riorganizzazione del
sistema scolastico, chiudendo le scuole elementari meno frequentate e
promuovendo diversi accorpamenti (sarebbero stati fra l’altro costruiti edifici
nuovi e più rispondenti alle necessità dell’istruzione elementare). Nuove
scuole medie erano previste non solo nel centro storico, ma anche a Ciconia,
Orvieto scalo, Sferracavallo, Sugano e Torre San Severo (erano anche previste
diverse scuole materne).
Altre “attrezzature collettive” erano
indicate nel piano. Il mercato di piazza del Popolo doveva trasferirsi in
un’area, coperta, adiacente alla piazza. Si prevedeva la costruzione di un
ospedale comprensoriale, con circa 500 posti letto, in località Palombara, su
una altura di fronte al centro storico e ben collegata con le principali vie di
comunicazione. Nelle vicinanze del casello autostradale sarebbe dovuto sorgere
un autoporto. In un’ampia area dovevano cioè essere realizzati alcuni servizi a
vantaggio degli autotrasportatori: depositi e magazzini per le operazioni di
carico e scarico, un’officina per le riparazioni, un albergo o un motel. Nella
stessa area avrebbero dovuto trovare posto “i depositi dei servizi urbani,
delle vetture dei servizi pubblici collettivi (autobus, filobus, camion,
automezzi, nettezza urbana)”. Inoltre, poiché l’area, all’ingresso di Porta
Romana, utilizzata per la fiera del bestiame era insufficiente e non
pianeggiante, il piano prevedeva di destinare per questa fiera un’altra area,
adiacente all’allora nuovo mattatoio, presso il bivio per Bagnoregio.
Per quanto riguarda i problemi della
viabilità, il professor Piccinato rilevò che “il sistema circolare ai piedi
della rupe non può essere considerato indifferenziato nelle funzioni dei suoi
vari tratti: occorre che questi vengano qualificati nelle loro diverse
funzioni, componendo un sistema organico. Il piano regolatore dà maggiore
importanza al tratto sud (provinciale) prossimamente statale, che considera
come grande arteria per Viterbo, per innestarla, con una breve deviazione e
sottopasso alla ferrovia, nell’Amerina onde collegarla con l’autostrada del
Sole e con la nuova Ternana a Baschi. Insomma Orvieto trova i suoi scorrimenti
marginali in un nuovo sistema che sposta a Baschi il nodo che oggi impegna il
ponte dell’Adunata, in modo da svolgere linearmente il traffico importante
lungo la valle a sud di Orvieto”. Il tratto
31
nord della Umbro-Casentinese doveva
servire principalmente a collegare Orvieto scalo con il centro storico,
accedendovi sia da est che da ovest ed, inoltre, a raccogliere e a smistare il
traffico diretto alle frazioni, ad Orvieto scalo, a Ciconia e alla zona
industriale. Con il sistema di viabilità così organizzato, le strade statali 71
e 79 avrebbero perso la funzione di arterie di grande comunicazione per
assumere una funzione quasi locale, in modo tale da consentire tra di esse
sorgesse una “nuova espansione urbana” delle dimensioni previste dal piano,
cioè Ciconia. La presenza di questa espansione avrebbe consentito la
realizzazione, a monte del ponte dell’Adunata, di un altro breve tronco
stradale che sovrapassando il Paglia e sottopassando autostrada e ferrovia (i
sottopassaggi già esistevano) avrebbe collegato direttamente Ciconia con il
centro storico, Sferracavallo, la zona industriale di Fontanelle di Bardano,
senza che fosse necessario attraversare Orvieto scalo e il ponte dell’Adunata.
Il professor Piccinato affermò poi che
dalla soluzione dei problemi riguardanti i primi quattro elementi fondamentali
del piano “discendeva in qualche modo la tematica della sistemazione ed il
significato urbanistico stesso dell’antica città”. Le problematiche del centro
storico assumevano una dimensione più ampia rispetto al passato, in seguito
alla vastità dei rapporti con il
restante territorio e le sue attività, presi in esame nel piano. Secondo
Piccinato in precedenza “la città antica dentro le mura era considerata come il
solo vero corpo urbano: intorno la proliferazione di una periferia suburbana da
esso dipendente e, quindi, incapace di inserirsi in un più vasto quadro…Di qui
la sproporzione tra centro urbano e periferia; di qui la ricerca affannosa di
nuovi spazi edificatori nell’antica città, di qui l’assalto continuo agli orti
interni degli isolati, le sopraelevazioni e gli ampliamenti di vecchi edifici;
di qui la pressione della circolazione veicolare e della sosta delle vetture;
di qui insomma il tema della diuturna lotta per la conservazione e la
qualificazione ambientale, tema che troppo spesso si è risolto con la sconfitta
o con il compromesso. Di qui anche la menomazione del paesaggio invaso dalle disordinate
iniziative edilizie dei sobborghi, proliferati linearmente lungo le strade
anziché essere localizzate e composte urbanisticamente in nuove comunità”.
Il nuovo piano, invece, secondo il
professor Piccinato, avrebbe consentito di superare i problemi appena esposti e
che caratterizzarono in senso fortemente negativo l’evoluzione urbanistica di
Orvieto negli anni precedenti e, relativamente al centro storico, indicava il
“risanamento conservativo” quale base dell’attività edilizia. Infatti le norme edilizie,
contenute nel piano, se da un lato imponevano “l’intangibilità non solo dei
monumenti classificati, ma anche dell’intero ambiente di architettura minore
che ad essi fa corona” dall’altro favorivano il risanamento delle abitazioni
più degradate (del resto già negli anni precedenti l’Amministrazione Comunale
aveva affidato al professor Coppa l’incarico di elaborare un piano di
risanamento conservativo). E, secondo Piccinato, il piano di risanamento doveva
articolarsi in vari
32
interventi, tramite la definizione di
specifici piani particolareggiati, a seconda
delle esigenze che si manifestavano nelle diverse parti del centro
storico. Piccinato formulò, a tale proposito, alcune proposte ma notò che non
era compito del piano interessarsi di “operazioni di dettaglio”, bensì dei
piani particolareggiati. Due interventi però erano previsti: la realizzazione
di “una strada marginale all’edilizia sul lato del mezzogiorno della rupe” per
consentire l’accesso ad un parcheggio non lontano da piazza del Duomo, che
avrebbe permesso di liberare questa piazza dalla sosta di autoveicoli, ed il
trasferimento, già citato, del mercato di piazza del Popolo in un’area vicina.
Altre norme del piano erano, poi,
rivolte ad assicurare la tutela del paesaggio circostante la rupe. Infatti il
piano disponeva un vincolo di zona di non costruzione sulle pendici collinari
vicine alla rupe, estendendo i limiti già esistenti fino a raggiungere le rive
del Paglia, a est, comprendendo la collina che si erge tra il cimitero e il centro
storico, a ovest, risalendo oltre la zona dell’Abbadia, a sud. Il piano
disponeva il vincolo di zona a “parco privato vincolato” sulle pendici che
fiancheggiano la valle dell’Abbadia e su parte della riva sinistra del Paglia.
Piccinato rilevò, però, che la
salvaguardia del paesaggio non poteva essere affidata esclusivamente
all’imposizione di vincoli. Di qui la necessità che contemporaneamente il piano
indicasse con precisione le aree dove indirizzare le varie richieste,
soprattutto quelle relative alla realizzazione di nuove abitazioni.
La relazione al piano si conclude con
l’individuazione dei tempi di attuazione dei principali interventi previsti.
Furono individuate tre fasi.
Nella prima, le opere di competenza
dell’Amministrazione Comunale erano lo studio dei piani particolareggiati di
Ciconia e di Sferracavallo, la realizzazione dell’edilizia economica e popolare
a Ciconia, lo studio di un piano di risanamento pilota relativo al centro
storico, la realizzazione delle attrezzature sportive ed il completamento della
strada per Benano; le opere di competenza dell’Amministrazione Provinciale
erano la progettazione e l’inizio del nuovo ospedale comprensoriale, la
progettazione e l’inizio dell’istituto tecnico per geometri; per quanto
riguarda le opere di competenza dell’Amministrazione Statale era prevista solo
l’attuazione della deviazione della statale 71.
Nella seconda e terza fase erano
previste solo opere di competenza dell’Amministrazione Comunale.
Nella seconda, la realizzazione dei
piani particolareggiati di Ciconia e di Sferracavallo, la realizzazione del
mercato coperto, la sistemazione dell’area di
33
servizio adiacente al casello
autostradale, la realizzazione del nuovo ponte sul Paglia e lo studio del piano
particolareggiato della prima zona industriale.
Nella terza, infine, la realizzazione
della zona industriale, la realizzazione dei piani particolareggiati e la
realizzazione della strada marginale sulla rupe con relativa sistemazione dei
parcheggi.
Il piano redatto dal professor Piccinato
fu adottato dal Consiglio comunale, nella seduta del 21 maggio 1966.
L’adozione non avvenne all’unanimità. Vi
furono 8 voti contrari, espressi dai gruppi di minoranza, Dc e Pli. Diversi
rappresentanti di vari gruppi, soprattutto del gruppo Dc, formularono infatti,
nel corso del dibattito, numerose critiche nei confronti del piano Piccinato.
Il professor Stella criticò la scelta di
individuare, come principale area di espansione edilizia, la zona di Ciconia
ritenuta poco salubre “per l’umidità e la nebbia nell’inverno e il caldo
opprimente nell’estate” e propose che un’area di espansione fosse individuata
nella zona ricompresa tra la località Le Velette e Ponte del Sole. Criticò
anche la proposta di ampliare il divieto assoluto di costruire alle colline
vicine alla rupe (veniva considerato eccessivo il divieto ministeriale che già
esisteva per quanto riguarda le pendici della rupe).
Il consigliere Bordino, poi, rilevò
innanzitutto che, a suo giudizio, le previsioni di incremento della popolazione
formulate da Piccinato erano sbagliate, per eccesso. Concordò con le
osservazioni al piano presentate dal circolo di iniziativa culturale “Città
nuova”, secondo il quale la scelta di Ciconia era da valutare negativamente
perché quella zona era separata dal centro storico e dalle frazioni da alcuni
ostacoli di notevole entità quale il fiume Paglia, la ferrovia, l’autostrada
del Sole. Si riteneva che tale situazione avrebbe comportato in futuro problemi
rilevanti e che la costruzione di un secondo ponte sul Paglia si sarebbe
rivelata un’opera di difficile attuazione. Secondo Bordino, quindi,
indirizzando lo sviluppo edilizio principalmente verso Ciconia, sarebbe stata
creata una nuova città, una città satellite, dando vita ad una frattura tra il
vecchio e il nuovo. La creazione della nuova città avrebbe ostacolato non
favorito il risanamento del centro storico. In alternativa Bordino propose la
formazione di più aree di espansione, di dimensioni non molto differenti fra di
loro.
Il consigliere Dc criticò anche la scelta
di individuare due zone industriali, eccessivamente distanti dal casello
autostradale; sarebbe stato preferibile utilizzare un’area di 35 ettari situata nelle vicinanze del casello
autostradale. Sempre a proposito delle zone industriali, fu criticata la
proposta di rinviare alla seconda fase di
34
attuazione la definizione del piano
particolareggiato della prima zona ed alla terza la sua realizzazione
(occorreva invece realizzarla prima).
L’avvocato Romoli, sempre della Dc,
rilevò che, con la realizzazione di Ciconia, si sarebbe determinato lo
spopolamento del centro storico e si sarebbe creata una nuova città con
notevoli difficoltà di collegamento con la vecchia.
Anche secondo il professor Carletti,
anche lui democristiano, l’incremento della popolazione previsto da Piccinato
era eccessivo. Carletti poi dichiarò di essere contrario alla scelta di
indirizzare l’espansione edilizia quasi esclusivamente verso Ciconia e
Sferracavallo, nonché al divieto assoluto di costruire nelle colline vicine alla
rupe. Criticò inoltre il divieto di ogni sopraelevazione che veniva imposto per
quanto riguarda la zona A e notò che, per una serie di motivi, sarebbe stato
antieconomico costruire o ristrutturare nuove abitazioni in altre aree e
pertanto lo sviluppo edilizio si sarebbe naturalmente rivolto verso le zone di
Ciconia e di Sferracavallo.
L’avvocato Cinti, liberale, si espresse
favorevolmente nei confronti di una riduzione dei vincoli imposti dal piano,
soprattutto quello riguardante il divieto di accrescere “gli attuali volumi e
le altezze esistenti” che avrebbe, per quanto riguarda il centro storico, reso
difficili gli interventi di ristrutturazione.
Il senatore Romolo Tiberi, nel motivare
il voto contrario del gruppo Dc, affermò, fra l’altro, che gli appartenenti al
suo gruppo non negavano, pur sottolineando l’eccesso delle rigidità previste
nel piano, la necessità della tutela del patrimonio artistico, nelle forme
indicate dal professor Piccinato. Non venivano condivise “le linee generali
dello sviluppo e delle prospettive”, con riferimento soprattutto all’eccessiva
importanza attribuita a Ciconia come zona di espansione edilizia.
Diversi furono anche i rappresentanti
dei gruppi di maggioranza che intervennero nel dibattito.
L’assessore Cortoni, del Psi, difese la
scelta di individuare Ciconia come principale zona di espansione, rilevando che
già spontaneamente un certo numero di abitazioni era stato costruito in quella
località, che lo sviluppo edilizio non poteva più essere indirizzato a Orvieto
scalo, come indicato nel piano Bonelli, in seguito al verificarsi di fatti
nuovi quali la realizzazione dell’autostrada del Sole e che, in conseguenza
delle nuove infrastrutture stradali previste, non si sarebbe verificata una
frattura tra Ciconia e il centro storico. Cortoni poi affermò che non sarebbe
stato possibile realizzare la zona industriale nelle vicinanze del casello
autostradale perché l’area interessata era soggetta ad alluvioni derivanti
dallo straripamento del Paglia.
35
Una notazione: ma se si riconosceva fin
da allora che la zona appena citata era soggetta ad alluvioni, perché si
realizzò comunque una relativamente piccola area destinata soprattutto ad
attività commerciali e dove oggi è stata localizzata la nuova sede del
supermercato della Coop? Se si considera quello che si è verificato alcuni anni
or sono, l’alluvione che provocò notevoli danni, per fortuna solo alle “cose”,
sarebbe stato necessario che la consapevolezza dei rischi di alluvione, che
contraddistinguevano quell’area, avrebbe dovuto, successivamente, impedire la
realizzazione di quanto fu invece costruito. Quindi si può concludere che i
danni connessi all’alluvione di alcuni anni or sono potevano essere evitati, in
considerazione appunto della consapevolezza dei rischi che lì esistevano,
consapevolezza che già si era manifestata alla metà degli anni ’60.
Anche l’assessore Ottavio Rossi, del
Pci, rilevò che la scelta di Ciconia e di Sferracavallo come aree di espansione
edilizia era, in parte, conseguenza degli orientamenti già da tempo manifestati
dai cittadini.
Altra notazione: ma che argomentazione è
sostenere che viene scelta una zona di espansione edilizia piuttosto che
un’altra soprattutto perché alcuni cittadini già l’hanno scelta per costruirvi
abitazioni? Anche allora, il Pci e il Psi non erano dei partiti che, ad Orvieto
come altrove, consideravano importante la programmazione urbanistica per
individuare gli interventi migliori da realizzare per soddisfare l’interesse
generale, e che invece non ritenevano che dovessero essere seguiti
pedissequamente gli orientamenti spontanei di singoli cittadini, di singole
imprese e di singoli proprietari dei terreni?
Il consigliere Trequattrini, del Psiup, aggiunse che, diversamente da quanto
sostenuto dalle minoranze, il piano avrebbe favorito e non ostacolato gli
interventi di risanamento.
L’assessore Giulietti, del Psiup, fece
notare come fosse inevitabile che lo sviluppo edilizio di Orvieto avvenisse
fuori dalla rupe, non essendo più possibile che tale sviluppo si realizzasse
nel centro storico, se si intendeva effettivamente operare per la sua
salvaguardia.
L’assessore all’urbanistica Leccese, del
Psi, affermò che, in sostanza, tutte le critiche rivolte al piano tendevano ad
ottenere una riduzione dei vincoli in esso contenuti e, secondo Leccese, quei
vincoli erano indispensabili. Inoltre affermò che la distanza tra il casello
autostradale e le zone industriali indicate nel piano non era eccessiva e ciò
veniva dimostrato dal fatto che alcuni operatori economici avevano già
realizzato alcuni piccoli insediamenti produttivi in un’area presso il bivio
per Allerona, che era ancora più lontana dal casello rispetto a Fontanelle di
Bardano.
36
Il sindaco Torroni, del Pci, dopo essere
intervenuto all’inizio del dibattito esponendo le linee generali seguite
nell’elaborazione del piano, intervenne di nuovo ribadendo la necessità di
conservare il centro storico, senza farne un museo però, obiettivo che poteva
essere conseguito solo se fossero state individuate aree di espansione
edilizia all’esterno della rupe (non solamente a Ciconia ma anche Sferracavallo
e a Buon Viaggio).
L’onorevole Guidi, nel corso della
dichiarazione di voto a favore dell’adozione del piano effettuata in
rappresentanza del gruppo del Pci, affermò di pensare che dietro all’opposizione dei gruppi di minoranza nei confronti del
piano vi fosse anche l’opposizione nei riguardi del piano regionale di sviluppo
economico e sostenne esplicitamente che le prospettive di Orvieto erano legate
alle sorti dell’economia agricola dalla quale traevano origine tanti altri
problemi. Il nuovo piano, inoltre, veniva considerato come possibile elemento
propulsore dello sviluppo cittadino.
Quindi l’onorevole Guidi introduce un
argomento essenziale quando si discute di quali decisioni in campo urbanistico
devono essere prese: che cosa c’è dietro?
Però altri interrogativi a questo punto
possono sorgere: dietro le scelte dei partiti di maggioranza e dietro
l’opposizione dei partiti di minoranza c’era solo un modo diverso di
considerare l’interesse generale o c’era anche la volontà di tutelare
interessi precisi di singoli o di gruppi, di singole imprese, di singoli
proprietari di terreni?
Come già rilevato all’inizio non è tra i
fini di questo studio approfondire tali problematiche, per vari motivi, ma
l’importanza di questi interrogativi rimane e sarebbero molto utili, da un
punto di vista storico ormai, ulteriori e successive ricerche - perché no anche
tesi di laurea - che fossero indirizzate a fornire delle risposte a tali
interrogativi.
Nella seduta del 24 giugno 1967, il
Consiglio comunale prese in esame le osservazioni presentate da parte di
singoli cittadini e di enti nei confronti del piano redatto dal professor
Piccinato.
I rappresentanti dei gruppi di minoranza
(Dc, Pli e anche Psi che da pochi giorni era uscito dalla maggioranza) non
parteciparono né alla discussione né al voto perché avrebbero voluto che fosse
rinviato l’esame di quelle osservazioni per avere più tempo a disposizione per
valutare le proposte della Giunta comunale.
Curioso il comportamento del Psi che, in
precedenza, quando faceva parte della maggioranza, fu coinvolto in modo diretto
nell’elaborazione del piano. Infatti
37
l’assessore all’urbanistica era
socialista come lo stesso redattore del piano, il professor Piccinato, lo era.
Il Consiglio comunale, comunque, con la
partecipazione al voto dei soli consiglieri dei gruppi di maggioranza (Pci e
Psiup), accolse solo la metà delle osservazioni presentate, approvando le
modifiche al piano che risultava quindi, a loro giudizio, necessario approvare
(furono accolte 47 delle 96 osservazioni presentate). Fra le altre furono
respinte quelle presentate da Luigi Muzi, dall’Unione agricoltori, dal partito
liberale, da Sergio Ercini e da altri, dal circolo “Città nuova”, perché
ritenute in contrasto con l’impostazione generale del piano.
Nella seduta del 14 aprile 1969 il
Consiglio comunale esaminò le modifiche e le integrazioni al piano che il
Consiglio superiore del ministero dei Lavori Pubblici propose, nella riunione
del 27 marzo 1968, e che furono recepite dalla direzione generale
dell’Urbanistica del ministero, con la nota n. 4849 del 12 dicembre 1968. Fra
l’altro il Consiglio superiore del ministero propose di respingere,
diversamente da quanto fece il Consiglio comunale nella seduta del 24 giugno
1967, la quasi totalità delle osservazioni presentate, tranne tre che furono
invece considerate meritevoli di essere accolte.
La Giunta comunale propose al Consiglio
di accogliere nuovamente gran parte delle osservazioni presentate, soprattutto
quelle che riguardavano “l’ampliamento naturale di insediamenti residenziali,
in zone adiacenti a quelle previste dal piano, che erano sature fin
dall’origine e che allora, se accolte, potevano essere subito introdotte nel
piano con il decreto presidenziale di approvazione. Esse riguardavano
particolarmente tre zone di sviluppo - Sferracavallo, Canale e Torre San Severo
-, nonché gli insediamenti relativi alle zone a monte delle località Mossa del
Palio, zona Villanova, zona La Svolta, zona a valle di Rocca Ripesena, zona
Morrano e zona artigianale”.
La Giunta propose inoltre di approvare
di nuovo parte delle modifiche apportate alle norme tecniche di attuazione del
piano, e non accolte dal Consiglio superiore, “in modo da rendere meno gravose
alcune limitazioni e previsioni, che evidentemente erano sfuggite allo stesso
progettista del piano”. La principale di quelle modifiche concerneva la
possibilità che nei centri frazionali fossero consentite “le variazioni di
volume dei fabbricati esistenti sotto il profilo di miglioramenti estetici,
igienici e funzionali degli stessi” (in origine il piano imponeva quel vincolo
non solo al centro storico ma anche alle frazioni).
Il Consiglio comunale approvò,
all’unanimità, con l’astensione di due consiglieri - i rappresentanti del
gruppo socialista - le controdeduzioni al parere del Consiglio
38
superiore del ministero dei Lavori
Pubblici, proposte dalla Giunta (votarono a favore quindi anche i consiglieri
dei gruppi Dc e Pli).
Intervennero nel dibattito che
precedette il voto i consiglieri Bordino e Cortoni e l’assessore Rossi.
Bordino si chiese perché, in
considerazione del fatto che molte delle controdeduzioni proposte nella
riunione del Consiglio comunale dell’aprile 1969 recepivano gran parte delle
critiche al piano formulate dal gruppo Dc in sede di sua prima approvazione nel
maggio del 1966, non si volle allora (nel 1966 cioè) “dare ascolto alla voce
dell’opposizione” e perché “l’Amministrazione Comunale ha fatto l’errore di
accogliere a scatola chiusa un piano regolatore soltanto perché era stato
firmato da un illustre studioso della materia che, però, aveva assai poco
studiato la complessa realtà di Orvieto” - come dire un attacco ai
“professoroni” quello di Bordino…-. Bordino aggiunse che, nelle
controdeduzioni, si riconosceva la necessità di completare Sferracavallo,
accogliendo in pratica quanto sostenuto dal gruppo Dc nel 1966 circa
l’opportunità di promuovere uno sviluppo policentrico, puntando cioè a
espandere contemporaneamente Sferracavallo, la Gabelletta e Ciconia.
Cortoni fece notare che, all’inizio del
dibattito che si sviluppò in città sui contenuti del piano, l’atteggiamento
della Dc non fu di collaborazione, tutt’altro, e ci si limitò ad un’opposizione
di principio e non ad un’opposizione costruttiva (Cortoni citò come esempio una
mostra fotografica del circolo “Città nuova”, ritenuto emanazione di Bordino,
in cui fu esposta anche una fotografia del professor Piccinato in divisa da
fascista). Cortoni poi, riferendosi al precedente intervento del consigliere
Bordino, rilevò che, come nel 1966, il rappresentante del gruppo Dc affermò che
il piano regolatore era completamente sbagliato, senza però precisare i
contenuti di un eventuale piano alternativo. Cortoni aggiunse che, nella seduta
del Consiglio nella quale furono esaminate le osservazioni al piano, i
socialisti uscirono dall’aula perché ritennero che con l’accoglimento di alcune
osservazioni non si chiedesse altro che il consenso per poter concedere o non
concedere delle “licenze” edilizie (è evidente che Cortoni intendeva sostenere
che alcune osservazioni accolte tendevano solo a soddisfare interessi di
singoli). Cortoni concluse affermando che condivideva solo parte delle
controdeduzioni presentate dalla Giunta e, fra l’altro, si espresse a favore
del mantenimento del divieto delle sopraelevazioni anche nelle frazioni.
L’assessore Rossi precisò che il piano
prevedeva un’area di 145 ettari in cui si poteva edificare, non determinando
perciò alcun blocco dello sviluppo edilizio (dal 1966 al 1969 furono rilasciate
336 “licenze” edilizie). Criticò inoltre le minoranze, che pur valutando in
modo fortemente negativo i contenuti del piano non avevano indicato
concretamente quale strumento urbanistico alternativo avrebbero voluto. Rossi
poi affermò che non corrispondeva a verità l’opinione secondo la quale parte
delle
39
osservazioni presentate tendessero a
salvaguardare interessi personali e a coprire quindi delle speculazioni
edilizie. Invece, a suo avviso, “nell’iter amministrativo del piano regolatore
si è seguita la vita democratica accogliendo l’apporto di tutti i cittadini che
hanno inteso proporre osservazioni”. Infine Rossi sostenne, per controbattere
alle critiche che nuovamente erano state rivolte all’impostazione generale del
piano, che “non esistevano altre alternative in quanto non era possibile
costruire grattacieli in Orvieto, non era possibile consentire le costruzioni
nella fascia sotto la rupe, non era possibile consentire le costruzioni in
località Abbadia. Ed il piano regolatore ha tenuto presente tali realtà”.
Infine occorre notare che il piano
regolatore, redatto dal professor Piccinato, fu approvato definitivamente dal
ministero dei Lavori Pubblici solo nel 1971.
Mi sembra evidente che il piano
Piccinato ha assunto un’importanza fondamentale per l’allora futuro di Orvieto
e per il suo attuale presente. Principalmente perché con quel piano fu presa la
decisione di puntare come zona di espansione edilizia soprattutto su Ciconia,
in cui oggi abitano 5.000 persone, mentre solo alcune centinaia in più sono
residenti nel centro storico (mentre 50 anni or sono erano quasi 10.000).
A questo punto alcune considerazioni mi
sembrano necessarie.
Proprio facendo riferimento all’ultimo
intervento dell’assessore Ottavio Rossi, era proprio vero che non ci fossero
alternative? Era vero che non ci fossero alternative a Ciconia come zona di
espansione principale? E, soprattutto, non era possibile in alternativa
prevedere più zone di espansione delle stesse dimensioni invece della decisione
di realizzare una zona, localizzata a Ciconia, decisamente più estesa delle
altre? Fra l’altro nel dibattito che si sviluppò in occasione dell’adozione del
piano furono evidenziate alcune possibili alternative. Quali furono i motivi,
quelli veri, che impedirono il loro accoglimento? O meglio erano realmente
validi i motivi addotti, da quanti in Consiglio comunale hanno sostenuto il
piano Piccinato, per giustificare la scelta di prevedere, di fatto, come
principale e quasi unica zona di espansione, appunto Ciconia?
Ulteriore considerazione: anche nel caso
del piano Piccinato, come, per la verità, per molti altri piani urbanistici,
relativi a molte altre città, si pensava prima ai luoghi dove costruire e solo
dopo alle infrastrutture viarie da realizzare affinchè non ci fossero eccessivi
problemi di viabilità. E, di nuovo, ritorna ad essere presa in considerazione
la scelta di Ciconia. C’era sì la consapevolezza che l’assetto viario dovesse
essere modificato in seguito alla forte crescita demografica che ci sarebbe
stata in quella località, ma non si valutò quanto fosse possibile e in quali
tempi cambiare, come indicato, quell’assetto viario. E forse sarebbe stato
meglio prevedere
40
la più importante zona di espansione
edilizia in un’area dove sarebbero stati necessari cambiamenti nell’assetto
viario di minore entità o prevedere più zone di espansione di dimensioni
pressocchè uguali. Un solo esempio, il piano Piccinato prevedeva la costruzione
di un secondo ponte sul fiume Paglia:
ancora oggi non è stato realizzato, 50 anni dopo, anche se verrà
costruito, finalmente, entro breve tempo.
Altra considerazione: ancora una volta
furono formulate previsioni demografiche, alla base della
determinazione del fabbisogno edilizio, che si sono rivelate totalmente
sbagliate, anche perché si ipotizzava un incremento della popolazione molto
consistente. Non è stata la prima volta che questo è avvenuto ad Orvieto, in
relazione alle decisioni di natura urbanistica, e ciò si è verificato in molte
altre città. Sorge un dubbio, chi ha formulato quelle previsioni demografiche
forse era consapevole che non si sarebbero affatto realizzate e nonostante
questo, per giustificare un elevato
fabbisogno edilizio, ha continuato a prenderle in considerazione?
Ultima considerazione per ora, o meglio
una domanda: perché in fase di approvazione del piano Piccinato le posizioni
espresse dai rappresentanti del gruppo Dc si modificarono, si ammorbidirono,
dal momento che le modifiche apportate al piano Piccinato, nel suo iter di
approvazione, non furono sostanziali, rimanendo infatti le stesse le
caratteristiche principali del piano?
Poiché il piano Piccinato fu,
oggettivamente, fondamentale per Orvieto, considerando che Piccinato elaborò
anche un piano urbanistico per Roma, ho ritenuto opportuno riportare un
articolo di Giuseppe Pullara, pubblicato nelle pagine romane de “Il Corriere
della Sera”, l’8 settembre del 2013, in occasione del trentesimo anno dalla
morte di Piccinato. Nell’articolo sono contenute anche parte delle critiche che
furono rivolte a Piccinato al piano realizzato per Roma come sono contenute
parte delle valutazioni positive relativo allo stesso.
L'originale
e le infinite varianti del “piano Piccinato”
E’ stata dura per me - dice Giorgio
Piccinato, 77 anni, urbanista, docente a Roma Tre - appena laureato lavoravo a
studio da zio Luigi a piazza Jacini. Lui giocava un ruolo da divo, aveva sempre
una risposta a tutto. Era un tipo gioviale, dalla battuta facile”. In famiglia si ricordano in questi
giorni i trent'anni dalla scomparsa del più celebre dei congiunti: Luigi
Piccinato, uno degli urbanisti più importanti del secondo dopoguerra,
soprattutto il capofila degli autori del Piano regolatore di Roma del 1962, il
primo dopo quello fascista del 1931.
All'inizio degli anni Cinquanta il
Comune mise mano ad un nuovo progetto di sviluppo della città: anni ruggenti,
demografia impazzita (+50/60.000 abitanti
41
all'anno!) ed enormi speculazioni. Nel
‘57 un Comitato tecnico (con Piccinato) presentò una proposta che fu malamente
trasformata dalla giunta democristiana e che venne in parte ripristinata da una
speciale commissione di cinque saggi di nomina ministeriale (guidata da
Piccinato, con Vincenzo Passarelli, Michele Valori, Piero Maria Lugli, Mario
Fiorentino).
Il Piano fu infine adottato nel 1962 e
approvato dal Quirinale tre anni dopo.
Dieci anni fa è stato sostituito dal Prg
firmato Veltroni.
Il “Piano Piccinato” ha operato per
quarant'anni, infarcito di “varianti” e correzioni di ogni genere. A lui si
deve grosso modo l'aspetto attuale della città, nel (poco) bene e nel (tanto)
male.
Il Piano successivo in buona parte ha
sviluppato anche se corretto le linee già stabilite lasciando ufficialmente
aperta ogni possibilità di trasformazione urbana con gli “accordi di
programma”, le “varianti” e soprattutto la logica che sostiene l'intero
progetto: “Pianificar facendo”.
Nato a sinistra, l'attuale Prg è andato
proprio per questo quasi bene anche alla destra di Alemanno.
Il Piano regolatore di Piccinato, pur
essendo considerato dal suo co-autore “flessibile”, ossia vivo e adattabile
alle circostanze che via via si sarebbero presentate, è in sostanza l'ultimo
Piano “rigido”, che fissa nei dettagli (coloratissimi sulle mappe) tutte le
funzioni che il territorio dovrà assumere.
Un Piano che parte dall'idea che il
Comune deve decidere dove e come va la città (un'idea cara a Luigi, socialista
militante) non lasciando i suoi 150.000 ettari a se stessi e alla speculazione.
Con tutti i suoi difetti, il Prg del ’62
è stata l'ultima occasione in cui Roma ha avuto un progetto strategico
fortemente caratterizzato da idee perfino grandiose. Dopo, gli ideali
urbanistici sembrano essere calati nell'ordinario mondo della realtà.
“La tutela del centro storico comincia
dalla periferia” diceva Piccinato. E così nacque l'idea di un asse attrezzato
da piazzare tra Est e Sud per portare il direzionale fuori dal centro,
liberando la parte più prestigiosa della città.
Un progetto basato sul trasporto su
gomma e non sul ferro (metrò), cosa che ancora pesa su Roma.
42
L'espansione urbana doveva avvenire con
nuovi quartieri autosufficienti (restati scollegati tra loro e col centro) in
grado di soddisfare un incremento di popolazione fino a 5 milioni (un errore,
ma la previsione serviva per garantire lo sviluppo incontrollato del
territorio).
Il verde pubblico sarebbe stato
abbondante e pianificato.
Tutto il tema delle immense periferie,
che sarebbe esploso nei primi anni di attuazione del Piano, fu trascurato.
Scrive Italo Insolera (Roma moderna, ed.
‘93, pag. 263): “Non è dato vedere una politica delle periferie intesa come
rottura della tradizionale indifferenza dei Prg romani verso quelle zone della
città dove, nelle baracche, nelle borgate, negli alveari di cemento armato si
accumulano da cento anni energie umiliate e frustrate, vane speranze di uomini
a cui non è stato dato di partecipare all'evoluzione di quella civile comunità
di persone che dovrebbe essere una città”.
Il Piano di Piccinato negava
l'“urbanistica contrattata” venuta poi, anche se “teneva conto con intelligenza
delle forze in campo” come annota il nipote Giorgio.
Tentò di coniugare spinte conservatrici
con propositi riformisti.
Scelse lo sviluppo direzionale a Est con
un aeroporto internazionale nell'estremo Ovest negando (forse perché
d'ispirazione fascista) l'opzione “a mare” che si è realizzata fuori controllo
in seguito.
Nonostante il Piano, il “sacco di Roma”
denunciato anni prima da Aldo Natoli in consiglio comunale, procedette
inesorabile.
“Noi urbanisti - commenta amaro Giorgio
Piccinato - abbiamo il compito di capire come funziona una città. Come vanno
poi le cose dipende dai tanti protagonisti in campo: politici, amministratori,
categorie, forze sociali, finanza, cittadini”.
43
La variante (o piano) Benevolo-Satolli
Come precisò il sindaco professor
Giulietti nel suo intervento introduttivo, nella seduta del Consiglio comunale
del 17 gennaio 1977, si manifestò la necessità di realizzare una variante al
piano Piccinato in seguito ai mutamenti intervenuti ad Orvieto dopo
l’approvazione di quel piano, sia relativamente alla situazione economica sia a
quella sociale e culturale.
I più importanti mutamenti, a cui fece
esplicito riferimento Giulietti, erano i seguenti:
la diminuzione della popolazione;
l’impoverimento dell’agricoltura con il
conseguente abbandono delle campagne da parte dei contadini;
l’incremento dei flussi turistici legato
all’apertura del casello dell’autostrada del Sole;
l’elevazione culturale della
popolazione;
l’interesse nazionale e mondiale per la
sistemazione urbanistica di Orvieto;
una nuova legislazione statale e
regionale, il piano decennale per la casa, la legge sul regime dei suoli;
la presa di coscienza della comunità
orvietana per “sbloccare” il centro storico.
Giulietti aggiunse poi che nella
redazione della variante furono compiute alcune scelte fondamentali:
il recupero e la valorizzazione del
centro storico;
il riequilibrio tra edilizia privata ed
edilizia pubblica;
un sufficiente sviluppo delle frazioni;
la tutela del territorio dal punto di
vista ecologico e paesaggistico legata allo sviluppo dell’agricoltura.
La variante al piano Piccinato,
realizzata nel 1976, fu redatta dall’architetto Satolli, allora direttore
dell’ufficio urbanistico speciale del Comune di Orvieto, con la
44
consulenza del professor Leonardo
Benevolo e con l’utilizzo dei dati statistici raccolti dall’Is.so.co.
L’architetto Satolli, orvietano, è ben
conosciuto nella nostra città. Dopo quell’incarico presso il Comune, è stato
per diversi anni docente presso l’istituto d’arte locale, si è occupato della
progettazione di vari interventi di ristrutturazione del patrimonio storico ed
artistico di Orvieto, ha scritto numerosi libri sulla storia della nostra città
e, negli ultimi anni, sulla storia della ceramica artistica orvietana.
Chi è invece Leonardo Benevolo?
Anche in questo caso ho ritenuto
opportuno, per la sua biografia, di fare riferimento alla voce a lui dedicata
da Wikipedia.
“Leonardo Benevolo (Orta San Giulio, 25
settembre 1923) è un
architetto, urbanista e storico dell’architettura. Ha
studiato architettura all’università di Roma, dove si è laureato nel 1946.
Successivamente ha insegnato storia dell'architettura dapprima nello stesso
Ateneo, e poi alle università di Firenze, Venezia e di Palermo. Per
le sue prime, geniali intuizioni (rivoluzionarie per la cultura di quegli
anni), in particolare sulla differenza fondamentale fra architettura romana e
architettura greca, gli fu assegnata la cattedra di ‘Storia e stili
dell'architettura I e II’ nella facoltà di Roma nel 1956, a soli 33 anni. I
suoi scritti, diffusi e tradotti in molti Paesi, gli hanno procurato fama
internazionale, sicché lo si può considerare a pieno titolo come uno dei
massimi storici viventi dell’architettura e dell’urbanistica. Oltre a tali attività didattiche Leonardo Benevolo ha
svolto un'intensa attività professionale, che lo ha portato a progettare e
costruire la nuova sede della fiera di Bologna (assieme a Tommaso Giura Longo e
Carlo Melograni), il piano regolatore di Ascoli Piceno, il piano del centro
storico di Bologna, il piano
regolatore di Monza (1993-1997). È
stato inoltre membro della commissione incaricata del piano di ricostruzione
dell'area completamente devastata nel 1963 dal disastro del Vajont, dovuto alla
tracimazione delle acque dell'omonima diga, causa di migliaia di morti e della
distruzione totale dei paesi di Longarone, Casso, Erto. Chiamato a Brescia, da
Luigi Bazoli (allora assessore all'urbanistica), per redigere la variante
generale del piano regolatore, ideerà e progetterà a partire dal 1973 il
quartiere di San Polo (la cui realizzazione si protrarrà fino agli anni 1990).
Da allora, si è stabilito definitivamente a Brescia, continuando l'attività
professionale, specie in urbanistica (piani regolatori di diverse città
piemontesi e lombarde). Attualmente opera sia in campo progettuale che teorico,
con una ininterrotta produzione di testi. Nel 1981, fino al 1983, viene
incaricato dal Comune di Urbino, per redigere una variante al Piano Regolatore,
con la progettazione e la realizzazione del quartiere ‘La Piantata’. Durante gli anni ottanta animò il dibattito, accademico e
non, sostenendo l'utilità storica, culturale e sociale, dell'abbattimento del
Vittoriano (Altare della Patria) di Roma”.
45
Quindi, come Piccinato,
scegliendo Benevolo fu scelto uno studioso di livello nazionale ed
internazionale.
L’autorizzazione per la
realizzazione di questa variante fu richiesta dal Consiglio comunale con una
delibera del 13 dicembre 1974 e fu concessa dalla Regione dell’Umbria con un
decreto dell’11 giugno 1975.
Nella parte iniziale della
relazione alla variante Benevolo-Satolli furono analizzate le tendenze della
popolazione e del fabbisogno abitativo. Fu innanzitutto rilevato che nel
quindicennio 1961-1975 si era verificata una tendenza della popolazione ad una
lieve diminuzione (nel 1961 i residenti erano 25.100 e nel 1975 23.400). La
causa principale di tale diminuzione fu individuata nel fatto che, in quasi
tutti gli anni considerati, si manifestò
un saldo migratorio negativo (inoltre si verificò una tendenza continua alla
diminuzione dei nati e all’aumento dei morti, dovuta all’invecchiamento della
popolazione a sua volta determinato dai flussi migratori). Si affermò inoltre
che le tendenze verificatesi nel movimento naturale della popolazione, molto
probabilmente, non si sarebbero modificate nel breve periodo (si sarebbero
potute modificare solo se si fosse verificata una consistente immigrazione di
popolazione giovane e un arresto dell’emigrazione, eventi questi ritenuti del
tutto improbabili). Poi si considerò che sarebbe stata probabile una ripresa
dell’emigrazione, perché erano venute meno le cause che determinarono la
diminuzione del numero degli emigrati avvenuta nel quinquennio 1971-1975.
In base a queste
valutazioni, nella relazione si affermò testualmente che la popolazione in
futuro sarebbe rimasta stabile o si sarebbe ridotta. Si fece anche una
previsione al 1985 della popolazione secondo la quale i residenti nel comune di
Orvieto sarebbero stati circa 22.000 (il dato reale non si discostò di molto da
tale previsione).
Quindi, questa volta, una
previsione riguardo all’evoluzione demografica nel comune di Orvieto corretta,
diversamente da quanto avvenne con quella, totalmente sbagliata, alla base del
piano Piccinato.
Si pervenne quindi ad un
prima conclusione: “non essendo il territorio comunale di Orvieto zona di
espansione demografica non c’è problema di soddisfazione di un fabbisogno
ulteriore rispetto a quella attualmente esistente, ma c’è solo il problema di
soddisfare il fabbisogno esistente”.
Un bel cambiamento
rispetto all’impostazione del piano Piccinato!
Successivamente si
procedette a calcolare il fabbisogno abitativo arretrato.
46
Furono presi in esame i
nuclei familiari residenti in abitazioni nelle quali il numero dei vani era
inferiore al numero degli abitanti. L’ammontare complessivo del fabbisogno
arretrato si ottenne sommando gli abitanti in eccesso rispetto al numero dei
vani (nel 1961 quel fabbisogno era pari a 6.032 vani e nel 1971 scese a 3.081
con un diminuzione pari al 49% determinata soprattutto dalla costruzione di
nuove abitazioni, essendosi ridotta la popolazione nello stesso periodo solo
del 7,4%). Pertanto si era verificata non solo una tendenza alla riduzione della
popolazione ma anche una tendenza alla riduzione del fabbisogno, molto più
consistente della prima.
Il territorio comunale poi
fu suddiviso in tre parti, per tenere conto delle differenze nell’andamento
della popolazione e nelle variazioni del fabbisogno.
Le tre parti erano:
il centro storico;
la periferia
urbanizzata o in via di urbanizzazione;
la periferia agricola (le
principali frazioni considerate appartenenti
alla periferia agricola erano Benano, Canale, Corbara, Morrano, Rocca
Ripesena, S.Egidio, Sugano, Titignano, Torre San Severo e Prodo).
Le tre zone erano
effettivamente caratterizzate da diversità significative. Pertanto avrebbero
richiesto “un intervento con strumenti urbanistici differenziati e, almeno per
la campagna, coordinato con un intervento di risanamento e di sviluppo
economico”.
Nel decennio 1961-1971, il
centro storico (zona 1) fu contraddistinto da una riduzione della popolazione
pari al 7,9% e da una riduzione del fabbisogno molto più rilevante, pari al
44,6% (quest’ultima riduzione fu determinata più dalla riduzione della
popolazione che da nuove costruzioni). Aumentarono inoltre le stanze non
occupate (l’aumento fu pari al 59%) fino a raggiungere, nel 1976, il numero di
636, quasi uguale all’entità del fabbisogno (683 stanze).
Nella periferia urbana
(zona 2) si registrò invece un aumento della popolazione pari al 26,5% e una
riduzione del fabbisogno abbastanza consistente, pari a 283 stanze (nel 1971 il
fabbisogno era pari a 1.101 stanze). Le nuove costruzioni infatti avevano più
che compensato il fabbisogno determinato dall’aumento della popolazione. Anche
in questa zona, come nelle altre due, aumentò il numero delle stanze vuote, le
cui caratteristiche però erano diverse rispetto alle stanze vuote delle altre
due zone (in
47
queste ultime le stanze
vuote riguardavano abitazioni di vecchia costruzione mentre nella seconda zona
riguardavano abitazioni di nuova costruzione).
Nella periferia agricola
(zona 3) si verificò una diminuzione della popolazione pari al 27,2% della
popolazione che provocò anche una notevole diminuzione del fabbisogno, pari a
circa il 50%, e un consistente aumento delle stanze vuote, pari al 96%.
Nella relazione si
concluse quindi che le differenze tra le tre zone erano piuttosto notevoli (il
centro storico e la periferia rurale erano zone di esodo e i nuovi insediamenti
abitativi si concentravano nella periferia urbana) e che anche le linee della
pianificazione urbanistica dovessero essere diverse.
Nel centro storico
occorreva soddisfare il fabbisogno tramite il recupero e la riqualificazione
del “vuoto” esistente, nella periferia urbana era necessario soddisfare il
fabbisogno arretrato (1.100 stanze) sia con interventi di edilizia pubblica sia
con interventi di edilizia privata (questi ultimi relativi a 1.000 stanze
circa), nella periferia agricola occorreva infine recuperare e riqualificare il
“vuoto” esistente - di entità superiore al fabbisogno - e promuovere interventi
a favore dell’agricoltura, quali quelli previsti dal piano di sviluppo della
zona dell’Orvietano.
Nella relazione, poi, si
passò a definire con più precisione gli interventi da realizzare nelle tre
zone.
L’obiettivo principale che
doveva essere perseguito nel centro storico era rappresentato dalla necessità
di soddisfare il fabbisogno arretrato (pari a 683 vani). Non veniva, pertanto,
ipotizzato alcun ulteriore fabbisogno (in sostanza si sosteneva che la popolazione dovesse stabilizzarsi intorno
alle 8.500 unità) - di nuovo occorre ricordarsi che attualmente la popolazione
nel centro storico è pari a circa 5.300 residenti -. Una volta soddisfatto il
fabbisogno arretrato, se vi fosse stato “un certo margine di cubatura utile”,
questo avrebbe dovuto essere utilizzato per servizi pubblici, sia di quartiere
che generali, oltre quelli già previsti. Si rilevò inoltre che per realizzare
la necessaria “conservazione integrata” del centro storico sarebbe stato
indispensabile elaborare un piano particolareggiato, basato su una conoscenza
approfondita della “realtà fisica” controllata però continuamente “dall’analisi
critica dei fattori economici onnipresenti nella formazione di un tessuto
urbano che si sovrappone al tessuto sociale che lo genera. Il piano
particolareggiato, senza una valutazione di aspetti economico-sociali come la
consistenza della proprietà, la distribuzione del reddito, le abitudini e i
comportamenti della gente sia nella forma di vita privata che collettiva,
rimarrebbe un’astrazione, specialmente in riferimento al suo obiettivo
principale che è quello del restauro sociale, integrale, del centro storico”.
48
Il piano particolareggiato
si sarebbe dovuto articolare in diversi piani di settore: il P.e.e.p. (piano di
edilizia economica e popolare) che doveva riequilibrare “sia la distribuzione
della popolazione sia il mercato degli alloggi e i costi degli affitti”, il
piano dei contenitori storici che doveva affrontare le problematiche inerenti
la quantificazione e la localizzazione dei servizi, il piano del verde, il
piano dei trasporti urbani e dei parcheggi-garage extraurbani tendente a
limitare il traffico privato all’interno del centro storico (con l’obiettivo
finale di pervenire alla sua completa abolizione) e a sviluppare
contemporaneamente l’utilizzo dei mezzi pubblici di trasporto, il piano per
l’arredo urbano e la “passeggiata archeologica” che avrebbe dovuto comprendere,
oltre alla campagna scavi delle necropoli, anche interventi di consolidamento
della rupe e la sistemazione a parco delle zone verdi suburbane.
Il piano per l’arredo
urbano! Quante volte se ne è parlato ad Orvieto, nel corso degli anni, e non è
stato mai realizzato.
Da notare che si fa
riferimento ad interventi di consolidamento della rupe prima che si
verificassero, alcuni anni dopo, le gravi frane che destarono un grande allarme
non solo fra gli orvietani ma anche a livello nazionale ed internazionale, che
portarono poi all’approvazione di leggi speciali che consentirono la
realizzazione di un programma complessivo di interventi di consolidamento della
rupe e di interventi di ristrutturazione del patrimonio storico-artistico
presente nel centro storico, che fu denominato Progetto Orvieto.
La zona 2, la periferia
urbana, che comprendeva i nuclei immediatamente a valle della rupe e la
frazione di Canale nuovo, era considerata “la zona meno squilibrata del
territorio comunale dal punto di vista dell’affollamento, ma è sicuramente
quella più disorganica dal punto di vista urbanistico”. Il pericolo maggiore
per questa zona era rappresentato dalla possibilità che si consolidasse “la sua
conformazione di periferia dipendente e perciò informe”. Si faceva riferimento
soprattutto ai piccoli nuclei, sorti spontaneamente ai “crocicchi” delle
strade, che si svilupparono in misura eccessiva nel dopoguerra, frenati
solamente dall’indicazione contenuta nel piano Piccinato, come principale area
di espansione, della zona di Ciconia.
Per la periferia urbana si
stabilì che il fabbisogno di 1.100 vani dovesse essere completamente
soddisfatto dall’intervento pubblico e che questo dovesse essere integrato da
un intervento dei privati di poco inferiore (per quest’ultimo intervento cioè
fu decisa una limitazione ben precisa). Furono poi individuate le aree
utilizzabili dagli interventi pubblici e quelle utilizzabili dai privati, per
perseguire gli obiettivi di non aumentare la quantità di aree urbanizzate e di
controllare direttamente la crescita di quelle esistenti.
49
Fu deciso inoltre di
ridurre le lottizzazioni già approvate in base al piano Piccinato perché,
altrimenti, sarebbero state superate le previsioni relative al fabbisogno già
citate in precedenza, destinando a servizi pubblici i lotti esclusi. Le
“esclusioni” riguardarono principalmente le seguenti lottizzazioni:
Urbani-Barbini, Soleica, Ciucci, Muzi-Bottai-Perali.
Si propose quindi un
ridimensionamento dell’intervento privato, sostanzialmente perché le previsioni
contenute nel piano Piccinato furono ritenute eccessive, ma nella relazione si
affermò esplicitamente che non si intendeva mortificare “né l’iniziativa
privata né le possibilità di lavoro per le imprese private. L’intervento
pubblico, infatti, si limita a fornire strumenti operativi (Peep) e ad
occuparsi direttamente dell’urbanizzazione delle aree, ma l’esecuzione sarà
demandata comunque ad imprese private mentre il mercato dell’edilizia
convenzionata potrà avere solo effetti benefici sul costo degli alloggi e sugli
affitti”.
Nelle diverse parti della
zona 2 il numero dei nuovi vani da costruire era il seguente: Sferracavallo
(129 in seguito all’intervento privato e 170 in seguito all’intervento pubblico),
Ciconia (596 e 850), Canale nuovo (181 e 80), Gabelletta, Ponte del Sole e
Orvieto scalo (rispettivamente 18, 4 e 96 ad opera dell’intervento privato).
Nella periferia rurale
(zona 3) non fu possibile determinare il numero di nuove costruzioni necessarie,
seguendo gli stessi criteri utilizzati nella zona 2, a causa delle diverse
caratteristiche che contraddistinguevano le due zone. Infatti solo teoricamente
il fabbisogno della zona 3, che ammontava a 1.297 vani, si sarebbe potuto
ampiamente soddisfare con l’utilizzo dei vani vuoti (nel 1971 erano pari a
1.876 unità). Nella realtà notevoli difficoltà avrebbero ostacolato il
perseguimento di quell’obiettivo.
Nella zona 3, quindi
secondo quanto sostenuto nella relazione, l’intervento pubblico avrebbe dovuto
soddisfare, come nelle altre zone, il fabbisogno arretrato mentre
all’intervento privato doveva essere lasciato il compito “di rendere
equilibrato il rapporto tra interessi generali e particolari ma senza
indulgenze per la speculazione più parassitaria”.
Mi sembra opportuno notare
che nella relazione a questa variante, diversamente da quanto avvenuto per i
due piani urbanistici precedenti, si utilizza esplicitamente il termine
“speculazione”, a significare, io credo, che effettivamente esistevano pericoli
che si manifestassero attività speculative e che, forse, nel recente passato,
si fossero effettivamente manifestate.
La dimensione
dell’intervento pubblico fu possibile quantificarlo con precisione (200 vani
concentrati nelle due frazioni con minore decremento demografico e
50
baricentriche rispetto al
territorio comunale e cioè Sugano e Morrano), mentre l’intervento privato si
doveva ripartire omogeneamente in tutti i centri e nuclei frazionali.
Un principio di fondo fu
stabilito: anche i centri storici di piccole dimensioni dovevano essere
salvaguardati e restaurati, avendo la stessa importanza del centro storico
della rupe.
Nella seduta del Consiglio
comunale del 17 gennaio 1977, al termine della quale fu adottata la variante
Benevolo-Satolli, dopo l’intervento introduttivo del sindaco Giulietti, prese
la parola l’assessore ai Lavori Pubblici professor Cirinei, socialista, il
quale espose le linee generali contenute nella relazione della variante.
Cirinei affermò, tra l’altro, che per il centro storico si intendeva ottenere
soprattutto “il recupero del patrimonio edilizio ai fini delle abitazioni, dei
servizi e delle attività produttive, nonché la salvaguardia dei suoli onde
poterli destinare a scopi di sviluppo economico, storico, artistico e culturale”.
Dichiarò inoltre che nel centro storico vi erano dalle 250 alle 300 abitazioni
vuote ed inabitabili che, con la sollecita redazione dei piani
particolareggiati da parte dell’ufficio urbanistico e l’intervento finanziario
della Regione, avrebbero risolto il problema del fabbisogno arretrato di
abitazioni. Inoltre Cirinei rilevò che nella zona 2, caratterizzata da un
incremento della popolazione, il fabbisogno di vani sarebbe stato soddisfatto
“in larga parte con l’intervento pubblico e in parte con quello privato” e che
nella zona 3 sarebbero state soddisfatte le richieste abitative con la
possibilità di realizzare sopraelevazioni e ampliamenti dei fabbricati
esistenti”.
Il consigliere Torroni
diede poi lettura di un documento approvato dalla commissione consiliare
urbanistica. In questo documento si sosteneva che la variante al piano
regolatore era meritevole di accoglimento e che però la normativa provvisoria,
elaborata in attesa dell’approvazione dei piani particolareggiati, lasciava
insoluti alcuni problemi particolari. Pertanto nel documento si chiedeva che
l’Amministrazione Comunale si impegnasse a presentare, entro un anno
dall’adozione della variante, il piano particolareggiato del centro storico ed
i piani settoriali con la relativa normativa, a predisporre contemporaneamente
i piani particolareggiati dei centri storici frazionali, a prendere atto, nelle
osservazioni che sarebbero state presentate, di quelle osservazioni formulate
nel corso degli incontri partecipativi dei cittadini, riguardanti aspetti
particolari della normativa e a portare avanti un rapporto di piena
collaborazione tra “capitale pubblico e capitale privato” sia per favorire “la
difesa e la rivitalizzazione del centro storico sia per garantire una ripresa
delle attività agricole nelle campagne” (si sosteneva anche che le zone
agricole dovessero essere “difese” dall’opinione secondo la quale queste zone
potessero essere utilizzate per “residenze esterne per coloro che nulla hanno a
che vedere con lo sviluppo dell’agricoltura”).
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Due brevi notazioni: già
da allora si parlava di rivitalizzare il centro storico, segnale del fatto che
si riconosceva che la situazione di questa parte del territorio comunale non
fosse ottimale, e ancora oggi si parla ripetutamente di rivitalizzare il centro
storico, il che dimostra che gli interventi realizzati nel corso degli anni a
tal fine non hanno conseguito pienamente l’obiettivo perseguito.
Seconda notazione, ancora
alla fine degli anni ’90 si riteneva possibile, e forse anche auspicabile, un
rilancio delle attività agricole, non volendo, o facendo finta di non volere,
riconoscere che al massimo si potesse ridurre la velocità con la quale,
inevitabilmente, il peso del settore agricolo nel comune di Orvieto sarebbe
diminuito. E poi non si capisce il vero motivo dell’opposizione a quelle che
venivano definite “residenze esterne”, non comprendendo che da quelle poteva
trarre giovamento l’economia locale e che potevano anche essere residenze di
coloro che intendevano trasferirsi da Roma, pur mantenendo come luogo di lavoro
la capitale d’Italia. Per fortuna, tali residenze esterne ebbero comunque un
notevole sviluppo nonostante le resistenze manifestate da esponenti della
maggioranza.
Il consigliere Carlo
Tatta, in rappresentanza del gruppo Dc, fece un intervento molto articolato,
quasi una controrelazione alla relazione della variante Benevolo-Satolli,
fortemente critico su vari aspetti di questo strumento urbanistico. Tatta
iniziò con il rilevare che mentre si adottavano i piani particolareggiati
esecutivi redatti dal professor Coppa, i quali prevedevano vari espropri per la
realizzazione di parcheggi nel centro storico, contemporaneamente veniva
elaborata una variante che si proponeva come obiettivo la chiusura al traffico
di questa parte del territorio comunale. Il consigliere Dc continuò affermando
testualmente che “un piano regolatore che prevede il blocco del centro storico
e delle possibilità di adattamento degli interni, non incoraggia i privati a
prendere iniziative atte a rendere abitabili le proprie case mentre l’assenza
di zone di espansione nelle frazioni non lascia certo spazio a chi volesse
realizzare abitazioni per sé e per gli altri. E poi si nega pressocchè
totalmente la possibilità edificatoria nelle campagne, mentre le espansioni previste
sono quasi totalmente destinate ai Peep”. I contenuti della variante, poi,
furono considerati in evidente contrasto con
quelli del piano Piccinato, che venivano in sostanza vanificati, e con
quelli del piano regolatore delle frazioni che fu adottato “dopo non poche
polemiche il 29 aprile 1975, pochi giorni prima delle elezioni amministrative e
quando già era in corso lo studio della variante al piano regolatore” (venne
anche notato però che il piano regolatore delle frazioni non fu mai trasmesso alla
Regione).
Le critiche di Tatta si
indirizzarono, soprattutto, nei confronti della decisione di ridurre o
eliminare parti consistenti di lottizzazioni convenzionate, approvate sia dal
Comune che dalla Regione, dove erano state già realizzate o erano in corso di
52
realizzazione le opere di
urbanizzazione, e di sopprimere anche lotti acquistati da cooperative di
lavoratori e di piccoli risparmiatori. Tale decisione, ad avviso di Tatta,
avrebbe determinato un ampio contenzioso, che avrebbe potuto riguardare la
giustizia amministrativa ed anche quella penale.
Non veniva condivisa da
Tatta, in pratica, la scelta di fondo della variante cioè quella di considerare
che il solo problema da affrontare fosse quello di soddisfare il fabbisogno
abitativo arretrato, scelta che si basava soprattutto su previsioni sul futuro andamento demografico,
ritenute sbagliate.
Veniva poi evidenziata una
contraddizione importante: era prevista un’ampia zona industriale tra
Fontanelle di Bardano e Ponte Giulio (circa 40 ettari) e ciò era ritenuto in
contrasto con le previsioni demografiche utilizzate. Per quanto riguarda il
centro storico, Tatta notò che l’impostazione del piano tendeva a ridurre
fortemente il ruolo che in futuro questa parte del territorio comunale avrebbe svolto.
Infatti rischiava di essere svuotato, di essere terziarizzato,
“turisticizzato”, di essere caratterizzato solamente da alcuni monumenti da
ammirare mentre invece sarebbe dovuto essere “un insieme urbanistico unitario
residenziale da valorizzare, da vitalizzare”. Si riteneva necessario invertire
la preoccupante tendenza manifestata dalle giovani coppie, dalle nuove
famiglie, di “uscire dalla rupe alla ricerca di migliori condizioni abitative
nei quartieri del suburbio e di favorevoli occasioni di lavoro”. Occorreva,
secondo Tatta, “arginare la fuga, consentire di costruire senza porre remore
artificiose…”. Sempre con riferimento al centro storico, Tatta criticò le
decisioni di non prevedere tutti i parcheggi pubblici indicati nel piano
particolareggiato di attuazione, redatto dal professor Coppa, e di porsi come
obiettivo la totale soppressione del traffico privato “con faraoniche
previsioni di opere per costruzione di sottovie, percorsi pedonali, percorsi
meccanici di ascesa e terminali con quattro ascensori”.
Altra notazione, già nella
variante Benevolo-Satolli si ipotizzavano alcuni interventi che furono poi
realizzati, negli anni ’80 e ’90, nell’ambito del cosiddetto progetto di
mobilità alternativa.
Tatta aggiunse che anche
il gruppo Dc non era favorevole ai parcheggi indiscriminati e che però sarebbe
stato necessario mettere a disposizione dei cittadini “autorimesse e posteggi accessibili e nel più
rigoroso rispetto dell’ambiente”. Veniva ugualmente criticata la scelta di
considerare “aree di verde isolato come servizio pubblico”, quindi soggette ad
esproprio, numerose zone che in parte il piano Coppa prevedeva come “verde
privato”, senza che fossero stati evidenziati i criteri utilizzati (sarebbero
stati penalizzati secondo Tatta molti cittadini che avevano acquistato
un’abitazione con annesso un piccolo giardino). Per quanto riguarda la zona 2,
periferia urbanizzata, le critiche si rivolsero soprattutto, come del resto già
riferito, nei
53
confronti della decisione
di procedere alla riduzione di lottizzazioni già approvate. Tale decisione
veniva ritenuta non accettabile anche alla luce della scelta, apparentemente
contraddittoria, di considerare come zone di completamento 25 lotti di terreno,
non ricompresi nelle lottizzazioni convenzionate, localizzati anche in zone non
residenziali e in zone non edificabili, secondo le previsioni del piano
Piccinato (a giudizio di Tatta quella scelta dipendeva dalla volontà di
salvaguardare interessi particolari, di singoli cittadini dello stesso
orientamento politico dei gruppi di maggioranza).
Quindi si evidenzia
esplicitamente l’ipotesi che con la variante Benevolo-Satolli si
salvaguardassero anche interessi particolari, non soddisfacendo in quei casi
l’interesse generale. Si tratta di vedere però quante delle critiche rivolte da
Tatta alla variante tendessero, anch’esse, a tutelare interessi particolari.
Tatta criticò, poi, il
fatto che le zone di espansione fossero state completamente destinate
all’edilizia economica e popolare, in quanto riteneva possibile che parte del
fabbisogno abitativo venisse soddisfatto dall’iniziativa privata. Per quanto
riguarda le zone rurali, Tatta dichiarò che sarebbero state eccessivamente
ostacolate le iniziative edilizie, anche quelle connesse allo svolgimento di
attività agricole (del resto era considerata troppo ampia l’area classificata
come paesistica, pari a circa i 2/3 dell’intero territorio comunale con un
indice di edificabilità troppo basso che avrebbe determinato la necessità per i
coltivatori con l’intenzione di costruirsi
una casa dignitosa di disporre di almeno 12 ettari di terreno). Infine
Tatta criticò l’estensione della rigorosa normativa, prevista per il centro
storico situato sulla rupe, ai centri storici frazionali, in quanto questi
centri sarebbero stati in questo modo “mummificati”.
Il consigliere Barbabella,
poi (esponente del Pci che a partire dal 1980 diventò sindaco gestendo
attivamente la variante Benevolo-Satolli), rilevò che negli anni passati
Orvieto era stata interessata da un ampio programma di opere pubbliche (la diga
di Corbara, l’autostrada del Sole, la Direttissima) che pur determinando
effetti positivi (l’incremento dell’occupazione e lo sviluppo del turismo)
provocò anche dei problemi quali l’emigrazione e lo spopolamento delle campagne
con le conseguenti richieste di nuove abitazioni in alcune frazioni del comune
che facilitarono la speculazione edilizia (di nuovo si torna a parlare di
speculazione edilizia…). Barbabella aggiunse che il piano Piccinato fu
l’espressione della cultura urbanistica degli anni ’60, risentendo di tutti i
meriti e di tutti i limiti di quella cultura e che la variante Benevolo-Satolli
teneva conto della volontà della Regione di elaborare un programma di sviluppo
di medio periodo articolato in piani di settore con dimensione territoriale
comprensoriale. Secondo Barbabella, inoltre, la necessità di prevedere, nella
variante, vincoli e limitazioni si basava sul principio che “il territorio è un
bene che appartiene alla collettività, la cui caratteristica è di essere limitato
e
54
irriproducibile e che la
sua alterazione comporta inevitabilmente perdite non recuperabili”. Barbabella
concluse che la variante non avrebbe soffocato l’iniziativa privata perché
avrebbe fornito ad essa un quadro di certezze per interventi programmati e che
l’intervento pubblico previsto avrebbe svolto sia un ruolo di indirizzo e di
controllo ma anche un ruolo più incisivo e diretto per rispondere all’esigenza
di recupero del patrimonio esistente e per consentire la costruzione di nuove
abitazioni accessibili ai ceti meno abbienti.
L’intervento di Barbabella
è particolarmente interessante, soprattutto perché già contiene “in nuce” le
linee che successivamente caratterizzeranno la politica urbanistica che, una
volta diventato sindaco, portò avanti lo stesso Barbabella, con decisione.
Al di là dei motivi, più o
meno corrispondenti alla realtà, addotti da Barbabella, la critica al piano
Piccinato è evidente ed è altrettanto evidente che la sua critica è
principalmente rivolta al fatto che con il piano Piccinato si consentì
l’attuazione di una politica urbanistica che, tranquillamente può essere
definita (mutuando il termine anche dalle connotazioni che normalmente possono
essere attribuite alla politica economica) fortemente espansiva nel senso che rese
possibile la costruzione di un notevole numero di nuove abitazioni.
Inoltre è già presente
in Barbabella la consapevolezza che
l’introduzione di vincoli e limitazioni - e probabilmente si riferiva
principalmente al centro storico - fosse rivolta alla tutela e alla
valorizzazione del territorio, e aggiungo io del patrimonio storico-artistico.
Questi due elementi, già
presenti nell’intervento di Barbabella, caratterizzarono la sua politica
urbanistica da sindaco. Ho scritto sua, non a caso, perché, da sindaco,
Barbabella si occupò molto di urbanistica, nonostante non avesse la delega a
questo importante settore dell’amministrazione di ogni comune. Una politica
urbanistica, la sua, che potrebbe essere definita restrittiva, che puntava
soprattutto alla ristrutturazione degli edifici, ovviamente quasi
esclusivamente nel centro storico, e molto poco alla costruzione di nuove
abitazioni, senza che in questo caso, peraltro, venissero imposti vincoli poco
stringenti.
La sua politica
urbanistica fu oggetto sì di apprezzamenti (molto probabilmente rappresentò una
delle condizioni necessarie affinchè gran parte degli interventi previsti nel
cosiddetto Progetto Orvieto potessero essere realmente attuati) ma anche di
forti critiche, soprattutto all’interno del suo stesso partito. Fu accusato,
tramite la sua politica urbanistica, di aver imposto a molti orvietani di
trasferirsi nel vicino comune di Porano, nel quale invece fu adottata una
politica urbanistica fortemente espansiva, dove riuscirono a trovare abitazioni,
a un prezzo di acquisto o a un
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canone di affitto,
decisamente inferiori a quelli che caratterizzavano il mercato edilizio nel
comune di Orvieto, anche nelle principali frazioni quali Ciconia e
Sferracavallo.
E furono proprio queste
critiche, espresse all’interno del suo stesso partito, il Pci, che
determinarono le improvvise dimissioni di Barbabella da sindaco, nel 1987, che
non gli consentirono di completare il secondo quinquennio alla guida
dell’Amministrazione Comunale, come ci si aspettava?
Intervennero anche, dopo
Barbabella, l’indimenticato e indimenticabile professor Ciocchetti, preside del
locale Liceo Classico ed esponente del Psdi, per motivare la sua decisione di
votare contro l’adozione della variante, e l’altrettanto indimenticato e indimenticabile,
per motivi diversi da quelli che valgono per Ciocchetti, consigliere Zambrino,
esponente storico del Msi, il quale dichiarò che non avrebbe partecipato al
voto in quanto a suo avviso, prima di procedere all’approvazione della
variante, sarebbe stato necessario promuovere altri incontri partecipativi con
i cittadini. E non fu la prima volta che Zambrino, in completa autonomia, assunse
nei confronti della maggioranza, posizioni più “morbide” rispetto a quelle
assunte dal gruppo Dc.
E infatti il consigliere
Marco Tiberi dichiarò che il voto contrario del gruppo Dc dipendeva da tre
motivi principali:
l’ulteriore rinvio
dell’elaborazione dei piani particolareggiati per il centro storico;
la scelta di prevedere il
Peep (piano di edilizia economica e popolare) solo per le frazioni di Canale,
Morrano e Sugano;
la scelta di estendere la
rigorosa normativa che si intendeva applicare nel centro storico anche ai
centri frazionali indicati come “centri storici”;
l’adozione di alcune
decisioni che avrebbero potuto configurarsi anche come violazioni di legge, in
netto e ingiustificato contrasto con il piano Piccinato.
Al termine del dibattito,
il Consiglio comunale deliberò di adottare la variante Benevolo-Satolli.
Espressero voto contrario però i consiglieri dei gruppi Dc e Psdi.
Nella seduta del 26
settembre 1977, il Consiglio comunale esaminò le osservazioni presentate alla
variante Satolli.
L’assessore Cirinei
illustrò le controdeduzioni alle osservazioni proposte dalla Giunta municipale.
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Il consigliere Tatta
espose i contenuti dell’opposizione-ricorso presentata dal gruppo Dc e nel suo
intervento ribadì le forti critiche nei confronti della variante
Benevolo-Satolli, già peraltro avanzate nella seduta nel corso della quale la
variante fu adottata dal Consiglio comunale. Tatta, fra l’altro, definì la
variante Benevolo-Satolli un vero e proprio piano regolatore, per sottolineare
le profonde modifiche da essa introdotte rispetto a quanto previsto nel piano
Piccinato e dichiarò che “il Comune avrebbe dovuto sovradimensionare il piano
anche per il fatto che una maggiore disponibilità di aree determinerebbe una
logica azione calmieratrice sul mercato delle stesse. Invece con il restrittivo
disegno urbanistico che riduce talune lottizzazioni già convenzionate, i prezzi
delle aree e quindi degli appartamenti saliranno alle stelle”. Tatta poi rilevò
che nell’accoglimento o nel rigetto delle osservazioni presentate non furono
sempre seguiti gli stessi criteri, realizzando delle discriminazioni contro
alcuni cittadini e dei favoritismi nei confronti di altri.
E’ del tutto evidente, con
le ultime due considerazioni, che Tatta accusasse la maggioranza, anche se non
esplicitamente, di favorire delle attività speculative, a vantaggio soprattutto
dei proprietari di alcune aree, e di tutelare interessi particolari, di alcuni
cittadini e non di altri.
E anche piuttosto
interessante è l’osservazione di Tatta, secondo la quale la variante
Benevolo-Satolli fosse un vero e proprio nuovo piano regolatore.
A me sembra che Tatta, su
questo punto, avesse ragione. E allora perché non si decise, fin dall’inizio, di
realizzare un nuovo piano urbanistico? Non si volle sconfessare gli
amministratori, che non molti anni prima, approvarono il piano Piccinato? Non
si volle apertamente ammettere che il piano Piccinato contenesse degli errori e
non di lieve entità?
Il consigliere Torroni
fece notare che nella commissione consiliare urbanistica si discusse del
problema della riduzione delle lottizzazioni e si decise di “fare salvi i diritti
acquisiti al fine di non impegnare l’Amministrazione in azioni di contenzioso”.
Il Consiglio comunale,
infine, approvò le controdeduzioni alle osservazioni presentate, con 19 voti
favorevoli e 5 contrari.
La variante
Benevolo-Satolli, nel gennaio del 1979, entrò definitivamente in vigore in
seguito all’approvazione da parte della Regione dell’Umbria.
57
Il piano Rossi Doria
Il piano redatto dal professor Bernardo
Rossi Doria è stato contraddistinto da un iter che ha condotto alla sua
approvazione piuttosto lungo e complesso.
Vari sono stati i documenti predisposti
da Rossi Doria e gli atti approvati dal Consiglio comunale.
Il primo documento, definito documento
preliminare di indirizzo, risale all’estate del 1995, quando assessore
all’urbanistica era ancora Maurizio Conticelli, successivamente passato nelle
fila dell’opposizione, che votò contro all’approvazione definitiva del piano urbanistico.
Il piano urbanistico fu adottato dal
Consiglio comunale nella seduta del 5 agosto del 1998, quando assessore
all’urbanistica era Sergio Cherubini.
Il piano fu approvato dal Consiglio
comunale nella seduta del 16 febbraio del 2000, quando assessore era diventato
Nazzareno Desideri.
Quindi ben 3 assessori all’urbanistica
furono impegnati nel processo di formazione del piano Rossi Doria, anche se il
sindaco rimase sempre lo stesso, Stefano Cimicchi.
E proprio il fatto che il processo di
formazione e di approvazione del piano risultò essere piuttosto lungo e
complesso rappresenta uno dei motivi che hanno determinato la mia scelta di
dedicare a questo piano uno spazio maggiore a quello attribuito ai precedenti
piani. Fra l’altro nella riunione del Consiglio comunale nella quale fu
approvato il piano erano presenti consiglieri i quali non erano tali, perché
nel 1999 si svolsero le elezioni comunali che determinarono il rinnovo del
Consiglio stesso, quando fu adottato il piano. Quindi ciò causò la più ampia
discussione, rispetto ai piani precedenti, per i quali gran parte del dibattito
si esaurì in fase di adozione, che si sviluppò in fase di approvazione del
piano, e che quindi non potevo che riportare, seppure sinteticamente. Un altro
motivo ha determinato la mia scelta: nell’ambito delle discussioni in Consiglio
comunale sul piano Rossi Doria ci furono molti riferimenti da parte dei
consiglieri sulle caratteristiche dei precedenti piani. Quindi il dibattito che
si sviluppò relativamente al piano Rossi Doria fu anche l’occasione per
analizzare il complesso dei piani che furono approvati, in precedenza, dal piano
Bonelli, al piano Piccinato, alla variante generale Benevolo-Satolli.
Probabilmente l’iter di formazione di
questo piano non poteva non essere lungo e complesso. Infatti fu un piano molto
atteso e lungamente atteso.
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Io personalmente ricordo che almeno
dalla metà degli anni ’80 si è spesso parlato ad Orvieto, per la verità
prevalentemente negli ambienti politici e fra i tecnici, della necessità di
approvare un nuovo piano regolatore.
Se ne parlava, se ne parlava, ma
l’inizio del processo di realizzazione del nuovo piano slittava sempre. A me,
ma non credo solo a me, non risultarono mai chiari ed evidenti i motivi che
determinarono questo slittamento. Probabilmente non si riusciva a raggiungere
un accordo politico sulle linee generali che dovessero caratterizzare il nuovo
piano regolatore.
Comunque gli amministratori che si sono
succeduti da quando si iniziò a parlare della necessità di approvare un nuovo
piano urbanistico non rimasero certo con le mani in mano. Infatti,
dall’approvazione della variante generale Benevolo-Satolli al piano Piccinato,
che risale alla fine degli anni ’70, all’ approvazione del piano Rossi Doria,
furono decise dal Consiglio comunale ben 10 varianti parziali, che incisero
considerevolmente sull’assetto urbanistico del comune di Orvieto.
Forse quelle 10 varianti parziali
costituirono un nuovo piano, “innominato”, comunque influenzarono notevolmente le
scelte urbanistiche e non dell’Amministrazione comunale.
E tali varianti parziali, a mio avviso,
incisero notevolmente sulle stesse caratteristiche del piano Rossi Doria,
proprio perchè quanto attuato in seguito alle varianti parziali, normalmente,
avrebbe dovuto essere contenuto in un piano urbanistico vero e proprio, per la
sua rilevanza, e, quindi, i potenziali contenuti del piano Rossi Doria, quando
finalmente fu elaborato e approvato, furono in qualche misura ridotti, proprio
a causa del fatto che decisioni urbanistiche importanti furono prese con le
varianti parziali citate.
Si potrebbe sostenere pertanto che la
“montagna abbia partorito un topolino”? Si potrebbe sostenere che le
aspettative, quanto meno di una parte di coloro che, nel corso degli anni,
hanno rilevato la necessità di un nuovo piano, siano andate in gran parte
deluse?
Forse al termine di questo capitolo si
potrà rispondere a queste domande.
Un’ulteriore considerazione preliminare,
prima di addentrarmi nei principali contenuti del piano Rossi Doria, ed
anch’essa rappresentata soprattutto da una domanda: ma perché spesso fu
rilevata la necessità, a partire dalla metà degli anni ’80, di approvare un
nuovo piano regolatore?
Rispondere a questa domanda non è
facile.
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E’ sufficiente notare che quanto
realizzato da Benevolo e Satolli fu denominata variante generale al piano
Piccinato? Non credo anche perché, al di là della denominazione, quanto
elaborato da Benevolo e Satolli fu un vero piano o quanto meno rappresentò un
orientamento urbanistico decisamente diverso rispetto a quello prevalente nel
piano Piccinato. Del resto Rossi Doria, riferendosi al lavoro di Benevolo e
Satolli, parlò sempre di piano.
Il piano Piccinato, oggettivamente, fu
l’espressione di una politica urbanistica fortemente espansiva. Una sola
osservazione è sufficiente per avvalorare tale tesi. Fu con il piano Piccinato
che si decise di realizzare una nuova città, di fatto contrapposta alla città
antica, e di farla sorgere a Ciconia.
La variante Benevolo-Satolli è figlia
di un orientamento quasi opposto, frutto di una politica urbanistica che non
può che essere definita restrittiva, tendente a limitare le nuove espansioni
edilizie e tendente a sottoporle a regole, a norme, molto stringenti e
vincolanti.
E quanto meno una parte consistente di
coloro i quali hanno sostenuto la necessità di approvare un nuovo piano,
intendevano, tramite il nuovo piano, contrastare quelle caratteristiche,
fortemente restrittive, della variante Benevolo-Satolli e della politica
urbanistica che concretamente l’Amministrazione comunale, almeno fino alla metà
degli anni ’80, attuò.
Tale politica urbanistica fu sì oggetto
di molte valutazioni positive, soprattutto perché consentì la tutela del
patrimonio edilizio e di quello storico-artistico della città antica, favorendo
di fatto l’attuazione del cosiddetto progetto Orvieto, ma fu anche criticata
ampiamente sia perché limitava fortemente la realizzazione di nuove abitazioni
in varie parti del territorio comunale sia perché le nuove costruzioni, gli
ampliamenti e le ristrutturazioni delle abitazioni esistenti dovevano
sottostare all’osservanza di norme considerate troppo rigide e limitative.
Che tali critiche una parte di verità
l’avevano è dimostrato, tra l’altro, dal fatto che in quel periodo si
assistette ad un flusso migratorio di una certa consistenza da Orvieto verso
Porano, che determinò una diminuzione della popolazione nel primo comune e un
contemporaneo aumento dei residenti nel secondo, anche perché a Porano si attuò
una politica urbanistica opposta a quella attuata nel comune di Orvieto e cioè
una politica fortemente espansiva, che consentì fra l’altro la costruzione di
un numero abbastanza consistente di nuove abitazioni, a prezzi di vendita
decisamente più bassi di quelli che caratterizzavano il mercato immobiliare nel
comune di Orvieto.
60
Un singolo episodio, a cui assistetti
personalmente, è emblematico dell’esistenza di un orientamento piuttosto
critico nei confronti della politica urbanistica attuata dall’Amministrazione
comunale negli anni ’80, orientamento presente anche all’interno del Pci di
Orvieto che, in quegli anni, aveva molti consensi, vicini al 50%
dell’elettorato.
Quando, alla fine degli anni ’80, fu
sostituito Franco Barbabella, nell’incarico di sindaco, da Adriano Casasole, si
tenne, appena dopo la sostituzione, una riunione del direttivo di zona del Pci,
un organo che allora contava molto, come contava molto chi assumeva incarichi
importanti nell’ambito del Pci di Orvieto, anche nei rapporti con i
rappresentanti di questo partito nelle amministrazioni comunali.
In quella riunione, a cui partecipai, la
relazione introduttiva fu tenuta da Adriano Casasole, una relazione che
conteneva le linee generali che avrebbero dovuto caratterizzare almeno i primi
anni dell’amministrazione da lui guidata.
E Casasole, sostenuto dall’allora
segretario di zona del Pci Valentino Filippetti, il quale, fortunatamente e giustamente, alcuni anni dopo fu costretto ad abbandonare l'incarico, annunciò la sua intenzione di
attuare una politica urbanistica che consentisse alla popolazione del comune di
Orvieto di raggiungere i 30.000 residenti (si consideri che allora la
popolazione superava di poco le 20.000 unità). A parte l’indicazione dell’obiettivo
riguardante la popolazione, per il cui raggiungimento peraltro non era certo
sufficiente adottare una politica urbanistica in linea con quell’obiettivo,
politica oggettivamente irrealizzabile, emergeva con chiarezza che Casasole
fosse favorevole, e con lui una parte consistente del gruppo dirigente del Pci
di Orvieto, ad una svolta radicale nella politica urbanistica. Anche, se, io
credo, quella sua affermazione fu determinata anche da altri motivi.
Io, peraltro, che ho quasi sempre
ammirato Casasole e che ritengo che, complessivamente, la sua attività di
amministratore comunale, esplicatasi soprattutto tramite l’incarico di
assessore e purtroppo per pochi anni tramite l’incarico di sindaco, sia da
giudicare in modo fortemente positivo, valutai negativamente quel suo
orientamento in merito alla politica urbanistica, anche se concordavo con la
valutazione che la politica urbanistica del Comune di Orvieto negli anni ’80
fosse stata eccessivamente restrittiva.
Ma, a parte le mie valutazioni, il
singolo episodio che ho citato rappresenta la dimostrazione che esistesse
davvero ad Orvieto in quegli anni una forte critica, più o meno giustificata,
nei confronti della politica urbanistica comunale attuata negli anni ’80.
Ed è possibile quindi che tale critica fosse
alla base di almeno una parte delle ripetute richieste volte ad evidenziare la
necessità di un nuovo piano regolatore per Orvieto.
61
A questo punto sarebbe opportuno
acquisire delle informazioni su chi è Rossi Doria e su che cosa ha fatto. Per
quanto riguarda gli autori dei precedenti piani ho individuato su Wikipedia
delle voci a loro dedicate. Bernardo Rossi Doria però non è presente su
Wikipedia. Per la verità, forse perché è ancora vivo e vegeto, seppure in
pensione come docente universitario, non ho individuato nemmeno in altro modo
una biografia piuttosto estesa e soddisfacente. Ho solo potuto acquisire
qualche informazione qua e là sulla sua attività.
Bernardo Rossi-Doria è innanzitutto
figlio di Manlio, un economista che si occupava di economia e politica agraria,
che diventò molto famoso per i suoi studi sul Meridione e fu considerato uno
dei “meridionalisti” più importanti del dopoguerra. Bernardo Rossi-Doria ha
insegnato urbanistica presso le università di Reggio Calabria e Palermo. Ha scritto
numerosi libri tra i quali “L’uomo e l’uso del territorio”, “Palermo verso un
nuovo piano”. Si è interessato della programmazione urbanistica di diverse
città, tra le quali, Palermo, Messina e Taranto. E’ stato anche segretario
generale di Italia Nostra e può essere considerato, anche per questo, molto
attento ai problemi ambientali.
E, forse, questa sua caratteristica,
l’essere considerato un ambientalista, fu uno dei motivi principali alla base
della sua scelta, come autore del nuovo piano. Peraltro non si deve dimenticare
che, quando fu scelto Rossi Doria, era assessore all’urbanistica Maurizio
Conticelli, anch’egli ritenuto un ambientalista, come dimostrò anche
successivamente quando diventò un oppositore delle altre giunte guidate da
Stefano Cimicchi, nell’ambito delle quali fu definito, e poi approvato, il
nuovo piano urbanistico.
Ora è necessario passare ad esaminare i
principali contenuti della relazione al piano Rossi Doria.
E’ bene precisare innanzitutto che, in
seguito alla nuova normativa approvata dalla Regione dell’Umbria (la legge
urbanistica regionale n. 31 del 29.19.1997), il nuovo piano fu suddiviso in due
componenti: il piano strutturale che, in qualche modo, doveva contenere gli
interventi generali da realizzare, le linee generali di politica urbanistica da
seguire, per un periodo di tempo piuttosto lungo, e il piano operativo, o meglio i piani operativi, che potevano essere
elaborati dalle diverse Amministrazioni comunali che si sarebbero succedute a
quella che avrebbe approvato lo strutturale, piani che avrebbero dovuto contenere
gli interventi da realizzare a breve termine, o meglio nel periodo nel quale
avrebbero operato le successive Amministrazioni.
Qui ci si occuperà soprattutto del piano
strutturale, e quindi della relazione a questo piano.
62
All’inizio della relazione al piano
Rossi Doria, dopo aver formulato un breve excursus sulla pianificazione
urbanistica precedente, si esamina quanto si è verificato in attuazione del
piano vigente, cioè della variante generale Benevolo-Satolli.
Al 1986 erano stati realizzati 279
alloggi in zone Peep, erano stati realizzati interventi di recupero su 49
alloggi nel centro storico e 554 interventi di iniziativa privata su immobili,
sempre del centro storico. Tra il 1984 e il 1992 furono approvate 10 varianti
di “razionalizzazione di previsioni locali”, le cosiddette varianti parziali,
quasi tutte contraddistinte da previsioni di incremento dell’edilizia
residenziale, per complessivi 1.743 alloggi. Dopo l’approvazione della variante
“Deltafina” (per intenderci quella che determinò la nascita dell’area di
espansione edilizia denominata successivamente “Il Borgo”), si legge nella
relazione “è in atto una fisiologica e modesta attività edilizia”.
Si rilevò insomma che, dopo che con le
10 varianti parziali si è costruito molto, ci si era fermati un po’, forse in
attesa del nuovo piano.
Nella relazione si passò poi ad
analizzare la situazione esistente e cioè l’evoluzione demografica, l’uso del
territorio, la superficie agricola, l’organizzazione urbana, la situazione
abitativa, la dotazione di servizi, le
zone industriali, la situazione alberghiera e i movimenti turistici, le scuole
militari e la situazione economico-sociale.
Per quanto concerne l’organizzazione
urbana si notò che esistevano 48 nuclei, di cui 4 con più di 1.500 abitanti
(nei quali risiedeva il 66,2% della popolazione complessiva), 8 nuclei con più
di 100 e meno di 500 abitanti (vi risiedeva il 10,0% della popolazione), 10 con
più di 50 e meno di 100 abitanti, 15 con più di 10 e meno di 50 abitanti, 8 con
meno di 50 abitanti e, infine, 3.869 case sparse, nelle quali risiedeva il
18,1% della popolazione totale.
Per quanto riguarda la situazione
abitativa, fu osservato che al 1991 il 19,1% delle abitazioni, e cioè 1.742,
risultava non essere occupata, mentre nel 1981 lo erano soltanto il 15,7%,
1.319. Tra il 1981 e il 1991 quindi si registrò un loro considerevole
incremento, sia in termini percentuali che assoluti.
Nel centro storico, tra il 1981 e il
1991, le abitazioni occupate diminuirono, di 271 unità sulle 2.650 iniziali,
del 10,2%, mentre quelle non occupate passarono da 280 a 597 con un aumento di
317, pari a oltre il 100%.
E nella relazione si rilevò, a questo
punto, che un importante obiettivo del piano Benevolo-Satolli fosse quello di
soddisfare parte del fabbisogno abitativo con il
63
patrimonio edilizio del centro storico,
obiettivo non conseguito, quanto meno pienamente, se si considerano i dati appena esposti.
Anche nell’intero territorio comunale fu
riscontrata l’esistenza di un numero cospicuo di stanze non occupate, pari al
18,6% del patrimonio complessivo (in alcuni casi si trattava di situazioni di
diffuso abbandono, in altri sussisteva un considerevole patrimonio destinato
alle vacanze).
Relativamente alla dotazione di aree per
servizi, si riteneva che fosse soddisfatto il fabbisogno di aree per il verde e
quello per le scuole, mentre sussisteva una carenza di aree per attrezzature
comuni e soprattutto per parcheggi.
Prima di enunciare gli obiettivi
generali del piano, si evidenziarono i caratteri specifici del cosiddetto “caso
di Orvieto”.
Infatti si può leggere “anche in epoche
in cui l’orientamento prevalente era in Italia quello dell’ampliamento oltre
misura e senza qualità degli spazi urbanizzati, la vicenda della pianificazione
ad Orvieto è caratterizzata da sempre da una spiccata tendenza verso la ricerca
di uno sviluppo in senso qualitativo piuttosto che quantitativo. Prima che
altrove, ed in tempi meno favorevoli degli attuali, in particolare col piano
Satolli- Benevolo, è stata attuata una politica di contenimento
dell’urbanizzazione e si è puntato sulla selezione di obiettivi specifici
corrispondenti ad effettivi bisogni abitativi. Inoltre, con la elaborazione del
progetto Orvieto e la realizzazione delle opere di consolidamento della rupe,
l’attuazione di opere atte a governare il sistema della mobilità, e gli
interventi di restauro e recupero di contenitori storici, si è puntato a creare
le condizioni per un recupero qualitativo del centro storico. Ciò che
differenzia il caso di Orvieto da molte altre situazioni è la circostanza di
trovarsi di fronte ad un patrimonio di realizzazioni effettive, che in molte
altre situazioni non c’è stato. Nel caso in esame c’è dunque di che discutere
criticamente e costruttivamente, mentre in molti altri casi in cui si è rimasti
allo stato dell’enunciazione ci si trova in una situazione di stallo”.
Tali valutazioni in gran parte sono condivisibili. Ma una
domanda sorge spontanea a questo punto: Rossi Doria lo conosceva davvero il
piano Piccinato e ciò che avvenne in sua attuazione? Leggendo quanto appena
riportato, sembrerebbe di no…
E quindi gli obiettivi generali del
nuovo piano?
In primo luogo, si sostenne che la
questione della qualità della vita, fosse centrale e prevalente. E ciò non solo
nel centro storico, ma anche nelle grandi frazioni e nei nuclei e nelle
località diffuse nel territorio.
64
Poi si rilevò che le scelte del piano
regolatore dovranno essere di incentivo per uno sviluppo “qualitativamente
conforme” ovvero “sostenibile” del territorio orvietano. E condizione necessaria veniva
considerata l’esigenza di tutelare l’integrità fisica ed ambientale del
territorio. E gli obiettivi specifici da perseguire, a tale proposito, erano:
tutela e regolazione del sistema dei corsi d’acqua delle falde e delle sorgenti
e delle loro pertinenze territoriali; contenimento e prevenzione dei fenomeni
erosivi e di dissesto; tutela e governo dei boschi e delle aree a carattere
naturale e naturalistico; tutela e valorizzazione delle aeree agricole e
agroturistiche; contenimento e controllo delle nuove urbanizzazioni.
Inoltre si ritenne necessario promuovere
prioritariamente la riqualificazione urbana del territorio. Due problemi si
dovevano affrontare: da una parte accrescere la qualità della vita nei
quartieri decentrati creando spazi ed opportunità maggiori di quelli attuali e
dall’altra ricostruire ed agevolare le relazioni con il centro storico.
L’organizzazione multicentrica attuale
doveva essere valorizzata in tutte le sue parti: al fine di ricondurla ad
unità, con la creazione di un sistema di relazioni efficiente, orientato
essenzialmente ad una offerta equivalente, sotto il profilo della qualità e
dell’accessibilità, di servizi primari e secondari (in questo senso ci si
proponeva di proseguire nella costruzione di una politica di organizzazione
della mobilità); al fine di assicurarvi condizioni di vita sostenibili
(dovevano essere create le condizioni per ridurre e contenere l’inquinamento
dell’aria, dell’acqua e del suolo, l’inquinamento acustico, lo spreco energetico);
al fine di consolidarne e qualificarne la diversità e la riconoscibilità, di
fatto l’identità con la definizione di indirizzi di conservazione delle risorse
e di incremento delle stesse.
Questi indirizzi dovevano costituire i
contenuti generali della scelta della riqualificazione.
Per quanto riguarda gli obiettivi da
perseguire relativamente alle diverse principali parti nelle quali poteva
essere suddiviso il territorio comunale, furono distinti gli obiettivi
riguardanti i piccoli nuclei, quelli per il centro storico e quelli per le
frazioni.
Nei piccoli nuclei dovevano essere
create le condizioni di equità in termini di qualità della residenza, accesso
ai servizi, lavoro, mobilità, relazioni con il centro, per i residenti, insieme
a condizioni competitive per l’accoglienza dei potenziali fruitori delle già
avviate attività agrituristiche.
Per il centro storico un obiettivo
prioritario era rappresentato dal mantenimento di una quota congrua di
residenti. Infatti tale obiettivo rimaneva valido anche perché, sebbene con il
piano Benevolo Satolli si fosse percepita la necessità di contenere la
riduzione del numero dei residenti, tale tendenza era continuata a
manifestarsi. E nel
65
decennio 1981-1991 le residenze occupate
erano diminuite di 271 unità mentre quelle non occupate erano aumentate di 317
unità. Lo sviluppo del centro storico, anche in termini di crescita dei
residenti, veniva considerato strettamente legato alla valorizzazione del già
consistente patrimonio di beni culturali. E più precisamente veniva individuato
come obiettivo del piano regolatore quello di creare le condizioni urbanistiche
per potenziare il sistema museale, per potenziare il sistema degli archivi e
delle biblioteche, per completare il sistema degli spazi per la cultura e per
le attività congressuali, per adeguare il sistema ricettivo-turistico, per
riorganizzare ed integrare il sistema educativo locale e per creare le
condizioni per la nascita di strutture di ricerca e formazione specialistiche.
Per quanto riguarda le grandi frazioni,
si partì dalla constatazione che esse - in primo luogo se non essenzialmente
Ciconia e Orvieto scalo - erano separate da una condizione di difficile
accessibilità da e per il centro storico, pur essendone in realtà una appendice
inseparabile (chissà se gli abitanti di quelle due frazioni erano e sono
concordi nel considerarle delle appendici del centro storico…). Ed invece il
piano avrebbe dovuto fare in modo che le relazioni con il centro storico
fossero considerevolmente sviluppate. Infatti il problema del collegamento
fisico tra Ciconia, Orvieto scalo, e Orvieto centro, sebbene impostato con
l’avvio del sistema di mobilità alternativa non era stato in realtà risolto. E,
considerando soprattutto l’esistenza della barriera rappresentata dal fascio
ferroviario e autostradale che separava Ciconia dallo Scalo, lo studio del
collegamento tra quelle due realtà territoriali, che ovviamente influenzava il
collegamento soprattutto di Ciconia con il centro storico, doveva essere
assunto come punto programmatico determinante del nuovo piano regolatore. Tale
studio appariva però problematico, perchè le difficoltà nel collegamento fisico
tra le due frazioni citate nacquero dalla precisa volontà originaria di
localizzare l’insediamento di Ciconia in un luogo separato dalla vecchia città
(tale notazione può essere considerata anche come una critica nei confronti di
quella volontà?). Problemi di collegamento con il centro storico si riteneva
che esistessero anche per la frazione di Sferracavallo, anche se la “cesura”
con il centro non aveva in questo caso lo stesso impatto traumatico di quello
di Ciconia-Orvieto scalo. La cesura, nel caso di Sferracavallo, era
rappresentata dall’ambiente naturale e culturale delle pendici della rupe, che
costituiva invece un valore positivo da salvaguardare. Poi fu evidenziata,
sempre per le grandi frazioni, l’esistenza di un diffuso problema di degrado
ambientale. Pertanto fu ritenuto necessario ridisegnare queste realtà
insediative. In questo ambito ci si proponeva innanzitutto di delinearne i
confini, modificando la consuetudine di considerare che “la transizione tra
urbano e non urbano sia destinata a discariche o sia dismessa dalle attività
produttive agricole o dalla condizione di naturalità originaria”. E più
precisamente scriveva Rossi Doria “in sostanza invece di voltare le spalle ai
campi, al fiume, al bosco, l’abitato dovrà affacciarvisi”(?!). All’interno degli insediamenti, inoltre,
“doveva essere ben definito il rapporto tra
66
spazi edificati e non edificati e tra
questi ultimi il rapporto tra spazi verdi capaci di assorbire calore e
restituire ossigeno e spazi pavimentati, asfaltati”.
Il territorio comunale fu suddiviso in Atu, ambiti territoriali vasti,
di interesse ambientale e paesaggistico. Ne furono individuati sei: i tufi, il
monte Peglia, la zona delle Crete, la valle del Paglia, la valle del Tevere
verso sud, la valle del Chiani. Furono però indicati anche altri elementi di
interesse ambientale e paesaggistico da realizzare: il parco territoriale del Paglia,
il parco della Rupe, il parco della Selciata.
Furono individuate anche le aree
soggette a prelievo di materiale ghiaioso che in passato erano state
abbandonate in stato di degrado senza operazioni di ripristino come sarebbe
stato richiesto allora. Si prevedeva comunque di ripristinare tutti gli spazi
di cava ivi compresi quelli che erano allora autorizzati e quelli che lo
sarebbero stati in futuro.
Per quanto riguarda il sistema di
mobilità, con l’obiettivo di ridurre le distanze e favorire l’accessibilità,
furono tre le linee di intervento proposte: unificare e consolidare la
cosiddetta area centrale di Orvieto e riorganizzare le relazioni tra nuclei
esterni e area centrale; eliminare gli ostacoli e le interferenze del sistema
di mobilità territoriale sul sistema della mobilità locale (per questo fu prevista la realizzazione di
una strada complanare all’autostrada che consentisse di passare da sud a nord e
viceversa senza interferire con la vita urbana di Orvieto scalo e Ciconia
diramandosi da una parte verso la
discarica sulla strada statale per Ficulle e dall’altra con un nuovo ponte sul
Paglia ed un sottopassaggio attraverso il grande fascio infrastrutturale verso
Sferracavallo fino ad innestarsi nella strada per l’aeroporto in modo tale da
attraversare tutto il sistema insediativo dell’area centrale e di servire
l’area industriale indirizzando il traffico verso nord e verso sud senza
interferenze significative e fu indicata una breve bretella di collegamento
verso Ciconia dalla direttrice per Ficulle per consentire un’uscita da Ciconia
stessa verso la grande rete infrastrutturale - sia verso il Viterbese sia verso
l’autostrada e Todi -); creare un sistema di mobilità locale per favorire le
relazioni tra le diverse parti del sistema insediativo (si trattava di
rafforzare il sistema di trasporti collettivi - già positivamente avviato con
il ripristino della funicolare, impropriamente denominata funivia da Rossi
Doria, e con la realizzazione del parcheggio dell’ex campo della fiera con
l’attivazione delle scale mobili e dell’ascensore -, tramite un suo
prolungamento indicato sotto forma di corsie attrezzate e/o preferenziali da
trasformarsi eventualmente in linee su ferro
o su gomma a seconda della fattibilità tecnica ed in relazione alla
domanda reale di mobilità).
La strada complanare rappresentò
oggettivamente l’intervento più importante previsto dal nuovo piano, anche se
la sua attuazione, parziale, con il primo stralcio, sarà completata solo tra
breve tempo. Peraltro il tracciato indicato fu “bocciato” dalla Regione
dell’Umbria, dopo l’adozione del piano da parte del Consiglio comunale e
67
ciò determinò il nascere di notevoli
polemiche e critiche, in occasione dell’approvazione definitiva del piano
stesso, provenienti dai gruppi consiliari di opposizione.
Per quanto riguarda il cosiddetto
fabbisogno abitativo (quando si tratta nei piani regolatori di questo argomento
si individuano anche e soprattutto le eventuali zone dove consentire nuove
costruzioni), si rilevò che il patrimonio edilizio esistente, dal punto di
vista quantitativo, corrispondeva alle esigenze della popolazione complessiva
anche se, di fatto, tale patrimonio non poteva soddisfare le esigenze di tutte
le componenti della popolazione. Soprattutto risultavano insoddisfatti i bisogni
della popolazione anziana e di una popolazione dalle capacità economiche
deboli. Inoltre sussisteva una domanda tendente a un miglioramento della
qualità del patrimonio esistente, in corrispondenza della riduzione della
grandezza delle famiglie e del prevalere di nuove abitudini, rispetto a quelle
prevalenti in passato. Poi, essendo stata riconosciuta la necessità di favorire
un’inversione di tendenza rispetto al decremento demografico con il
reinsediamento di nuova popolazione, veniva evidenziata l’opportunità di
destinare una parte del patrimonio edilizio come riserva per affrontare
l’avverarsi di questa auspicata eventualità. Con il nuovo piano si prese anche
atto dell’esistenza di un consistente patrimonio edilizio non occupato e non
destinato ad abitazioni per vacanze e della possibilità che una parte di esso
potesse essere reimmesso sul mercato abitativo. Tale patrimonio, non essendo
immediatamente agibile, doveva essere assoggettato ad opere di riqualificazione
e di adeguamento agli standard abitativi contemporanei. Si prevedeva che almeno
il 50% di questo patrimonio potesse essere utilizzato.
In applicazione della legislazione
regionale il nuovo piano regolatore individuò i 17 ambiti territoriali urbani,
in linea di massima corrispondenti, oltre al centro storico, alle frazioni
esistenti nel territorio comunale.
Furono poi individuate alcune aree
progetto, denominate ambiti “G”, per le
quali furono definiti gli obiettivi del nuovo disegno urbano, anche con
indicazioni planimetriche e volumetriche, oltre che i caratteri funzionali e
d’uso delle aree interessate. Le aree progetto erano di due tipi: quelle
“destinate a riorganizzare spazi urbani posti in posizioni centrali attualmente
disorganici con destinazioni funzionali integrate di interesse collettivo e con
ridisegno della scena urbana in forma significativa e riconoscibile”; quelle
destinate a completare il “disegno di bordo e/o di riconnessione del tessuto
extraurbano con il tessuto urbano”.
Furono individuate in particolare tre
aree progetto del primo tipo: l’area ricompresa tra il piazzale sovrastante
attualmente il parcheggio di via Roma, via Roma e piazza Cahen, l’area nei
pressi della stazione ferroviaria, dalla piazza antistante la stazione al
grande parcheggio utilizzato soprattutto dai pendolari, la “Porta di Orvieto”,
sulla
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strada Amerina nei pressi del casello
autostradale (in quest’ultima area dovevano essere realizzate strutture e
infrastrutture di accoglienza e di accesso alla città e una parte di essa
doveva essere destinata alla realizzazione di uno svincolo destinato a smistare
la circolazione automobilistica da una parte verso la complanare e dall’altra
verso la città).
Una breve notazione: per ora "Porta di Orvieto" è solo la denominazione del nuovo centro commerciale realizzato da alcuni anni, appunto in una zona vicina al casello autostradale...
Una breve notazione: per ora "Porta di Orvieto" è solo la denominazione del nuovo centro commerciale realizzato da alcuni anni, appunto in una zona vicina al casello autostradale...
E furono individuate due aree progetto
del secondo tipo: il parco perimetrale di Sferracavallo e il parco urbano del
Paglia (quest’ultimo costituiva la parte urbana del più vasto parco
territoriale già citato).
Poi furono classificate come zone
omogenee B quelle aree urbane di recente costruzione non ancora “sedimentate” e
per alcune parti non completate, nelle quali abitava una parte consistente
della popolazione. In queste zone, che erano caratterizzate da un ambiente
urbano di modesta qualità, erano previsti interventi di diversa natura volti a
migliorare la situazione esistente (al fine ad esempio di provvedere alla
manutenzione o alla ristrutturazione del patrimonio edilizio utilizzato anche
con integrazioni volumetriche di tipo funzionale, di completare l’edificazione
degli spazi a ciò destinati o destinabili e di provvedere al recupero e
all’utilizzazione del patrimonio inutilizzato, di integrare con nuove
previsioni di ampliamento che si rendessero necessarie per favorire la politica
di riqualificazione del patrimonio esistente contigue e di contenuta entità, di
definire il perimetro degli insediamenti in modo che sia ben leggibile il
confine tra area urbana e area non urbana eliminando quelle tradizionali “aree
di bordo” costituite da discariche e da suoli e immobili dismessi che
caratterizzano alcune periferie).
Furono anche individuate nuove zone di ampliamento,
classificabili come zone omogenee C, per residenze normali e speciali, le prime
rappresentate da insediamenti confacenti alla domanda locale da realizzare con
iniziativa privata e le seconde rappresentate sia dalle residenze in aree Peep
e sia da quelle speciali per anziani.
Furono individuate inoltre le zone
omogenee D, distinte in zone per le attività di produzione industriale
manifatturiera ed artigianale e in zone per la produzione di servizi
commerciali, turistici e direzionali, e le zone F, distinte in zone per servizi
territoriali di interesse culturale e sociale e zone per impianti tecnologici e
per la mobilità territoriale.
Ed infine furono indicate le zone E,
suddivise in zone E1 (zone a carattere prevalentemente agricolo), zone E2 (zone
a carattere prevalentemente agroforestale), zone E3 (zone dei fondi agricoli
che sono anche in gran parte vincolati dalla legislazione nazionale sul
paesaggio), zone E4 (zone degli orti urbani di estensione molto limitata e
tendenti a soddisfare una domanda proveniente soprattutto dalla popolazione
anziana) e zone E5 (zone in prossimità dei corsi d’acqua che presentano valori
naturalistici da preservare).
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Si passò poi ad analizzare il cosiddetto
dimensionamento del piano strutturale - quella parte del piano in cui si indica
fra l’altro l’ammontare della popolazione insediabile in seguito agli
interventi previsti -, dimensionamento che non fu considerato corrispondente ad
una effettiva previsione di sviluppo, anche perché si riteneva ormai accertato
che le previsioni di lunga scadenza non potessero essere di sicura
attendibilità, ma riferito “ad un quadro di assetto territoriale ed ambientale
che il piano strutturale considera stabile ed in equilibrio”. E si rimandarono
ai piani operativi le decisioni relative alle parti del piano strutturale da
attuare dopo aver verificato la tendenza della domanda insediativa in atto e le
risorse economiche, pubbliche e private, che si sarebbero rese disponibili.
Pertanto il dimensionamento del piano strutturale non costituiva una previsione
di sviluppo ma una verifica della capacità massima di accoglimento di
popolazione ed attività sul territorio, nell’ambito del patrimonio edilizio ed
infrastrutturale esistente e realizzabile. La valutazione della capacità di accoglienza
del patrimonio edilizio esistente fu determinata considerando ottimale un
indice di 0,7 abitanti per stanza, corrispondente a quello medio esistente nel
patrimonio occupato, fatta eccezione per il centro storico per il quale fu
adottato un indice di 0,6. Fu preso atto dell’esistenza di un diffuso
patrimonio non utilizzato, stimando che il 50% di esso potesse esser recuperato
all’abitazione, previo recupero ed eventualmente un incremento di volume
mediamente del 15%.
E si arrivò, tutto ciò considerato, a
determinare una popolazione insediabile nel territorio comunale pari a 31.528
abitanti, rispetto ai 21.199 censiti nel 1991, con un potenziale incremento di
10.329 abitanti. E si ammise che, in quel modo, il piano risultava dimensionato
oltre le reali necessità contingenti.
La relazione al primo piano operativo,
la cui approvazione doveva avvenire contestualmente al piano strutturale, come
specificato in una nota di indirizzo della Giunta regionale dell’Umbria, in
prima attuazione della nuova legge urbanistica regionale del 1997, fu molto più
sintetica rispetto alla relazione al piano strutturale.
Inizialmente, nella relazione al piano
operativo, furono esposte le funzioni generali di questo piano, tendenti
soprattutto alla specificazione delle scelte contenute nel piano strutturale.
Tra l’altro nel piano operativo furono delimitate le singole zone già
classificate come omogenee in subzone. Furono indicate le zone da sottoporre a
recupero. Furono indicati con precisione gli interventi di completamento e di
integrazione della viabilità. In particolare si stabilirono le connessioni tra
la nuova viabilità derivante dalla variante Anas di Orvieto scalo e il piazzale
superiore della stazione ferroviaria, il tracciato della strada complanare e
soprattutto delle sue derivazioni (svincolo sulla strada provinciale Amerina,
diramazione verso Ficulle, diramazione verso Ciconia).
70
Il piano operativo, comunque, comprendeva due parti: una contenente la specificazione delle subzone
urbanistiche, la definizione della rete infrastrutturale generale,
l’identificazione delle aree da destinare ai servizi generali e di quartiere e
una, programmatica, contenente gli interventi da realizzare nei primi quattro
anni di applicazione del piano strutturale e gli interventi la cui attuazione
era prevista negli anni successivi.
Nel piano operativo poi particolare
attenzione fu attribuita alla disciplina degli interventi nel centro storico,
per quanto riguarda i quali questa parte del territorio comunale fu suddivisa in cinque zone: zona A1 - area
dell’urbanizzazione preunitaria (la zona dell’urbanizzazione antica in cui fu
prescritta la conservazione dell’assetto urbanistico originario e la
conservazione ed il restauro degli edifici), zona A2 - complessi edilizi storici
a tipologia speciale (a carattere storico monumentale in cui erano compresi
edifici a tipologia speciale, con caratteri storico-artistici e monumentali la
cui destinazione originaria doveva essere in linea di principio mantenuta e
poteva essere variata soltanto per funzioni di interesse collettivo compatibili
con la loro conservazione e restauro), zona A3 - urbanizzazione postunitaria
(in questa zona fu prescritto il mantenimento dell’assetto urbanistico, dei
volumi e delle superfici edilizie, la manutenzione ordinaria e straordinaria,
l’adeguamento e la ristrutturazione), zona A4 (gli edifici scolastici e
sanitari di cui fu prescritto il mantenimento, la cui destinazione d’uso non
era variata, e per i quali nell’eventuale determinazione di nuove funzioni
doveva essere attribuita priorità a quelle a carattere culturale e sociale e ad
attività ricettive e di servizio al turismo d’arte e congressuale, non essendo
ammesse attività commerciali né parcheggi), zona A5 - orti, parchi e giardini
storici sui bordi della rupe (gli spazi inedificati localizzati tra l’edilizia
di bordo e il dirupo per i quali fu indicato un progetto di conservazione degli
assetti storici e di ripristino di orti e giardini).
Nel piano operativo si considerò poi la
maggior parte delle aree destinare a residenza dal piano in vigore, quello
Benevolo-Satolli cioè, come zone di completamento, assumendo un orientamento
atto a favorire il compattamento delle zone anche attraverso un processo di
recupero e di ammodernamento del patrimonio edilizio esistente. E si distinsero
le zone B in ulteriori sottozone, individuando quelle sature, quelle in cui era
ancora possibile realizzare nuova edificazione e quelle relative a
lottizzazioni previste dai precedenti piani e programmi.
Per quanto riguarda le zone di
produzione furono individuate le zone D1 per le attività produttive artigianali
e industriali (fu previsto che le zone già localizzate dal vigente piano a
Bardano e a Ponte Giulio fossero riorganizzate, dotate di aree per servizi
generali, collegate in modo efficiente con la rete infrastrutturale stradale e
ferroviaria e furono indicate delle possibili aree di ampliamento da attivare
dopo che la piena riutilizzazione dell’esistente fosse stata verificata), le
zone D2 per le attività
71
direzionali, commerciali e turistiche
(tutte soggette a pianificazione attuativa) le zone D3 per le attività
estrattive (fu previsto il ripristino delle aree interessate).
Le zone F furono suddivise in due
sottoclassi: le zone F1 (in cui furono ricomprese tutte le attrezzature
tecnologiche territoriali come ad esempio gli impianti per la raccolta e il
trattamento dei rifiuti, gli impianti per la distribuzione idrica), le zone F2
(in cui furono ricomprese le attrezzature socio-culturali quali scuole, musei, biblioteche,
impianti sportivi, attrezzature ricreative, strutture sanitarie).
Per quanto concerne la seconda parte del
piano operativo, quella programmatica, furono indicate le zone di nuova
urbanizzazione o quelle di intervento complesso in cui si prevedeva di
intervenire immediatamente e quelle la cui urbanizzazione veniva dilazionata
nel tempo. Fu prevista l’immediata attuazione della strada complanare (sic!) e
delle sue diramazioni verso Ciconia e verso Ficulle, e della bretella di
raccordo tra la variante alla strada statale Umbro Casentinese a Orvieto scalo
con il piazzale superiore della stazione ferroviaria. Fu prevista inoltre l’immediata attuazione
delle previsioni indicate dal piano strutturale relativamente agli ambiti AG1,
AG2, AG3, AG4 e AG5 e l’attuazione differita delle previsioni indicate dal
piano strutturale relativamente a tutte le zone classificate con la lettera C,
circoscritte con apposito segno grafico nelle rispettive tavole, fatta
eccezione per quelle previste dal precedente piano regolatore già in
attuazione.
Nelle due relazioni non furono specificate con chiarezza le principali zone di
espansione previste, che ovviamente furono individuate nelle cartografie
allegate. Questo aspetto della relazione di Rossi Doria assume un certo rilievo
perché nelle discussioni che si svolsero in Consiglio comunale, sia in fase di
adozione che in fase di approvazione definitiva del piano, ci furono
amministratori e consiglieri, facenti parte della maggioranza, che sostennero
che le zone di espansione erano molto limitate, e consiglieri, facenti parte
delle opposizioni, che sostennero l’esatto contrario. Tale questione non è da
considerarsi secondaria, se si tiene presente che sia nell’ambito delle
relazioni sia nel corso delle discussioni in Consiglio comunale fu spesso
rilevato che obiettivi prioritari del piano fossero interventi volti alla
tutela dell’ambiente, tramite anche un’azione molto consistente di
riqualificazione urbana. Ora, è del tutto evidente che se si ammette che le
zone di espansione, pur potenzialmente previste nel piano, assumessero un
rilievo notevole, risulterebbe meno credibile la tesi secondo la quale gli
obiettivi prioritari del piano fossero effettivamente quelli appena citati. Non
si può a questo punto non rilevare che la popolazione insediabile nel
territorio comunale, in attuazione del piano, oltrepassasse, seppur di poco le
30.000 unità, con un incremento del 50% rispetto alla popolazione che allora
abitava ad Orvieto. Certo quell’incremento era da considerarsi come potenziale,
però quell’incremento avrebbe potuto determinare il realizzarsi,
successivamente, di interventi urbanistici piuttosto estesi, cosa che non
sarebbe stato
72
possibile se la popolazione insediabile,
in applicazione di quanto previsto nel piano, fosse stata decisamente
inferiore.
Un’altra notazione: né nel piano
strutturale né nel piano operativo furono ipotizzati possibili utilizzi per due
aree molto importanti e piuttosto estese, nel centro storico, che al momento
dell’approvazione definitiva del nuovo piano erano o già disponibili o lo
sarebbero state entro breve tempo, e cioè l’ex caserma Piave e l’ex ospedale in
piazza del Duomo. Ho ritenuto necessario formulare tale osservazione perché
questa “assenza” fu criticata più volte da esponenti dei gruppi consiliari di
opposizione, in fase di approvazione definitiva del piano, e considerata un
notevole limite del piano stesso. Ovviamente non furono della stessa opinione
rappresentanti della maggioranza. Le tesi sostenute da entrambi saranno esposte
successivamente quando sarà preso in esame il dibattito consiliare sviluppatosi
in occasione dell’approvazione definitiva del nuovo piano. Fin d’ora mi è
sembrato opportuno rilevare tale caratteristica del piano Rossi Doria perché,
oggettivamente, la questione degli utilizzi di quelle due aree presenti nel
centro storico era ed è di notevole rilievo, anche perché non è stata affatto
ancora definita ed anzi le ipotesi avanzate nel corso degli anni sono state
diverse, e spesso contrastanti.
Ed ora risulta opportuno passare ad
esaminare i principali contenuti dei dibattiti consiliari relativi sia
all’adozione che all’approvazione definitiva del piano Rossi Doria, ed anche,
pur se brevemente, all’approvazione delle controdeduzioni alle osservazioni
presentate dopo l’adozione del piano.
Il piano regolatore Rossi Doria fu
adottato nella riunione del Consiglio comunale di Orvieto del 5 agosto 1998. In
una riunione precedente l’assessore all’urbanistica Sergio Cherubini e il
professor Rossi Doria pronunciarono i loro interventi iniziali. Una sintesi dei
loro interventi, che furono discussi nella riunione del Consiglio già citata,
non viene riportata sia perché nel resoconto di quella riunione, disponibile
nell’archivio comunale, mancano alcune parti dei loro interventi sia perché,
esaminando le parti riportate nel resoconto, si può concludere che i due
interventi rispecchiassero sostanzialmente i contenuti della relazione al piano
già ampiamente analizzata.
All’inizio della riunione del 5 agosto
1998, il presidente del Consiglio comunale Stefano Talamoni diede lettura di
una lettera inviata dal consigliere di Alleanza Nazionale Luca Giardini, nella
quale comunicava la sua decisione di non essere presente poiché non gli erano
stati consegnati tutti gli allegati al nuovo piano.
Poi il consigliere Alessandra Sargenti,
in rappresentanza del gruppo del partito Popolare, comunicò la decisione di
questo gruppo di non partecipare alla discussione
73
in quanto non era stato loro consentito
di prendere visione della documentazione completa.
Il consigliere Agostino Turreni, in
rappresentanza del gruppo Lista per Orvieto, espresse anche lui notevoli
critiche per il fatto che non gli fu consegnata tutta la documentazione
necessaria e attribuì questa carenza alla fretta che il sindaco avrebbe
manifestato, per arrivare all’approvazione definitiva del piano prima della
scadenza del suo mandato e per potersi presentare alla successiva campagna
elettorale con il piano appunto approvato.
Il consigliere Stanislao Fella, di
Alleanza Nazionale, espresse, invece, una serie di critiche ai contenuti del
piano, considerato soprattutto uno strumento per porre rimedio, in vari modi,
agli errori urbanistici compiuti in passato. Secondo Fella, poi, gran parte del
tracciato della complanare era previsto in zone alluvionali, la cosiddetta
“Porta di Orvieto”, all’uscita del casello autostradale, era per le sue
caratteristiche “inquietante”, una sorta di Disneyland di cemento ed asfalto.
Rilevò inoltre la necessità di formulare delle previsioni circa i futuri
utilizzi degli edifici adibiti a caserme, nella malaugurata ma possibile
ipotesi che le caserme venissero chiuse,
si dichiarò contrario alla costruzione di un parcheggio multipiano nella
zona di via Roma, perché in questo modo sarebbe stata impedita la possibilità
di parcheggiare in piazza Cahen, e alla scelta di localizzare delle zone di
espansione ad attuazione immediata nelle vicinanze del nuovo ospedale, perché
non si prevedeva un sistema viario profondamene diverso rispetto all’attuale. Più
in generale Fella criticò “la ristrettezza di previsione di tale piano che in
fondo prevede modifiche al territorio che potevano essere apportate con una
comune variante” e “l’assenza, oltre fumose previsioni di improbabili sviluppi
turistici legati al costituendo parco archeologico, di una programmazione
territoriale che incentivi e rilanci l’economia orvietana”. Fella terminò con
un’interessante considerazione circa la possibilità che i piani regolatori
siano disattesi e vanificati, successivamente alla loro approvazione, dai piani
di recupero, dai piani attuativi, dai piani particolareggiati, dai condoni e
soprattutto dalle varianti al piano, oltre che dalla tolleranza di gravi
fenomeni di abusivismo (evidentemente sottintesa a tale considerazione era la
valutazione che in passato si era spesso ricorso a questi strumenti per
vanificare quanto previsto nei precedenti piani regolatori).
Pier Luigi Leoni, consigliere di
Alleanza Nazionale, nel suo intervento adottò un’impostazione piuttosto diversa
da quella seguita dagli altri due consiglieri dello stesso gruppo intervenuti,
uno tramite una lettera e l’altro direttamente. Leoni fornì un' interessante
chiave di lettura del processo di formazione del nuovo piano rilevando tra
l’altro che si dovesse approvare il piano entro la consiliatura 1995-1999
poiché il sindaco Cimicchi non si poteva presentare alle successive elezioni
senza la sua approvazione promessa da molto tempo, che il piano dovesse
accontentare il
74
maggior numero di elettori, che nel caso
in cui non fosse possibile accontentare dando qualcosa (ci si riferiva alla
normativa per le zone di completamento) lo si doveva fare promettendo qualcosa
(ci si riferiva alla normativa per le zone di espansione in base alla quale
spesso si può dire a un potenziale elettore che non lo si può far costruire
perché la popolazione non aumenta ma che se sarò rieletto qualche modo lo
troverò per farti costruire). Detto questo Leoni, di fatto, si espresse
favorevolmente nei riguardi del piano dichiarando che il piano era rispettoso
della normativa di fonte superiore; che il piano era correttamente redatto su
base aerofotogrammetrica; che il piano affrontava in modo organico e corretto
il problema della viabilità; che il piano affrontava il problema della
riqualificazione dei centri urbani anche se ciò costituiva il riconoscimento
degli scempi del passato; che il piano dettava soluzioni razionali per il
centro storico, pur criticando l’assenza di proposte sui futuri utilizzi delle
aree del vecchio ospedale e delle caserme; che il piano affrontava, mediante la
previsione di insediamenti di carattere sportivo, il problema della
riqualificazione delle zone della valle del Paglia rovinate dalle cave; che il
piano introduceva, seppure in modo timido e riduttivo, l’idea veramente civile
e culturalmente raffinata della porta di Orvieto all’uscita dall’autostrada;
che il piano dettava una normativa abbastanza chiara, sebbene troppo minuziosa
e destinata ad essere complicata dal nuovo regolamento edilizio.
Espresse, poi, il proprio giudizio
positivo il consigliere di maggioranza Giuliano Santelli, il quale dichiarò che
il nuovo piano affrontava in modo strutturale tre questioni molto importanti:
la pianificazione e l’individuazione definitiva delle zone di espansione intese
come zone urbane ampie ma flessibili nella loro crescita, le nuove
infrastrutture viarie in primo luogo la complanare tra l’Amerina e la zona
industriale di Bardano, gli interventi di riqualificazione urbanistica relativi
a Orvieto scalo, Ciconia e Sferracavallo. Santelli affermò però che, riguardo a
interi comparti abitativi da decenni vuoti, mai immessi sul mercato
immobiliare, e ormai ridotti a stabili in alcuni casi anche pericolosi e
incompiuti (si riferiva agli immobili delle Conce, a quello incompiuto nei pressi
del tribunale, agli immobili confinanti situati a fianco della Smef e
confinanti con la Confaloniera), il nuovo piano avrebbe potuto e dovuto agire
con maggiore determinazione e propose che nel piano operativo, qualora
permanesse la volontà di alcuni proprietari di non procedere all’immissione sul
mercato di queste abitazioni, si procedesse al loro inserimento all’interno di
piani di recupero, predeterminando così la possibilità di esproprio da parte
del Comune.
Poi, come semplice consigliere di maggioranza,
intervenne il presidente del Consiglio comunale Stefano Talamoni. Talamoni,
innanzitutto, relativamente al carattere generale del nuovo piano, sostenne che
fosse uno strumento sia per “fotografare” le profonde trasformazioni che
nell’arco del ventennio precedente avevano interessato l’intero territorio
comunale sia per fornire risposte valide e alle “emergenze” e soprattutto
ai problemi “strutturali” che, nel corso del tempo, si erano manifestati. E,
75
secondo Talamoni, il nuovo piano “ridisegna
le maglie più grandi e quelle più fini di un tessuto connettivo, composto da
infrastrutture destinate a riconnettere, a ‘ricucire’ grandi agglomerati
urbani, superando cesure naturali ed artificiali (il fiume, l’asse delle vie di
comunicazione nazionali e cioè le due linee ferroviarie e l’autostrada). La
scelta strategica fondamentale è rappresentata, infatti, dal nuovo assetto
della grande viabilità, incentrato sulla variante stradale già acquisita
nell’immaginario collettivo con il termine di ‘complanare’ (perché tangenziale,
parallela, per lungo tratto all’autostrada)”. Talamoni riprese un obiettivo,
che già negli precedenti era stato più volte evidenziato, e che caratterizzava
anche il nuovo piano, e cioè “la città unita”, o meglio più unita, poiché esso
tendeva a ricondurre a unità il multicentrismo che contraddistingueva il
territorio comunale - la sua articolazione in 45 nuclei abitati di cui soltanto
4 con popolazione superiore a 1.500 abitanti -, attraverso un sistema di
relazioni efficienti sia sotto il profilo dell’organizzazione della mobilità
che della dotazione di pari opportunità di accesso ai servizi primari e
secondari e di sviluppo economico e civile.
Prese poi la parola Massimo Frellicca,
allora capogruppo dei Democratici di Sinistra, il quale svolse un intervento
piuttosto lungo, nell’ambito del quale fece spesso riferimento a quanto già
scritto nella relazione al piano. Mi limito, soprattutto per brevità, a citare
le principali e le più interessanti considerazioni contenute nel suo intervento.
Frellicca sostenne che con il nuovo piano si sarebbero create solo alcune
limitate zone di espansione (previste a Ciconia nei pressi del nuovo ospedale,
a Sferracavallo, a Canale, a Colonnetta di Prodo, ad Osarella e a Morrano),
valutazione questa che non fu condivisa invece da alcuni rappresentanti delle
opposizioni secondo i quali le zone di espansione previste non erano affatto di
scarso rilievo. Frellicca rilevò che, diversamente da quanto sostenuto in
alcuni interventi formulati da rappresentanti delle opposizioni, il processo di
formazione del piano fosse stato caratterizzato da una notevole trasparenza e
da un’ampia partecipazione, ed anche condivisione, dei cittadini orvietani.
Intervenne poi, di nuovo, brevemente,
l’assessore all’urbanistica Sergio Cherubini. Cherubini precisò, innanzitutto,
che nei quattro anni di preparazione del nuovo piano né lui né l’estensore del
piano né l’ufficio avevano ricevuto da parte dei consiglieri di minoranza
richieste di incontri o di documenti, sottintendendo che non fossero quindi
legittime le loro critiche, formulate nel corso del dibattito, di una del tutto
insufficiente informazione sui contenuti del piano. Affermò, poi, che l’unica
vera zona di espansione era prevista a Ciconia “a destra verso la strada
statale 79 ternana”, che non c’erano zone di espansione “pilotate”. Si era
tentato solamente di soddisfare le esigenze specifiche di singoli cittadini. E
rilevò che le principali scelte del piano erano influenzate solo da un
elemento, di particolare importanza, e cioè dall’esistenza di un fiume, di una
ferrovia e di un’autostrada. Altre influenze, poco chiare, non c’erano state.
76
L’intervento conclusivo fu svolto,
ovviamente, dall’allora sindaco Stefano Cimicchi. Cimicchi riconobbe che il
piano avrebbe funzionato solamente se si fosse effettivamente realizzata la
complanare e il piano infrastrutturale che è stato individuato (che dire
pertanto oggi quando dopo “solo” 15 anni si sta ultimando esclusivamente il
primo stralcio della complanare: quanto previsto dal piano è stato
vanificato?). E ammise che con il nuovo piano ci si faceva carico degli errori
urbanistici compiuti in passato, nei decenni precedenti, e che tale ammissione
non rappresentava un’offesa per l’attuale Giunta, che aveva approvato il nuovo
piano. Anzi una delle principali indicazioni rivolte al professor Rossi Doria
fu proprio la necessità di farsi carico del passato, oltre ad un’altra,
altrettanto importante, e cioè l’esigenza di rendere il nuovo piano “altamente
realizzabile” (ma se il completamento solo della prima parte della complanare è
tardato così tanto ciò vuol dire che il piano Rossi Doria è stato realizzato
solo in minima parte?). E Cimicchi precisò che “il tasso di realizzabilità
delle opere individuate in questo piano è altissimo”. Evidentemente Cimicchi si
sbagliò, se si considera quanto avvenuto per la complanare, appunto. Peraltro
Cimicchi rimase sindaco fino al 2004 e quindi una parte delle responsabilità
circa la mancata realizzazione della complanare sono senza dubbio sue. Cimicchi
aggiunse che il piano Rossi Doria era stato il primo piano regolatore che non
fosse stato discusso in precedenza nelle segreterie e nelle sezioni dei
partiti. E ciò, secondo Cimicchi, rappresentò un notevole elemento di novità,
di “svolta”. Poi Cimicchi espose quello che, a suo avviso, era stato il motivo
che impedì, per venti lunghi anni, la definizione di un nuovo piano regolatore:
era stato più facile trovare l’accordo tra le diverse forze politiche
relativamente ad interventi parziali, a singole varianti, appunto definite
parziali, rispetto invece alla predisposizione di un disegno urbanistico di
carattere generale. Poi nell’intervento di Cimicchi ci fu un breve passaggio
che, secondo me, invece doveva essere approfondito. Infatti Cimicchi affermò:
“In passato c’erano state discussioni terribili ma con voti unanimi perché
c’era lo scambio” (il riferimento fu fatto sottintendendo che se in questo caso
c’era stata un’opposizione decisa non era un fatto negativo tutt’altro).
Cimicchi quindi adombrò l’esistenza in passato di una sorta di consociativismo
tra maggioranza ed opposizione, non specificando le occasioni nelle quali esso
si manifestò né se si verificò solamente in occasione di scelte di natura
urbanistica.
A questo punto ci furono gli interventi
per dichiarazioni di voto.
Prese la parola per primo il consigliere
Agostino Turreni, per il gruppo Lista per Orvieto. Turreni rilevò che non
spettava ai gruppi di opposizione di formulare delle controproposte, anche
perché sarebbe stato necessario che avessero avuto una compiuta conoscenza di
tutti gli atti, nei tempi previsti. E proprio il fatto che sia stato violato il
diritto di accesso agli atti da parte della minoranza venne considerato il
77
principale motivo alla base della decisione
di votare contro l’adozione del nuovo piano.
Intervenne poi il consigliere di
minoranza Pietro Lamberto Brencio, il quale, dopo aver espresso critiche di
varia natura relativamente ai contenuti del nuovo piano, manifestò la sua
incertezza circa l’effettiva realizzazione della complanare, rilevando che se
non fosse stata possibile la sua realizzazione entro tempi brevi sarebbe
“saltata” l’impostazione generale del piano stesso.
Inoltre il consigliere Stanislao Fella,
in rappresentanza del gruppo di Alleanza Nazionale, ribadendo le critiche già
espresse, dichiarò che il suo gruppo avrebbe votato conto l’adozione del nuovo
piano.
Infine, il consigliere Massimo
Frellicca, prendendo spunto dalle considerazioni svolte nel suo precedente
intervento, annunciò il voto favorevole all’adozione del piano Rossi Doria dei
componenti del gruppo consiliare dei Democratici di Sinistra.
E la riunione si concluse con la
decisione del Consiglio comunale di adottare il piano regolatore in esame, con
12 voti favorevoli e 5 contrari, quelli dei consiglieri Leoni, Turreni,
Brencio, Fella e Olimpieri.
Nella riunione del Consiglio comunale
del 20 gennaio 1999 furono approvate le controdeduzioni alle osservazioni
presentate al nuovo piano regolatore redatto dal professor Rossi Doria.
L’assessore all’urbanistica Sergio
Cherubini, nel suo intervento iniziale, rilevò che furono presentate, nei tempi
previsti, 209 osservazioni, riunite in 5 gruppi dall’ufficio. Di queste, 59
erano state accolte, 61 erano state parzialmente accolte e 89 respinte. Il
primo gruppo riguardava le richieste di inserimento di aree di completamento o
di lotti interclusi all’interno delle zone B (tali zone erano aree urbane di
recente costruzione dove erano anche possibili interventi di ristrutturazione del
patrimonio edilizio utilizzato, di completamento dell’edificazione di spazi a
ciò destinati, di recupero del patrimonio inutilizzato, di ampliamento
necessari per riqualificare il patrimonio esistente). E si propose di
accogliere tutte queste osservazioni. Il secondo gruppo riguardava i nuclei
insediativi sparsi e si propose di accogliere anche tali osservazioni. Il terzo
riguardava gli insediamenti produttivi esistenti, le cosiddette zone D1A. Il
quarto era relativo alle zone C di ampliamento (di fatto si chiedeva di
inserire altre aree fra le zone C). Si propose di accogliere solo una parte di
queste osservazioni, quelle riguardanti l’inserimento fra le zone C di aree a
ridosso di “scelte urbanistiche precedenti” o a ridosso di “scelte urbanistiche
previste dal piano adottato”. Il quinto riguardava le strutture esistenti per
la trasformazione e la commercializzazione di prodotti agricoli. Furono
presentate
78
alcune richieste di espansione di quelle
strutture e fu consentita una maggiorazione del 30% della superficie utile
per le strutture in questione.
Cherubini, poi, osservò che la quasi totalità delle osservazioni presentate
avevano come oggetto solo questioni specifiche e che quindi non mettevano in
discussione le linee generali del piano. E da questa osservazione l’assessore
ne derivò la considerazione che da parte della grande maggioranza di coloro che
avevano presentato le osservazioni emergeva un loro giudizio positivo
relativamente ai contenuti generali del piano adottato. Fra l’altro Cherubini
ribadì che il nuovo piano fosse un piano equilibrato, prudente, poichè fu
deciso, prima di prevedere nuove zone di espansione, di realizzare i
completamenti e le infrastrutture ed i servizi mancanti. Comunque Cherubini
affermò “fermo restando che in questa prima fase tutte le zone di espansione
dovranno essere completate prima di andare a prendere delle aree nuove”. Quindi
delle zone di espansione ad attuazione immediata, o comunque nei primi anni
dall’approvazione del piano, erano previste dal piano adottato.
Nella prima parte dell’intervento del
consigliere Alessandra Sargenti, in rappresentanza del gruppo del Partito Popolare, fu sintetizzato il
comportamento di quel gruppo in relazione al nuovo piano. Sargenti ricordò che
i consiglieri del Partito Popolare non parteciparono al voto per l’adozione del
piano per protesta, non avendo potuto consultare tutti i documenti necessari.
Poiché dal 13 gennaio 1999 avevano avuto a disposizione la documentazione
completa, i consiglieri di quel gruppo erano in grado di esprimere un giudizio,
seppure tardivo, sul nuovo piano. Sargenti dichiarò che il nuovo piano
regolatore, con l’approvazione di un certo numero di osservazioni, ha
accontentato molti cittadini “inserendo qua e là aree in zone B e C”, ma chiese
che fossero ulteriormente esaminate le osservazioni respinte. Passando poi ad
analizzare le linee generali del piano, rilevò che esso si configurava
sostanzialmente come una grande variante al piano esistente (a monte di tale
affermazione c’era ovviamente la valutazione secondo la quale con il nuovo
piano non venissero prese decisioni di particolare importanza). Le principali
perplessità espresse da Sargenti riguardavano la chiarezza delle norme, la
fattibilità di natura economica degli ambiti di immediata attuazione come, ad
esempio, l’intervento previsto per piazza Cahen e aree vicine, la
riorganizzazione di Orvieto scalo, la porta di Orvieto, il parco perimetrale di
Sferracavallo e il parco urbano del Paglia. E la Sargenti concluse il suo
intervento, dichiarando che il suo gruppo “sarà comunque attento e propositivo
nel dibattito futuro sulle scelte che verranno prese per la città in cui
viviamo”. Non si può non notare che il gruppo del Partito Popolare, nella fase
di esame delle osservazioni, assunse un atteggiamento, nei confronti anche
delle linee generali del nuovo piano, molto diverso da quello che lo
caratterizzò quando si doveva adottare il piano stesso. I veri motivi di questo
cambiamento? Non li conosco ma me li immagino.
Intervenne poi il consigliere Leoni che,
prima di prendere in esame le osservazioni, formulò alcune valutazioni di altra
natura. Leoni rilevò innanzitutto che riteneva
79
positivo il fatto che il nuovo piano
fosse stato spesso considerato come un piano di basso profilo. Infatti Leoni ammise
che era stato sempre terrorizzato dai piani regolatori di alto profilo e
dichiarò “nella mia vita ho visto che con le scoperte geniali degli architetti
sono stati fatti danni enormi, danni feroci…con le idee geniali - sia quelle a
carattere di pianificazione di tipo albanese sia quelle relative alla zona di
espansione a Ciconia - si sono avuti dei danni non più recuperabili. Le
proposte geniali che vennero avanzate all’epoca avrebbero fatto danni
altrettanto gravi, se fossero state accolte” (molto probabilmente Leoni aveva
ragione ma perché non specificò quali principali decisioni dovessero essere
prese nell’ambito del piano Piccinato?). Inoltre Leoni motivò meglio la sua
scelta di votare contro all’adozione del piano nella riunione del Consiglio comunale
dell’agosto del 1998: nel piano vi erano elementi positivi ma anche elementi
abbastanza gravi rappresentati dalla non risoluzione di problemi importanti
quali la destinazione dell’ex caserma Piave, dell’area sovrastante il futuro
parcheggio di via Roma e del vecchio ospedale (probabilmente Leoni fece questa
notazione perché non si erano ben capiti i motivi alla base del suo voto
contrario all’adozione del piano dopo un intervento nella riunione del
Consiglio comunale dell’agosto del 1998 nel quale espresse sostanzialmente un
giudizio positivo sui contenuti del piano).
E sempre relativamente alla questione relativa al basso profilo del
nuovo piano, Leoni affermò “credo che l’impressione di basso profilo sia da
ascriversi al fatto che questo piano regolatore deve rimediare ad una
situazione di edificazione, di urbanizzazione molto pesante, avvenuta nel
dopoguerra e che ormai è avvenuta, bene o male, con errori e aspetti positivi.
Il grosso che doveva essere fatto ad Orvieto, in questo secolo, è stato fatto.
Era già stato fatto negli anni ’60, negli anni ’70” (nel condividere tale
affermazione di Leoni vorrei però aggiungere che qualcosa è stato fatto anche
negli anni ’80 e nei primi anni ’90 con l’attuazione di quanto previsto nelle
cosiddette varianti parziali). E Leoni
così continuò “si trattava con questo piano regolatore di fare il punto della
situazione, di ricucire, di prendere atto di quello che c’era, di migliorarlo e
di completarlo. Tutto ciò è stato realizzato con scaltrezza, attraverso la
suddivisione dell’attuazione del piano in due fasi: quella delle zone
produttive e delle zone di completamento, che possono essere realizzate subito;
quella delle zone di espansione, rinviate ad un improbabile auspicato
incremento demografico. Questa, infatti, è una soluzione abbastanza scaltra
perché dà speranza e l’uomo vive soprattutto di speranza”.
Nel suo intervento il consigliere Egisto
Tedeschini, appartenente al gruppo del Partito Popolare, sostenne, fra l’altro,
che nel nuovo piano fosse previsto un numero eccessivo di zone nelle quali
potessero essere realizzati nuovi insediamenti commerciali, questione che fu
oggetto anche di un’osservazione presentata dalla Confcommercio provinciale.
Tedeschini criticò inoltre il fatto che nel piano strutturale vi fosse
un’eccessiva presenza di zone C in aree alluvionali. Tali zone non erano
considerate ad immediata attuazione ma, nonostante questo, la loro presenza
80
destava ugualmente preoccupazione. E poi
in questo modo si creavano delle aspettative su interventi irrealizzabili, cosa
che secondo Tedeschini non si doveva fare, in generale, non solo relativamente
a quelle zone. Peraltro aspettative irrealizzabili si sono determinate nel
momento in cui, nel piano strutturale, sono state previsti complessivamente interventi,
di varia natura, che avrebbero potuto consentire un aumento della popolazione
pari a circa 10.000 unità. Poiché tale eventualità non si verificherà, si
creeranno delle aspettative irrealizzabili in una parte della popolazione. Notò
inoltre con sorpresa che le associazioni ambientaliste, diversamente da quanto
avvenuto in passato, non presentarono nessuna osservazione. Ed infine anche
Tedeschini criticò il fatto che con il nuovo piano non ci si occupasse delle
future destinazioni delle aree delle caserme e del vecchio ospedale.
Vi furono poi le repliche del professor
Rossi Doria e dell’assessore Cherubini, quasi esclusivamente rivolte a
rispondere alle considerazioni svolte dai consiglieri relativamente alle
osservazioni presentate. Cherubini, giustamente, rilevò che, in alcuni
interventi, non ci si era limitati ad occuparsi delle osservazioni ma che
venivano analizzate le linee generali del nuovo piano. Peraltro Cherubini in
qualche modo giustificò almeno una parte dei consiglieri che fecero quella scelta,
i consiglieri del gruppo del Partito Popolare, i quali non parteciparono al
dibattito riguardante l’adozione del nuovo piano. Cherubini poi motivò la
decisione di non occuparsi delle aree delle caserme e del vecchio ospedale: non
si era ritenuto opportuno né possibile esaminare le future destinazioni d’uso
di aree non ancora disponibili per utilizzi diversi (citò il caso del vecchio
ospedale che non era stato ancora liberato).
Nella riunione del Consiglio comunale
del 16 febbraio del 2000 ci si occupò dell’approvazione del nuovo piano
regolatore, redatto dal professor Rossi Doria. L’approvazione avvenne dopo lo
svolgimento delle elezioni. Quindi la composizione del Consiglio era diversa
rispetto a quella del Consiglio che adottò il piano. Anche per questo motivo,
considerando che si sviluppò un’ampia discussione sulle linee generali del
piano anche in fase di approvazione, dovuta soprattutto al fatto che
intervennero consiglieri che non avevano tale incarico quando il piano fu
adottato, diversamente da quanto avvenuto quando mi sono occupato dei
precedenti piani urbanistici, ho dovuto necessariamente attribuire una maggiore attenzione nei
confronti della discussione avvenuta in occasione dell’approvazione del piano,
mentre per i piani precedenti fu sufficiente concentrarsi sulla discussione
manifestatasi in fase di adozione dei piani stessi.
Al nuovo assessore all’urbanistica,
Nazzareno Desideri, del partito socialista, spettò l’intervento iniziale.
Desideri rilevò, in primo luogo, la notevole attenzione che, con il nuovo
piano, veniva attribuita alle risorse ambientali del territorio comunale, alla
loro tutela e valorizzazione. Ribadì poi che un obiettivo prioritario del piano
era rappresentato dalla volontà di procedere ad un’estesa ed intensa opera di
81
riqualificazione urbana. Infine Desideri
passò a leggere la relazione, predisposta dall’ufficio, per l’approvazione del
piano.
Appena dopo intervenne il consigliere
Maurizio Conticelli, del gruppo di opposizione “I Democratici”, il quale, è
bene ricordarlo, era assessore all’urbanistica quando la Giunta espressa dal
precedente Consiglio decise di affidare a Bernardo Rossi Doria l’incarico di
redigere il nuovo piano e che, quindi, seguì la prima fase del processo di
formazione del piano. Anche per questo forse l’intervento di Conticelli fu
piuttosto lungo ed articolato. Conticelli iniziò con il rilevare che, a suo
giudizio, ci fosse un’evidente incongruenza tra il documento preliminare al piano,
che fu approvato agli inizi del 1996, quando era ancora assessore all’urbanistica,
e i contenuti del piano stesso. E Conticelli manifestò la sua profonda
delusione soprattutto per le problematiche, importanti, che, con il nuovo
piano, o non venivano risolte o non venivano affrontate o venivano malamente
affrontate. Un ulteriore elemento di imbarazzo, precisamente così lo definisce,
era rappresentato da Conticelli dalla bocciatura, da parte della Regione, del
tracciato della complanare, opera fondamentale prevista dal piano, che in
qualche modo aveva determinato la “decapitazione” del piano stesso, bocciatura
che recepiva le richieste avanzate, relativamente alla complanare, espresse dal
gruppo di cui faceva parte Conticelli. E già a questo punto del suo intervento
Conticelli rilevò l’impossibilità di approvare un piano, di cui era “saltato”
un intervento essenziale, fondamentale, come appunto la realizzazione della
complanare. E Conticelli espose altri motivi che imponevano al suo gruppo la
decisione di non approvare il nuovo piano. Il primo di questi motivi riguardava
le espansioni definite “immotivate, eccessivamente discrezionali, non ben
comprensibili”. Le zone di espansione, le zone C quindi, sebbene sarebbero
state realizzate solo se, successivamente all’approvazione del piano, il
sindaco e il Consiglio lo avessero deciso, impegnavano un ampio territorio ed
erano destinate ad ospitare circa 2.000 abitanti, con la conseguenza che la
quasi totalità dei nuovi abitanti che avrebbero potuto risiedere nel territorio
comunale, se tutte le previsioni del piano fossero state realizzate, e cioè
10.000, sarebbero stati ospitati nelle zone di completamento, le zone B -,
secondo Conticelli il numero degli abitanti “correlato” a queste zone era pari
a circa 6.000 unità -, zone cioè ad attuazione immediata. Un breve inciso:
Conticelli paragonò il piano Rossi Doria al piano Piccinato, perché anche
quest’ultimo prevedeva un aumento della popolazione pari a circa 10.000 abitanti.
Quindi, secondo Conticelli, quando si esaminavano le espansioni consentite dal
nuovo piano occorreva considerare anche e soprattutto le zone B. E la
conclusione a cui pervenne Conticelli, a questo proposito, fu che quello
redatto da Rossi Doria fosse “un piano espansivista”. Le espansioni così
concepite si manifestavano soprattutto a Ciconia e a Sferracavallo. Nel primo caso
“invadono le propaggini del monte Peglia” e la più discutibile di esse era
quella localizzata sopra Mossa del Pallio, in direzione di San Giorgio. Per
quanto riguarda Sferracavallo, Conticelli criticò soprattutto la presenza di
un’espansione, prevista in un’area
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esondabile, tra due fossi. E continuò
affermando che gli sembrava scandaloso prevedere espansioni in zone agricole di
pregio. Inoltre, secondo Conticelli ci si occupava molto poco del centro
storico e criticava l’assenza di decisioni circa le future destinazioni d’uso
di grandi edifici quali il vecchio ospedale.
In parziale risposta a quanto sostenuto
da Conticelli intervenne l’assessore Sergio Cherubini che, quando il Consiglio
comunale fu chiamato ad approvare il nuovo piano, non aveva più la delega ad
occuparsi di urbanistica, era assessore ai lavori pubblici, ma che nella
precedente consiliatura era stato assessore all’urbanistica, proprio dopo
Conticelli. Poiché Conticelli aveva sostenuto che i contenuti del piano fossero
notevolmente diversi rispetto a quanto ci si sarebbe aspettato nella
definizione del documento preliminare d’indirizzo, predisposto quando assessore
all’urbanistica era ancora lo stesso Conticelli, Cherubini sembrò in qualche
modo rispondere a quella critica rilevando che a determinare la versione
definitiva del piano fossero state soprattutto le richieste e le valutazioni
dei cittadini, manifestate nel corso del processo di formazione del piano,
tramite prevalentemente l’organizzazione di numerosi incontri, e comunque la
volontà di soddisfare gli interessi della comunità orvietana. Cherubini inoltre
manifestò la sua contrarietà nei confronti del giudizio di Conticelli e di
altri, secondo il quale quello redatto da Rossi Doria fosse un piano di basso
profilo, che non affrontava le problematiche urbanistiche più importanti,
allora esistenti. Cherubini poi ribadì che non si formulò realmente una
previsione di aumento della popolazione di 10.000 abitanti e che il piano non
fosse quindi sovradimensionato. Si operò, semplicemente, in modo tale che, se
tutti gli interventi inseriti nel piano fossero stati realizzati, non solo nei
primi anni dopo la sua approvazione, ma anche negli anni successivi, gli
abitanti che teoricamente avrebbero potuto risiedere in tutto il territorio comunale
sarebbe stati circa 30.000. E Cherubini sostenne che questo piano, diversamente
dai precedenti, anche per il cambiamento della normativa vigente, non fosse un
piano rigido ma un piano flessibile, valido per un periodo di 20 anni,
nell’ambito del quale solo con il passare del tempo si sarebbe deciso quali
interventi sarebbero stati realizzati e quali no, per tenere conto, fra
l’altro, di eventuali cambiamenti nelle esigenze che via via si sarebbero
manifestate e nei problemi che si sarebbe dovuto affrontare. Cherubini poi
rigettò un’altra delle valutazioni espresse da Conticelli. Non era vero che il
piano trascurasse il centro storico (tra l’altro era prevista la
riqualificazione di piazza Cahen, alcune modifiche al sistema dei parcheggi,
un’area ricreativo-sportiva). E non era proprio possibile prendere delle
decisioni relative alle future destinazioni del vecchio ospedale e delle
caserme. Comportarsi in questo modo, riguardo a quegli edifici, fu, secondo
Cherubini, un atto di umiltà. In relazione alla complanare, Cherubini affermò
che non era stata bocciata da parte della Regione la necessità e quindi la
scelta di realizzarla, Di fatto erano stati richiesti solamente dei cambiamenti
parziali del suo tracciato.
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Prese poi la parola Sergio Ercini, del
gruppo “Libero Comune”. Anche Ercini rilevò che con il nuovo piano non fosse
stato affrontato quello che considerava il problema fondamentale, e cioè la
rivitalizzazione del centro storico. E anche Ercini sostenne che il piano si
sarebbe dovuto occupare dell’area dell’ex caserma Piave e del vecchio ospedale.
Aggiunse poi che era d’accordo con gran parte delle considerazioni svolte da
Conticelli, relativamente ai contenuti del piano. Ricordò inoltre che quando,
con il piano Piccinato si decise di realizzare la nuova città a Ciconia, egli
manifestò la propria contrarietà a quella scelta e propose un’altra area, nella
zona del Botto e della Culata, e riconfermò la validità di questa sua proposta,
che se fosse stata attuata avrebbe evitato il manifestarsi delle notevoli
difficoltà nella mobilità, che si verificarono e si verificano in seguito alla
decisione di individuare a Ciconia l’area dove far sorgere la nuova città.
Poi prese la parola Fausto Ermini,
consigliere di Forza Italia. Ermini sostenne che gli aspetti positivi del piano
fossero “minoritari e insufficienti” rispetto a quelli positivi e anticipò il
voto contrario del suo gruppo relativamente all’approvazione del piano. Diversi
i motivi alla base di questa decisione. Innanzitutto veniva considerata sbagliata
la previsione di un incremento della popolazione pari a circa 10.000 abitanti.
Criticò anche la complanare, definita “una superstrada con mega svincoli da
megalopoli americana”. Ed evidenziò l’indifferenza che si manifestava nei
confronti del centro storico. Affermò poi che nel piano vi fosse “una
spasmodica ed ossessiva ricerca di aree edificabili; queste aree vengono
identificate nella zona di Ciconia e in particolare nelle aree vicino al nuovo
ospedale, e cito la collina sotto San Giorgio”. Si perseverava, quindi,
nell’errore compiuto con il piano Piccinato e cioè si tendeva a “intasare
l’ormai saturo grande quartiere di Ciconia”. E considerò allarmante la
bocciatura da parte della Regione della complanare. E sostenne che la Regione
rilevò l’assenza, a monte della decisione di realizzare la complanare, di studi
attendibili sui flussi di traffico e soprattutto sulla provenienza e sulla
destinazione dei mezzi pesanti. A tale proposito, rese nota la posizione di
Forza Italia, favorevole alla realizzazione del secondo ponte sul Paglia e di
quella che Ermini definì la “complanare 2”, una complanare alternativa a quella
proposta nel piano, da localizzare con minore impatto ambientale in una zona
ricompresa tra la ferrovia e l’autostrada. Secondo Ermini, con il piano, non si
riusciva, per il centro storico, a coniugare tutela e valorizzazione dei beni
culturali, rispetto per le procedure amministrative e rispetto per i cittadini
che non andavano “vessati ma guidati verso un restauro intelligente”. E secondo
Ermini “si inaspriscono i vincoli e sono necessari costosi piani
particolareggiati che dovranno accompagnare anche semplici frazionamenti e
ristrutturazioni”.
Intervenne, quindi, Guido Alberto
Taddei, del Partito Popolare. Taddei preannunciò il voto di astensione del suo
gruppo, gruppo che comunque faceva parte dell’opposizione alla Giunta di
sinistra. Secondo Taddei “il piano regolatore è fortemente politico, forse
anche troppo, e la politica ha avuto una prevalenza sulla
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programmazione tecnica”, questo perché
era basato soprattutto sulle richieste specifiche di singoli cittadini,
piuttosto che essere il frutto di una pianificazione “a priori”. E per Taddei
il piano non era omogeneo, le zone di completamente erano “a macchia di
leopardo”, venivano escluse alcune ed inserite altre, anche se contigue, poichè
si tendeva a gratificare alcuni e a penalizzare altri. Era un piano che “non
arriva alla sufficienza. Poteva arrivare alla sufficienza se ci fosse stata la
famosa complanare”. Secondo Taddei, in passato la politica urbanistica aveva
spinto i cittadini a costruire anche vicino ai letti dei fiumi. E, riconobbe
Taddei, questo non sarebbe avvenuto in attuazione del nuovo piano. Anche per il
consigliere del Partito Popolare però, con il nuovo piano, si faceva pochissimo
per il centro storico. Occorreva, invece, predisporre dei piani di recupero,
nel centro storico. E definì il nuovo piano, un piano “virtuale” sia perché non
prendeva in considerazione le caserme e il vecchio ospedale sia perché le nuove
zone di espansione non erano eseguibili nell’immediato. Si poteva intervenire
subito solo sulle zone B. Era giudicata insufficiente la sua valenza sociale:
non teneva conto delle esigenze dei giovani, non prevedendo centri ad essi
destinati, mentre maggiore attenzione era dedicata agli anziani. Insufficiente
era considerata anche la sua valenza economica, in quanto non prevedeva nella
misura necessaria incrementi degli edifici artigianali, commerciali ed
industriali.
Il consigliere Stanislao Fella, poi, del
gruppo di Alleanza Nazionale, iniziò il suo intervento rilevando che il nuovo
piano si trovava di fronte ad una difficoltà enorme, sanare quanto attuato in
seguito ai precedenti piani, ritenuti “sbagliati e disastrosi”, che avevano
consentito di costruire molto e male, male soprattutto perché avevano previsto
la realizzazione di zone di espansione, senza prevedere di costruire le strade
per esse necessarie, zone che furono rivolte soprattutto alla creazione di una
città alternativa al centro storico. Fella ricordò che gran parte delle
critiche che Alleanza Nazionale formulò relativamente alla complanare furono
poi riprese dalla Regione, con la bocciatura di quella strada, e questo perché
la complanare fu frettolosamente inserita nel nuovo piano, senza che fossero
stati elaborati i necessari studi, lo studio dei flussi di traffico, quello
riguardante l’impatto ambientale, gli studi che affrontassero le problematiche
paesistiche e idrogeologiche. Fella rilevò, diversamente da altri consiglieri
di opposizione, che le zone di espansione erano molto limitate. Ma secondo
Fella, come nei precedenti piani, anche con questo piano si consentiva di
costruire nelle vicinanze di fossi. Anche, per Fella, poi, il nuovo piano
trascurava il centro storico. E non si tutelava realmente l’ambiente,
considerando ad esempio che non erano previste zone destinate al
rimboschimento.
A questo punto prese la parola Franco
Raimondo Barbabella, del gruppo socialista. Barbabella rilevò che, a suo
giudizio, non ci fossero notevoli differenze tra il dibattito che si sviluppò
alla metà degli anni ’70, in occasione dell’approvazione della variante
generale Benevolo-Satolli, e il dibattito che si sviluppò per quanto riguarda
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l’approvazione del piano Rossi Doria. In
entrambi i casi infatti si manifestarono
sia posizioni che erano contrarie a “processi espansivi” sia posizioni
favorevoli al verificarsi di “processi espansivi” ancora più consistenti. E Barbabella, riferendosi alle decisioni
prese con il piano Piccinato, ricordò che, in applicazione di una cultura
urbanistica allora predominante, si pensò che il centro storico si potesse
salvare adottando, per questa parte del territorio comunale, una normativa
molto rigida, e che le espansioni si dovessero realizzare lontano dal centro storico.
Su questo ci fu una discussione “dura, seria” che ebbe un’eco anche sui
giornali nazionali. Fu scelta Ciconia, come area dove far sorgere la nuova
città, ma l’alternativa che fu prospettata era altrettanto discutibile. Fu
formulata da un gruppo di orvietani, i quali proposero che la nuova città si
espandesse nella zona, dove attualmente c’è la concessionaria della Fiat, nella
zona dell’Arcone e sulle colline, ad esempio al Tamburino. Fu un merito
“storico”, attribuibile agli amministratori di allora, a Torroni, a Cirinei,
l’aver impedito quello che Barbabella definì uno “scempio”. Barbabella
comunque, tra le righe del suo intervento, fece capire che anche la scelta di
Ciconia fosse per lui sbagliata, ma di nuovo ribadì che era stata la
conseguenza della decisione di dare vita ad una nuova città, frutto di quella
cultura urbanistica prevalente allora, a cui ho già in precedenza fatto
riferimento. Secondo Barbabella con la variante Benevolo-Satolli ci fu una
svolta, perché si passò dall’idea della città nuova, che aveva come corollario
il blocco della città vecchia, a una “cultura rovesciata”, al tentativo cioè di
“reinterpretare la città vecchia limitando la città nuova”. E per far passare
questa nuova cultura, fu necessaria una battaglia durissima, all’interno dei
partiti, nella società e nelle istituzioni. E tale nuova linea fu definita da
Barbabella “faticosissima, piena di conseguenza per il futuro” (purtroppo
Barbabella non specificò meglio cosa intendeva e si espresse quindi in modo
generico). Barbabella aggiunse che il progetto Orvieto, la valorizzazione del
patrimonio storico, culturale ed ambientale, presente nella rupe, nacque
allora, come frutto di quella nuova linea. E così proseguì Barbabella,
riferendosi a quella nuova cultura urbanistica (si ricorda che Barbabella
quando fu approvata la variante Benevolo-Satolli era assessore e quando fu
sindaco a partire dal 1980 attuò una politica urbanistica in sintonia con
quella variante) “qualcuno ci sperò troppo, come noi, qualcun altro la combattè
come il diavolo, chi vinse? Probabilmente non lo so chi vinse, non sono io che
lo posso dire, io dico che al termine di quella lunga battaglia durata quasi un
decennio e mezzo, due decenni, chi aveva promosso quella battaglia è stato
sconfitto” (anche in questo caso Barbabella è stato troppo generico nelle sue
affermazioni). Barbabella aggiunse “la cultura del mattone, dell’edilizia, ha
condizionato troppo la vita di questa città”. E sembra che per Barbabella
quanto appena affermato sia da considerare la causa del fatto che ci siano
voluti più di dieci anni per arrivare alla definizione del nuovo piano
regolatore. Anche perché, in passato, spesso si è pensato che un piano
regolatore potesse essere principalmente uno strumento che favorisse lo
sviluppo economico, se contribuiva ad aumentare il volume d’affari delle
imprese del settore edilizio, ritenuto molto importante nell’ambito del sistema
economico orvietano. E quindi un piano
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regolatore era da valutare positivamente
se prevedeva diverse zone di espansione, altrimenti doveva essere valutato
negativamente. E alla fine degli anni ’80, essendo state completate le zone di
espansione, c’era chi pensava che, per favorire le imprese edili, occorresse
prevedere altre zone di espansione (tale discussione si sviluppò soprattutto
all’interno del partito comunista orvietano). E lo stesso Barbabella rilevò che
ci fu chi lo accusò, per la politica urbanistica che aveva attuato e che
intendeva continuare ad attuare, di ostacolare lo sviluppo economico locale e
tale accusa fu uno dei motivi per i quali si tentò di “cacciarlo” dal suo
incarico di sindaco. Comunque Barbabella sostenne che il nuovo piano regolatore
fosse un buon piano, sebbene avesse alcuni difetti, e per questo il gruppo
socialista avrebbe votato favorevolmente alla sua approvazione (Barbabella
ricordò che i socialisti orvietani non parteciparono alla definizione del nuovo
piano non facendo parte della maggioranza). Infatti Barbabella ritenne
importante che fosse stata adottata una cultura urbanistica moderna e comunque
in linea con la cultura prevalente nella città. A questo punto Barbabella
sembrò formulare, inaspettatamente, un’autocritica rispetto alla variante
Benevolo-Satolli, quando rilevò che quel piano sfidava la “cultura media della
città”, che era un piano “molto ideologico”. E Barbabella ricordò che nel 1976
si costituì un’associazione chiamata Archingeo - architetti, ingegneri,
geometri -, che fu il soggetto, d’intesa con tutte le imprese edili, il quale
soprattutto condusse una battaglia contraria nei confronti dell’approvazione
della variante Benevolo-Satolli. Inoltre il nuovo piano era giustamente un
piano flessibile. E una manifestazione della sua flessibilità è proprio una
questione relativa al centro storico, che sbagliando alcuni hanno criticato, e
cioè il non aver preso alcuna decisione circa le future destinazioni del
vecchio ospedale e delle caserme. Infatti in questo modo, secondo Barbabella,
si lasciava spazio, in futuro, al Consiglio comunale, quando sarebbe stato
necessario, di decidere liberamente, tenendo conto delle esigenze che si
sarebbe manifestate nel periodo in cui occorreva proprio decidere. E la sua
flessibilità costituiva uno dei motivi principali per valutare positivamente il
nuovo piano. Certo c’erano delle critiche che potevano e dovevano essere
manifestate, ma che, oggettivamente, assumevano un’importanza secondaria
rispetto alle linee generali del piano. Una critica che doveva necessariamente
essere esplicitata, secondo Barbabella, era la previsione di una zona di espansione
verso San Giorgio, in quanto contrastava con un indirizzo che in passato fu
sempre seguito, nei precedenti piani regolatori, e cioè la necessità di non
consentire espansioni edilizie verso le zone collinari. E non era un problema
che si dovesse stralciare la complanare, in quanto sarebbe stato necessario,
per essa, presentare un progetto esecutivo in Consiglio comunale, in variante
al piano regolatore. Peraltro Barbabella concordava sul bisogno di studiare
meglio la complanare, il suo impatto ambientale, di fare più attenzione ai suoi
costi, per garantire la sua effettiva realizzazione, che doveva avvenire a
stralci, prevedendo ad esempio che fosse costruito subito il secondo ponte sul
Paglia.
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Dopo Barbabella intervenne il capogruppo
dei Democratici di Sinistra, Massimo Frellicca, il quale inizialmente espose
dettagliatamente l’ampia partecipazione che contraddistinse il processo di
formazione del nuovo piano. Rigettò, poi, completamente sia la tesi secondo la
quale con il nuovo piano si sarebbe promossa un’azione di notevole
cementificazione del territorio comunale sia la tesi secondo la quale non erano
previsti interventi significativi per il centro storico. E secondo Frellicca
non era vero che la complanare fosse stata bocciata dalla Regione, ente che
aveva solamente richiesto un supplemento di indagini, tant’è che nel documento
predisposto dall’ufficio non si propose la cancellazione della complanare ma il
suo stralcio e, fra le cartografie, nell’area dove potrà sorgere la complanare
erano state individuate le cosiddette zone bianche, senza destinazione d’uso,
in attesa della definizione del nuovo progetto esecutivo della complanare, che
rimaneva comunque l’elemento fondante del nuovo piano.
Successivamente il consigliere Fabrizio
Cortoni, del gruppo i Democratici, riconobbe la validità di alcuni aspetti del
piano, gli interventi per il verde pubblico, per le residenze per gli anziani,
gli interventi rivolti alla riqualificazione, anche delle frazioni.
Diversamente da quanto sostenne Barbabella, però, Cortoni affermò che per il
suo gruppo alcuni elementi critici che contraddistinguono il piano, come certe
zone di completamento, la zona di espansione
verso San Giorgio, non potevano essere considerati elementi secondari. E
rilevò che i consiglieri del suo gruppo provarono a chiedere alcune modifiche
al piano, ma fu risposto loro che a quel punto esse non erano possibili,
tecnicamente e giuridicamente, e che quindi il piano doveva necessariamente
essere approvato in quella formulazione. Pertanto i consiglieri del suo gruppo
non potevano fare altro che votare contro all’approvazione del piano.
Intervenne quindi il professor Bernardo
Rossi Doria. A proposito della complanare, Rossi Doria affermò che da parte
della Regione era pervenuta un’obiezione, un’osservazione, relativa alla sue
caratteristiche tecniche, manifestatasi in un parere negativo, ma che, dalla
Regione stessa, era stata riconosciuta però la sua utilità e la sua importanza
dal punto di vista strategico e strutturale. Relativamente al centro storico,
dichiarò che non sarebbe stato opportuno prevedere già allora le future
destinazioni di alcuni immobili. L’essenziale, secondo Rossi Doria, era che
fossero state stabilite delle regole, per quelli ed altri immobili, prevedendo
che per il momento non fosse possibile modificare le destinazioni d’uso e
individuando precise procedure per l’eventuale cambiamento di quelle
destinazioni. Per questo motivo si poteva sostenere che il centro storico fosse
ampiamente tutelato. Peraltro può essere interessante riportare anche alcune
brevi affermazioni di Rossi Doria, dalle quali è possibile apprendere che egli
aveva, a suo tempo, colorato con l’acquarello parti del piano Piccinato, nello
studio di quell’urbanista, che fu amico di Leonardo Benevolo, che riteneva essere
stato il suo maestro e con il quale discusse alcuni elementi della variante
denominata Benevolo-Satolli. Inoltre Rossi Doria affermò chiaramente che,
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in passato, furono compiuti due grandi
errori urbanistici, la lottizzazione della Svolta e la localizzazione della
discarica. Sembra, perché Rossi Doria non fu su questo esplicito, che il motivo
principale per considerare quelle due scelte degli errori derivava
dall’incremento dei flussi di traffico che esse determinarono (certo Rossi
Doria potrebbe aver ragione ma l’errore principale non fu quello di prevedere
con il piano Piccinato una “nuova città” e di localizzarla a Ciconia?). Precisò
inoltre Rossi Doria che lui avrebbe voluto inserire fra le norme di attuazione
del piano, delle norme non regolamentari ma programmatiche che prevedessero che
il nuovo regolamento edilizio contenesse anche una parte riguardante il decoro
urbano, in modo tale che chiunque intendesse proporre delle trasformazioni da
realizzare nelle zone B fosse informato su quali fossero le regole relative al
decoro urbano. Ma il consulente giuridico, il professor Tarantini, si oppose
alla possibilità che fra le norme di attuazione fossero inserite delle norme
programmatiche ma che, eventualmente, fossero inserite nella relazione, come
del resto avvenne per quanto riguarda le problematiche inerenti il decoro
urbano.
Per concludere il dibattito, prese la
parola il sindaco Stefano Cimicchi, con un lungo intervento. Fece,
innanzitutto, un’interessante notazione sulle varianti parziali realizzate tra
il 1992 e il 1995 (in quel periodo Cimicchi era già sindaco) tramite le quali
vennero fornite delle risposte a delle domande provenienti da una parte dei
cittadini orvietani, domande rimaste a lungo insoddisfatte e che non si
potevano più trascurare, anche per la forza con quale alla fine furono rivolte
agli amministratori. Con quelle varianti, aggiunse però Cimicchi, furono
ridimensionate le richieste che alcuni avanzarono, da egli definite “autentiche
porcate”. Cimicchi sostenne, di nuovo, che il nuovo piano fosse il primo piano
“libero”, nel senso che era il primo piano i cui contenuti non erano stati
concordati e stabiliti prima all’interno dei partiti. A questo punto Cimicchi
si pose una domanda “come sono nate la Svolta, la Petrurbani e il Borgo?” e mi
sembra che porsi quella domanda a quel punto del suo intervento volesse
significare che, a suo giudizio, quelle lottizzazioni, le quali furono anche
oggetto di molte critiche, fossero state decise da alcune componenti dei
partiti di allora, tendenti a soddisfare gli interessi economici di gruppi di
cittadini, piuttosto influenti. E Cimicchi aggiunse che con il nuovo piano, ed
anzi dal 1992 in poi, si era messa la parola fine ad un processo di formazione
delle scelte urbanistiche ben preciso, quello appunto caratterizzato dalla
forte influenza esercitata dai partiti, considerati in questo caso come
soggetti esterni alle amministrazioni comunali, tendenti a non perseguire
l’interesse collettivo, ma gli interessi di ben precisi gruppi di cittadini.
Cimicchi continuò rilevando che nel nuovo piano vi erano delle scelte politiche
molto importanti, volte a promuovere uno sviluppo ecocompatibile. Ad esempio,
con il nuovo piano, secondo Cimicchi, non si intaccavano affatto le aree di
pregio agricolo e le aree verdi. E tale impostazione non veniva meno con la
decisione di stabilire sì delle regole
per il centro storico, ma non tutte uguali per l’intera area interessata, ma
diverse a seconda delle parti in cui essa fu suddivisa, e meno
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stringenti rispetto al passato, quando
“il centro storico non poteva essere toccato”, quando “l’impossibilità di
intervenire in alcuni ambiti ha comportato che fossero soppresse abitazioni per
creare uffici, speculazioni, gente che è dovuta andare via perché il palazzo
non si poteva ristrutturare, perché non si poteva cambiare la scalata, non si
poteva aprire la finestra del gabinetto…”. Precisò poi che nel piano operativo,
quindi tra gli interventi da attuare nei primi anni, fossero previste solo le
zone B, le zone di completamento cioè, le infrastrutture, le zone industriali e
le strutture sanitarie. Ribadì che il nuovo piano non puntava all’espansione e
che, invece di indicare dove ci si doveva espandere, indicava dove non ci si
doveva espandere.
Poi si passò alle dichiarazioni di voto.
Il consigliere Enrico Crespi, capogruppo
di Rifondazione Comunista, dichiarò che il nuovo piano regolatore gli sembrava
accettabile e annunciò il suo voto favorevole. Valutò positivamente soprattutto
l’idea della “ricucitura” tra il centro e i poli suburbani e di questi fra di
loro e la scelta di averlo dimensionato
in modo tale da consentire di fornire delle risposte anche ad esigenze che si
potrebbero manifestare nei prossimi anni, e decenni. Vi erano anche aspetti
discutibili, ma non tali da giustificare una bocciatura dell’intero piano.
Il capogruppo dei Democratici, Maurizio
Conticelli, dichiarò che il suo gruppo avrebbe espresso voto contrario
all’approvazione del piano. Ribadì che a suo avviso la complanare era stata proprio
bocciata dalla Regione. E relativamente alla complanare precisò che i
componenti del suo gruppo non erano mai stato contrari alla necessità di
realizzarla, ma ad alcune sue caratteristiche. Inoltre rilevò che l’azione di
riqualificazione indicata nel documento preliminare di indirizzo era più ampia
rispetto a quella prevista nel piano. E criticò il fatto che alla fine, nel
piano, si era tenuta in eccessiva considerazione l’esigenza di fornire risposte
alla richieste specifiche dei singoli, perdendo di vista così l’interesse
collettivo. Ribadì la sua opinione che il piano fosse fortemente
“espansionistico”, soprattutto perché non si devono considerare solo le zone C
ma anche le molte zone B previste ed inoltre il raddoppio degli indici di
cubatura. E sostenne che le zone C dovessero essere attuate solo dopo la
realizzazione della complanare.
Guido Alberto Taddei annunciò la non
partecipazione al voto dei consiglieri del gruppo del Partito Popolare. Infatti
il piano fu da lui considerato troppo “burocratico”, in quanto non poteva
essere attuato immediatamente, dopo la sua approvazione, perché sarebbe stato
necessario definire le norme di attuazione e il regolamento edilizio. Poi
criticò la scelta di inserire nel piano operativo, quindi tra gli interventi ad
attuazione immediata, quasi esclusivamente le zone di completamento, le zone B,
ritenuta da Taddei “quasi insignificanti”.
90
In rappresentanza del gruppo socialista
intervenne il consigliere Franco Raimondo Barbabella. Dichiarò che il suo
gruppo avrebbe votato a favore, per vari motivi. Innanzitutto perché era un
piano flessibile. Poi perché uno dei suoi obiettivi più importanti erano
rappresentato dalla realizzazione di efficaci interventi di riqualificazione
urbana. E ritornando sulle vicende urbanistiche del passato, Barbabella rilevò
come lo scontro che si sviluppò nella politica e nella società orvietana negli
anni ’80 derivava soprattutto dalla volontà di alcuni di omologare Orvieto al
“consociativismo sotterraneo e affaristico di quegli anni” (una domanda a
questo punto mi pare d’obbligo: ma quel consociativismo di cui parlò Barbabella
qualche successo anche negli anni ’80 e soprattutto negli anni precedenti non
lo ottenne?). E Barbabella sostenne che quella volontà non passò e che quindi
non venne liquidata l’esperienza amministrativa, e in essa anche quella
urbanistica, che contraddistinse una parte degli anni ’70 e gli anni ’80, anche
se per questa opposizione qualcuno pagò (molto probabilmente si riferiva a se
stesso Barbabella il quale fu costretto alle dimissioni dall’incarico di
sindaco). Indicò poi alcuni interventi da attuare subito dopo l’approvazione
del piano, la definizione del progetto per la complanare, l’intervento per
liberare la zona scolastica di Ciconia dal traffico, la progettazione delle
interconnessioni tra Ciconia e il centro storico - non riferendosi solo al
parco urbano del Paglia ma anche alla progettazione di quelle zone a servizio
del raccordo tra i due centri -, gli interventi per la riqualificazione urbana.
Precisò infine che la decisione del gruppo socialista di votare a favore non
dipendeva solo dal fatto che esso faceva parte della maggioranza, ma
principalmente dalla considerazione che gli elementi positivi del piano
superavano ampiamente i limiti, che del resto il gruppo rappresentato da
Barbabella aveva pubblicamente evidenziato.
Il consigliere Sergio Ercini, in
rappresentanza del gruppo “Libero Comune”, anche se proprio nel giorno in cui
fu approvato il piano Rossi Doria decise di entrare di nuovo a far parte del
Partito Popolare - peraltro in quella stessa riunione il consigliere Guido
Alberto Taddei precisò che nel Consiglio comunale era solo lui a rappresentare
il Partito Popolare -, dichiarò che avrebbe votato contro l’approvazione del
piano, in seguito alle valutazioni critiche già espresse nel suo primo
intervento nel dibattito.
Il consigliere Stanislao Fella annunciò
che il gruppo di Alleanza Nazionale avrebbe votato contro l’approvazione del
piano, soprattutto perché una parte fondamentale del piano era venuta meno con
la bocciatura da parte della Regione della complanare (peraltro sostenne che la
bocciatura fu determinata dall’aver previsto che una parte del suo tracciato
attraversasse una zona di esondabilità del fiume Paglia).
Infine il consigliere Massimo Frellicca
dichiarò che il gruppo dei Democratici di Sinistra avrebbe votato a favore.
91
E il piano regolatore, redatto dal
professor Bernardo Rossi Doria, fu approvato con 13 voti favorevoli e 7
contrari, dei consiglieri Leoni, Olimpieri, Fella, Ermini, Ercini, Conticelli e
Cortoni. Come preannunciato il consigliere Taddei non partecipò al voto.
92
Conclusioni
In questo capitolo conclusivo sono
presenti alcune mie valutazioni relative ai diversi piani urbanistici che sono
stati approvati ad Orvieto.
Parte di queste valutazioni sono già
state formulate nei capitoli nei quali sono stati esaminati i singoli piani. Ho
ritenuto opportuno riportarle anche in questo ultimo capitolo, pur se talvolta
in forma più sintetica, per renderle più evidenti ai lettori.
Due premesse mi sembrano essenziali.
In primo luogo, le valutazioni esposte
sono soprattutto di natura critica.
Io non credo però che i diversi piani
siano stati contraddistinti solamente da aspetti negativi, tutt’altro. Però mi
è sembrato opportuno evidenziare soprattutto le valutazioni critiche,
principalmente perché, in futuro, si possano evitare gli errori commessi in passato, ammesso che
quelli da me rilevati siano effettivamente tali, ed, inoltre, riconosciuti tali
dalle Amministrazioni comunali che si succederanno e che dovranno approvare
altri piani urbanistici.
Inoltre, convengo con quanti hanno
rilevato e rilevano che gli aspetti negativi dei piani urbanistici del Comune
di Orvieto sono molto meno rilevanti rispetto a quelli che hanno caratterizzato
altre città, soprattutto di dimensioni molto più grandi rispetto a quelle di
Orvieto.
Per la verità la situazione urbanistica
di Orvieto va confrontata con quella di città che hanno più o meno lo stesso
numero di abitanti, non certo con metropoli quali, ad esempio, Roma. Questa
osservazione l’ho riportata perché spesso a considerare poco significativi i
problemi urbanistici di Orvieto sono persone che hanno abitato o che abitano a
Roma e che, ovviamente, giudicano la situazione di Orvieto molto migliore di
quella della capitale d’Italia. Ma, ripeto, un confronto con Roma non è
possibile, non dovrebbe essere formulato.
Però, se problemi urbanistici Orvieto li
ha, come credo che li abbia, essi non possono essere né sottaciuti né
sottovalutati, soprattutto perché gli errori del passato non dovrebbero essere
più compiuti in futuro e poi perché è giusto individuare le responsabilità e le
cause degli errori compiuti in passato, soprattutto se essi esplicano i loro
effetti negativi anche nell’attuale periodo.
Inizio però con una prima valutazione
fortemente positiva, attribuibile un po’ a tutti i piani urbanistici approvati,
pur se soprattutto ad alcuni essa è riferibile.
93
I piani urbanistici del Comune di
Orvieto hanno garantito la tutela e, anche, la valorizzazione del centro
storico. Hanno impedito che tale importante parte del territorio comunale
subisse, nel corso degli anni, delle trasformazioni che ne alterassero, in modo
negativo, l’identità caratteristica. Il che non vuole dire che non siano
avvenuti cambiamenti ma tali cambiamenti sono stati quasi tutti positivi, volti
appunto alla valorizzazione del centro storico, dalla ristrutturazione di
componenti fondamentali del patrimonio storico-artistico, il Duomo ma non solo,
alla ristrutturazione di edifici privati. Certo, se ciò è avvenuto il merito
principale va attribuito al cosiddetto progetto Orvieto e, quindi, alla
concessione di cospicui fondi statali, peraltro molto ben utilizzati, volti al
risanamento e alla valorizzazione della rupe di Orvieto, ma condizione
essenziale affinchè tutto ciò si verificasse è anche rappresentata dai
caratteri assunti dalla pianificazione urbanistica. E la stessa situazione non
si è affatto manifestata in tutti i centri storici italiani dove spesso,
invece, la loro tutela è stata del tutto insufficiente e dove, raramente, alla
tutela si è affiancata la valorizzazione. Tant’è che il complesso di interventi
che ha caratterizzato la rupe di Orvieto negli anni ’80 e ’90 rappresenta
ancora, o dovrebbe rappresentare, un modello da seguire non solo in Italia ma
anche all’estero.
E tale caratteristica della
pianificazione urbanistica del Comune di Orvieto deve essere considerato un
merito storico di quanti hanno amministrato la nostra città, soprattutto nel
periodo interessato dalla progettazione e dalla realizzazione degli interventi
appena citati.
Quindi molto bene la pianificazione
urbanistica per il centro storico, mentre, purtroppo, lo stesso non si può
affermare per le periferie.
E tale situazione ha contraddistinto
anche diverse altre città dell’Umbria: piani urbanistici che hanno consentito
di tutelare i centri storici ma che non hanno previsto interventi altrettanto
positivi nelle periferie dove, spesso, si è costruito troppo e male.
A tale proposito può risultare utile
esaminare la valutazione, per certi versi ironica ma fino a un certo punto, che
diversi osservatori hanno rivolto soprattutto al Pci umbro e alle sue
derivazioni successive - ma la stessa vale anche per le altre componenti della
sinistra regionale -, i quali osservatori hanno notato come il simbolo di quel
partito non dovesse essere tanto la “falce e martello” ma invece “calce e
carrello”, a causa dell’azione svolta da una parte notevole dei suoi esponenti,
soprattutto all’interno dei Comuni, tendente a privilegiare gli interessi delle
imprese edili e delle società che gestivano supermercati. Di qui la notevole
“cementificazione” delle periferie umbre e la consistente diffusione della
grande distribuzione. E ciò si è verificato anche ad Orvieto.
94
Quindi, a mio avviso, i problemi
urbanistici, anche ad Orvieto, hanno contraddistinto, soprattutto, se non
prevalentemente, le periferie.
Per poter pervenire a tale conclusione,
può essere utile distinguere le valutazioni per singolo piano urbanistico,
partendo da quello più vecchio, per arrivare a quello più recente.
Non è facile valutare i contenuti del
piano Bonelli, per un semplice motivo: non fu mai attuato.
Ma questo piano suscita ugualmente un
notevole interesse, soprattutto di carattere storico e culturale.
Consente, infatti, di conoscere come
fosse Orvieto nell’immediato dopoguerra, ed oggi tale conoscenza è molto
limitata, non essendoci tra l’altro studi che ricostruiscano appunto come
Orvieto fosse, dal punto di vista urbanistico, in quel periodo.
Inoltre esaminando il piano Bonelli si
può apprendere anche che certe posizioni relativamente agli interventi da
realizzare ad Orvieto o certi giudizi su quanto fu realizzato furono
manifestate da Bonelli, in primo luogo, ma probabilmente anche da altre persone,
già alla metà degli anni ’50, posizioni e giudizi che ancora emergono,
nell’ambito del dibattito cittadino, “solo” 60 anni dopo.
Innanzitutto le considerazioni relative
al settore agricolo. Viene confermata da Bonelli la tesi, sostenuta anche da
altri, secondo la quale tale settore era caratterizzato da problemi di notevole
rilievo, che peraltro lo caratterizzarono anche nei decenni precedenti al
periodo nel quale Bonelli elaborò il suo piano. E l’esistenza di tali problemi,
le cui cause furono diverse, esercitò effetti non solo sull’agricoltura, ma
essi si estesero anche ad altri settori, in primo luogo l’industria,
ostacolandone lo sviluppo.
Anche Bonelli rilevò la presenza di un
eccessivo numero di esercizi commerciali. Anche Bonelli, scrivo, perché attualmente,
e ormai da diversi anni, il numero degli esercizi commerciali rispetto alla
popolazione residente è eccessivo ad Orvieto, comunque maggiore rispetto a
quanto si verifica nelle altre città più importanti dell’Umbria. Tale
situazione è poco conosciuta dagli orvietani, diversamente da quanto sarebbe
necessario, ma è appunto avvalorata la sua esistenza da quanto scrisse Bonelli
nel 1956.
Bonelli già attribuiva una funzione ben
precisa al centro storico, la stessa funzione che fu ritenuta essenziale, e ne
fu oggettivamente il presupposto, da coloro che
95
idearono e attuarono, circa 25 anni
dopo, il cosiddetto Progetto Orvieto. Infatti il professor Bonelli rilevò la
necessità di conservare e valorizzare il “carattere artistico e paesaggistico”
del centro storico.
Bonelli, inoltre, in forte anticipo
rispetto a molti, era già consapevole, nel 1956, che il centro storico dovesse
“appartenere” più ai pedoni che agli autoveicoli.
Invece Bonelli assunse una posizione
molto originale relativamente alla presenza dei militari. A suo giudizio era
eccessiva e doveva essere, quanto meno, ridotta. Originale questa posizione
perché soprattutto da parte degli operatori economici, la presenza dei militari
fu ritenuta sempre determinante per le prospettive del centro storico, e, anche
quando la caserma Piave fu chiusa, per decisione dello Stato centrale, tale
opinione rimase sempre piuttosto diffusa, tra gli abitanti del centro storico.
Infine il fatto che l’approvazione in
via definitiva del piano Bonelli non avvenne mai è di notevole interesse se si
concorda con la mia opinione secondo la quale ciò è stato determinato, anche,
ma non solo, dalla discussione, e dai contrasti, che si sono manifestati più
volte, pur successivamente, fra quanti sostenevano e sostengono che le scelte
urbanistiche, in tutto il territorio comunale e non solo nel centro storico,
debbano essere contraddistinte da vincoli piuttosto stringenti e quanti,
invece, sostenevano e sostengono che tali scelte debbano essere caratterizzate,
non dico dall’assenza di vincoli, ma dalla presenza di regole piuttosto
permissive.
Tale discussione e tali contrasti non si
sono certo manifestati solo nella città di Orvieto, in Italia, ma comunque ad
Orvieto, perché di Orvieto mi occupo qui, sono stati piuttosto accesi e, forse,
in certi periodi, hanno avuto la meglio posizioni troppo estreme, in un senso o
in un altro.
Infatti in certi periodi, nella politica
urbanistica, soprattutto in quella praticata concretamente, non tanto e non
soltanto in quella prevista dai piani regolatori, hanno prevalso i sostenitori
di vincoli troppo rigidi, in altri i sostenitori di regole eccessivamente
permissive.
Forse sarebbe stato preferibile che,
sempre, si fosse manifestato un equilibrio tra queste diverse, e spesso opposte,
posizioni, cosa che, raramente, è avvenuta.
Il piano Piccinato, oggettivamente, fu
il piano urbanistico più importante fra quelli fino ad ora elaborati.
Infatti l’aspetto di maggiore rilievo
del piano Piccinato fu la scelta di Ciconia come luogo dove far sorgere quella
che si potrebbe chiamare la “nuova Orvieto”.
96
E tale scelta determinò un cambiamento
radicale dell’assetto urbanistico di Orvieto e una serie di conseguenze, i cui
effetti si manifestano ancora oggi. E’ sufficiente citare i problemi inerenti
la viabilità che persistono e dei quali una delle principali cause, se non la
principale, fu la scelta di dare vita a Ciconia, come attualmente è, un
agglomerato urbano in cui abitano circa 5.000 persone, un numero consistente
per un comune come quello di Orvieto.
E alcuni importanti interrogativi non
possono che emergere relativamente alla scelta compiuta con l’espansione
edilizia realizzata a Ciconia.
Era vero, come fu sostenuto spesso nella
fase di approvazione del piano Piccinato, che non ci fossero alternative a
Ciconia come zona di espansione principale? E, soprattutto, non era possibile
in alternativa prevedere più zone di espansione delle stesse dimensioni invece
della decisione di realizzare una zona, localizzata a Ciconia, decisamente più
estesa delle altre? Fra l’altro nel dibattito che si sviluppò in occasione
dell’adozione del piano furono evidenziate alcune possibili alternative. Quali
furono i motivi, quelli veri, che impedirono il loro accoglimento? O meglio
erano realmente validi i motivi addotti, da quanti in Consiglio comunale hanno
sostenuto il piano Piccinato, per giustificare la scelta di prevedere, di
fatto, come principale e quasi unica zona di espansione, appunto Ciconia?
Inoltre, anche nel caso del piano
Piccinato, come, per la verità, per molti altri piani urbanistici, relativi a
molte altre città, si è pensato prima ai luoghi dove costruire e solo dopo alle
infrastrutture viarie da realizzare affinchè non ci fossero eccessivi problemi
di viabilità. E, di nuovo, ritorna ad essere presa in considerazione la scelta
di Ciconia. C’era sì la consapevolezza che l’assetto viario dovesse essere
modificato in seguito alla forte crescita demografica che ci sarebbe stata in
quella località, ma non si valutò quanto fosse possibile, e in quali tempi,
cambiare, come indicato, quell’assetto viario. E forse sarebbe stato meglio
prevedere la più importante zona di espansione edilizia in un’area dove
sarebbero stati necessari cambiamenti nell’assetto viario di minore entità o
prevedere più zone di espansione di dimensioni pressocchè uguali. Un solo
esempio, il piano Piccinato prevedeva la costruzione di un secondo ponte sul
fiume Paglia: ancora non c’è, anche se la sua realizzazione dovrebbe essere
ormai prossima.
Furono formulate previsioni
demografiche, alla base della determinazione del fabbisogno edilizio, che si
sono rivelate totalmente sbagliate, anche perché si ipotizzava un incremento
della popolazione molto consistente. Non è stata l’unica volta che questo è
avvenuto ad Orvieto, in relazione alle decisioni di natura urbanistica, e ciò
si è verificato in molte altre città. Sorge un dubbio, chi ha formulato quelle
previsioni demografiche forse era consapevole che non si sarebbero affatto
97
realizzate e nonostante questo, per giustificare un elevato fabbisogno edilizio,
ha continuato a prenderle in considerazione?
Fu proposto da alcuni consiglieri
comunali dell’opposizione di dare vita ad un’ampia area destinata ad
insediamenti produttivi nella zona vicina al casello autostradale. Questa
scelta fu criticata da alcuni esponenti della maggioranza di sinistra poichè,
fin da allora, fu da loro riconosciuto che quella zona era soggetta ad
alluvioni. E perché quindi si realizzò comunque una relativamente piccola area
destinata soprattutto ad attività commerciali e si è scelto di localizzare in quella zona la nuova sede del supermercato della Coop? Se si considera quello che si è
verificato alcuni anni or sono, l’alluvione che provocò notevoli danni, per
fortuna solo alle “cose”, sarebbe stato necessario che la consapevolezza dei
rischi di alluvione, che contraddistinguevano quell’area, avesse dovuto,
successivamente, impedire la realizzazione di quanto fu invece costruito.
Quindi si può concludere che i danni connessi all’alluvione potevano essere evitati, in considerazione appunto della consapevolezza dei
rischi che lì esistevano, consapevolezza che già si era manifestata alla metà
degli anni ’60.
E gli interrogativi che ho appena
esposto riguardo alle principali caratteristiche del piano Piccinato ne
determinano altri. Dietro le scelte dei rappresentanti dei partiti di
maggioranza e dietro l’opposizione dei partiti di minoranza c’era solo un modo
diverso di considerare l’interesse generale o c’era anche la volontà di
tutelare interessi precisi di singoli o di gruppi, di singole imprese, di
singoli proprietari di terreni?
Per quanto riguarda la variante generale
al piano Piccinato, denominata Benevolo-Satolli, essa è un vero piano, per le
sue caratteristiche e anche per il suo rapporto con lo stesso piano Piccinato.
Infatti il piano Benevolo-Satolli fu
profondamente diverso rispetto al precedente e, oggettivamente, rappresentò una
svolta nella politica urbanistica del Comune di Orvieto, e fu anche
l’espressione di un orientamento critico nei confronti di quanto deciso con il
piano Piccinato.
Ciò risulta evidente già prendendo in
considerazione le previsioni demografiche utilizzate dal piano
Benevolo-Satolli. Si ipotizzò che la popolazione in
futuro sarebbe rimasta stabile o si sarebbe ridotta. Si fece anche una
previsione al 1985 della popolazione secondo la quale i residenti nel comune di
Orvieto sarebbero stati circa 22.000 (il dato reale non si discostò di molto da
tale previsione).
98
Con il piano Piccinato,
invece, si prevedeva, anche per il periodo preso in considerazione da Benevolo e
Satolli, una consistente crescita della popolazione, che invece non si
verificò.
E da quella previsione
demografica, Benevolo e Satolli derivarono quello che rappresenta il principale
carattere distintivo del loro piano: la consapevolezza che non ci fosse un
problema di soddisfazione di un fabbisogno abitativo ulteriore rispetto a
quello esistente, ma solo la necessità di soddisfare il fabbisogno esistente.
Ciò rappresenta anche la
principale e notevole differenza con il piano Piccinato, in base al quale si
realizzò un’espansione edilizia molto consistente.
Inoltre con il piano
Benevolo-Satolli e in alcuni interventi pronunciati nel dibattito che si
sviluppò in Consiglio comunale, iniziarono ad emergere temi e problematiche che
furono oggetto di notevole attenzione, successivamente, quando fu elaborato il
progetto Orvieto.
Si fece riferimento alla
necessità di realizzare interventi di consolidamento della rupe, di operare per
rivitalizzare il centro storico, di prevedere alcuni interventi che furono poi
realizzati, negli anni ’80 e ’90, nell’ambito del cosiddetto progetto di
mobilità alternativa.
Quindi sembra essere
avvalorata la tesi secondo la quale il piano Benevolo-Satolli abbia
rappresentato la condizione necessaria, dal punto di vista urbanistico, affinchè
nei decenni successivi si potesse dare vita a quel complesso di interventi, di
notevole rilievo, di tutela e valorizzazione del centro storico, principalmente
del suo patrimonio storico-artistico, che fu denominato progetto Orvieto.
Mi sembra opportuno, a
questo punto, riportare parte delle considerazioni svolte da Franco Barbabella,
in occasione del dibattito consiliare relativo al piano Rossi Doria, perché
contiene alcune valutazioni sul piano Benevolo-Satolli ed anche sul piano
Piccinato. Queste sono appunto opinioni di Barbabella, e non del sottoscritto,
ma che mi sembrano decisamente interessanti e, molto probabilmente, ampiamente
corrispondenti al vero. Barbabella
rilevò che, a suo giudizio, non ci fossero notevoli differenze tra il dibattito
che si sviluppò alla metà degli anni ’70, in occasione dell’approvazione della
variante generale Benevolo-Satolli, e il dibattito che si sviluppò relativamente all’approvazione del piano Rossi Doria. In entrambi i casi infatti si manifestarono sia posizioni che erano
contrarie a “processi espansivi” sia posizioni favorevoli al verificarsi di
“processi espansivi” ancora più consistenti.
E Barbabella, riferendosi alle decisioni prese con il piano Piccinato,
ricordò che, in applicazione di una cultura urbanistica allora predominante, si
pensò che il centro storico si potesse salvare adottando, per questa parte del
territorio comunale, una
99
normativa molto rigida, e che le
espansioni si dovessero realizzare lontano dal centro storico. Su questo ci fu una
discussione “dura, seria” che ebbe un’eco anche sui giornali nazionali. Fu
scelta Ciconia, come area dove far sorgere la nuova città, ma l’alternativa che
fu prospettata era altrettanto discutibile. Fu formulata da un gruppo di
orvietani, i quali proposero che la nuova città si espandesse nella zona, dove
allora c’era la concessionaria della Fiat, nella zona dell’Arcone e sulle
colline, ad esempio al Tamburino. Fu un merito “storico”, attribuibile agli
amministratori di allora, a Torroni, a Cirinei, l’aver impedito quello che
Barbabella definì uno “scempio”. Barbabella comunque, tra le righe del suo
intervento, fece capire che anche la scelta di Ciconia fosse per lui sbagliata,
ma di nuovo ribadì che era stata la conseguenza della decisione di dare vita ad
una nuova città, frutto di una cultura urbanistica prevalente in quegli anni.
Secondo Barbabella con la variante Benevolo-Satolli ci fu una svolta, perché si
passò dall’idea della città nuova, che aveva come corollario il blocco della
città vecchia, a una “cultura rovesciata”, al tentativo cioè di “reinterpretare
la città vecchia limitando la città nuova”. E per far passare questa nuova
cultura, fu necessaria una battaglia durissima, all’interno dei partiti, nella
società e nelle istituzioni. E tale nuova linea fu definita da Barbabella
“faticosissima, piena di conseguenza per il futuro”. Barbabella aggiunse che il
progetto Orvieto, la valorizzazione del patrimonio storico, culturale ed
ambientale, presente nella rupe, nacque allora, come frutto di quella nuova
linea. E così proseguì Barbabella, riferendosi a quella nuova cultura
urbanistica (si ricorda che Barbabella quando fu approvata la variante
Benevolo-Satolli era assessore e quando fu sindaco a partire dal 1980 attuò una
politica urbanistica in sintonia con quella variante) “qualcuno ci sperò
troppo, come noi, qualcun altro la combattè come il diavolo, chi vinse?
Probabilmente non lo so chi vinse, non sono io che lo posso dire, io dico che
al termine di quella lunga battaglia durata quasi un decennio e mezzo, due
decenni, chi aveva promosso quella battaglia è stato sconfitto”. Barbabella
aggiunse “la cultura del mattone, dell’edilizia, ha condizionato troppo la vita
di questa città”. Barbabella proseguì rilevando che, in passato, spesso si è
pensato che un piano regolatore potesse essere principalmente uno strumento che
favorisse lo sviluppo economico, se contribuiva ad aumentare il volume d’affari
delle imprese del settore edilizio, ritenuto molto importante nell’ambito del
sistema economico orvietano. E quindi un piano regolatore era da valutare
positivamente se prevedeva diverse zone di espansione, altrimenti doveva essere
valutato negativamente. E alla fine degli anni ’80, essendo state completate le
zone di espansione, c’era chi pensava che, per favorire le imprese edili,
occorresse prevedere altre zone di espansione (tale discussione si sviluppò
soprattutto all’interno del partito comunista orvietano). E lo stesso
Barbabella rilevò che ci fu chi lo accusò, per la politica urbanistica che
aveva attuato e che intendeva continuare ad attuare, di ostacolare lo sviluppo
economico locale e tale accusa fu uno dei motivi per i quali si tentò di
“cacciarlo” dal suo incarico di sindaco. E ritornando sulle vicende
urbanistiche del passato, Barbabella rilevò come lo scontro che si sviluppò
nella politica e nella società orvietana negli anni ’80 derivava soprattutto
100
dalla volontà di alcuni di omologare
Orvieto al “consociativismo sotterraneo e affaristico di quegli anni”. E
Barbabella sostenne che quella volontà non passò e che quindi non venne
liquidata l’esperienza amministrativa, e in essa anche quella urbanistica, che
contraddistinse una parte degli anni ’70 e gli anni ’80, anche se per questa
opposizione qualcuno pagò (molto probabilmente si riferiva a se stesso
Barbabella il quale fu costretto alle dimissioni dall’incarico di sindaco).
Il piano Rossi Doria fu un
piano molto atteso e che, almeno in parte, non soddisfece le aspettative che,
nel corso degli anni, si manifestarono riguardo al nuovo piano, la cui
elaborazione in molti sollecitarono, nel corso degli anni.
Ma se quelle aspettative
andarono deluse, le responsabilità, per la gran parte, non sono attribuibili a
Rossi Doria.
Perché il piano Rossi
Doria fu un piano molto e lungamente atteso? Non è facile rispondere a questa
domanda.
Io personalmente ricordo che almeno
dalla metà degli anni ’80 si è spesso parlato ad Orvieto, per la verità
prevalentemente negli ambienti politici e fra i tecnici, della necessità di
approvare un nuovo piano regolatore.
Se ne parlava, se ne parlava, ma
l’inizio del processo di realizzazione del nuovo piano slittava sempre. A me,
ma non credo solo a me, non risultarono mai chiari ed evidenti i motivi che
determinarono questo slittamento. Probabilmente non si riusciva a raggiungere
un accordo politico sulle linee generali che dovessero caratterizzare il nuovo
piano regolatore.
E perché spesso, anche pochi anni dopo
l’approvazione del piano Benevolo-Satolli, fu rilevata la necessità di
elaborare un altro piano?
Il piano Piccinato, oggettivamente, fu
l’espressione di una politica urbanistica fortemente espansiva. Il piano
Benevolo-Satolli fu il frutto di un orientamento quasi opposto, favorevole ad
una politica urbanistica che non può che essere definita restrittiva, tendente
a limitare le nuove espansioni edilizie e tendente a sottoporle a regole, a
norme, molto stringenti e vincolanti.
E quanto meno una parte consistente di
coloro i quali hanno sostenuto la necessità di approvare un nuovo piano,
intendevano, tramite il nuovo piano, contrastare quelle caratteristiche,
fortemente restrittive, del piano Benevolo-Satolli e della politica urbanistica
che concretamente l’Amministrazione comunale, sotto la guida di Franco
Barbabella, almeno fino alla metà degli anni ’80, attuò.
101
Tale politica urbanistica fu sì oggetto
di molte valutazioni positive, soprattutto perché consentì la tutela del
patrimonio edilizio e di quello storico-artistico della città antica, favorendo
di fatto l’attuazione del cosiddetto progetto Orvieto, ma fu anche criticata
ampiamente sia perché limitava fortemente la realizzazione di nuove abitazioni
in varie parti del territorio comunale sia perché le nuove costruzioni, gli
ampliamenti e le ristrutturazioni delle abitazioni esistenti dovevano sottostare
all’osservanza di norme considerate troppo rigide e limitative.
Che tali critiche una parte di verità
l’avevano è dimostrato, tra l’altro, dal fatto che in quel periodo si
assistette ad un flusso migratorio di una certa consistenza da Orvieto verso Porano,
che determinò una diminuzione della popolazione nel primo comune e un
contemporaneo aumento dei residenti nel secondo, anche perché a Porano si attuò
una politica urbanistica opposta a quella attuata nel comune di Orvieto e cioè
una politica fortemente espansiva, che consentì fra l’altro la costruzione di
un numero abbastanza consistente di nuove abitazioni, a prezzi di vendita
decisamente più bassi di quelli che caratterizzavano il mercato immobiliare nel
comune di Orvieto.
Tali critiche nei confronti della
politica urbanistica attuata dall’Amministrazione guidata da Franco Raimondo
Barbabella, tramite il suo incarico di sindaco di Orvieto, si manifestarono
anche all’interno del suo stesso partito, il Pci.
Ed è possibile quindi che tali critiche fossero
alla base di almeno una parte delle ripetute richieste volte ad evidenziare la
necessità di un nuovo piano regolatore per Orvieto.
Ed ora, come in altre
parti di questo capitolo dedicato alle conclusioni, emerge un altro
interrogativo: furono quelle critiche, espresse anche all’interno del suo
stesso partito, che determinarono le improvvise dimissioni di Barbabella da
sindaco, nel 1987, che non gli consentirono di completare il secondo
quinquennio alla guida dell’Amministrazione Comunale, come ci si attendeva?
Perché le aspettative che
suscitò l’elaborazione di un nuovo piano, con il piano Rossi Doria andarono,
almeno in parte, deluse?
In primo luogo perché gli
amministratori che si sono succeduti da quando si iniziò a parlare della
necessità di approvare un nuovo piano urbanistico non rimasero certo con le
mani in mano. Infatti, dall’approvazione del piano Benevolo-Satolli, che risale
alla fine degli anni ’70, all’ approvazione del piano Rossi Doria, furono
varate dal Consiglio comunale ben 10 varianti parziali, che incisero
considerevolmente sull’assetto urbanistico del comune di Orvieto.
102
Forse quelle 10 varianti parziali
costituirono un nuovo piano, “innominato”, e influenzarono notevolmente le
scelte urbanistiche e non dell’Amministrazione comunale.
E tali varianti parziali, a mio avviso,
incisero notevolmente sulle stesse caratteristiche del piano Rossi Doria,
proprio perchè quanto attuato in seguito alle varianti parziali, normalmente,
avrebbe dovuto essere contenuto in un piano urbanistico vero e proprio, per la
sua rilevanza, e, quindi, i potenziali contenuti del piano Rossi Doria, quando
finalmente fu elaborato e approvato, furono in qualche misura ridotti, proprio
a causa del fatto che decisioni urbanistiche importanti erano state già prese
con le varianti parziali citate.
E poiché la realizzazione della strada
complanare rappresentò oggettivamente l’intervento più importante previsto dal
piano Rossi Doria e poichè solo ora sta terminando il primo stralcio, peraltro
quello di minore rilievo, di questa infrastruttura viaria, oggettivamente le
potenzialità connesse all’attuazione del piano sono state fortemente limitate
da quanto avvenuto relativamente alla complanare.
Senza dubbio un obiettivo prioritario
del piano fu anche la realizzazione di interventi volti alla tutela
dell’ambiente, tramite, fra l’altro, un’azione molto consistente di
riqualificazione urbana. E pertanto potrebbe avere ragione, almeno in parte,
chi, nel dibattito in Consiglio comunale, sostenne che con il piano Rossi Doria
in qualche modo si tentava di affrontare gli errori urbanistici compiuti in
passato.
Il fatto che quell’obiettivo fosse
davvero prioritario non viene smentito né dalla previsione di alcune zone di
espansione né dalla previsione che la popolazione insediabile nel territorio
comunale, in attuazione del piano, potesse oltrepassare, seppur di poco le
30.000 unità, con un incremento del 50% rispetto alla popolazione che allora
abitava ad Orvieto.
Questo perchè tali previsioni erano
contenute nel cosiddetto piano strutturale. Infatti con il piano Rossi Doria fu
applicata, per la prima volta, la prescrizione inserita nella nuova legge
urbanistica regionale secondo la quale occorreva distinguere il piano
strutturale dai piani operativi. Il primo doveva contenere gli interventi da
realizzare anche a medio e a lungo termine, durante l’intero periodo di durata
del piano, i secondi gli interventi da attuare nel breve periodo, o meglio
durante i periodi nei quali l’Amministrazione comunale era guidata da un
determinato sindaco.
E quindi quelle previsioni non
influenzarono gli interventi da realizzare nel breve periodo, cioè in
attuazione del primo piano operativo.
103
Inoltre, nel piano Rossi Doria non
furono ipotizzati possibili utilizzi per due aree molto importanti e piuttosto
estese, nel centro storico, che al momento dell’approvazione definitiva del
nuovo piano erano o già disponibili o lo sarebbero state entro breve tempo, e
cioè l’ex caserma Piave e l’ex ospedale in piazza del Duomo. Tale scelta non fu
considerata sbagliata dall’estensore del piano, dalla Giunta e dalla
maggioranza dell’Amministrazione comunale, in quanto fu ritenuto che non
esistessero, al momento dell’elaborazione e dell’approvazione del piano, le
condizioni per assumere decisioni definitive riguardo ad aree così importanti.
Ma l’assenza di ipotesi circa il futuro utilizzo di quelle aree fu ampiamente
criticata dalle opposizioni. Io non credo che le argomentazioni a sostegno di
tale critica fossero sufficientemente valide.
A questo punto mi sembra opportuno
riportare parte delle considerazioni dell’allora sindaco di Orvieto Stefano
Cimicchi circa un importante tratto distintivo, a suo giudizio, del piano Rossi
Doria. Cimicchi sostenne che il nuovo piano fosse il primo piano “libero”, nel
senso che era il primo piano i cui contenuti non erano stati concordati e
stabiliti prima all’interno dei partiti. E Cimicchi si pose quindi una domanda
“come sono nate la Svolta, la Petrurbani e il Borgo?” e mi sembra che porsi
quella domanda volesse significare che, a suo giudizio, quelle lottizzazioni,
le quali furono anche oggetto di molte critiche, fossero state decise da alcune
componenti dei partiti di allora, tendenti a soddisfare gli interessi economici
di gruppi di cittadini, piuttosto influenti. E Cimicchi aggiunse che con il
nuovo piano, ed anzi dal 1992 in poi, si era messa la parola fine ad un
processo di formazione delle scelte urbanistiche ben preciso, quello appunto
caratterizzato dalla forte influenza esercitata dai partiti, considerati in
questo caso come soggetti esterni alle amministrazioni comunali, tendenti a non
perseguire l’interesse collettivo, ma gli interessi di ben precisi gruppi di
cittadini. Personalmente non so se quanto sostenuto da Cimicchi corrisponda, quanto meno completamente, alla
verità. Ma la sua mi sembra una ricostruzione credibile di quanto avvenuto, per
un periodo molto lungo, nell’ambito del processo di elaborazione e di
attuazione delle più importanti decisioni in campo urbanistico, per il comune
di Orvieto. Occorrerebbe verificare, con più attenzione, se quanto avvenuto in
passato, non sia effettivamente più avvenuto con il piano Rossi Doria e con la
politica urbanistica attuata negli anni successivi fino ad oggi.
Ma quanto rilevato da Cimicchi mi induce
ad esporre il principale interrogativo che, a mio avviso, suscita l’esame dei
piani urbanistici elaborati ad Orvieto e delle politiche urbanistiche
concretamente attuate nel corso degli anni.
E cioè, in quale misura è stato
determinante l'obiettivo di soddisfare l’interesse generale della comunità
orvietana e in quale misura invece le
decisioni urbanistiche sono state pesantemente influenzate dalla volontà di
soddisfare gli interessi, più o meno legittimi, di gruppi di cittadini, di
singoli cittadini e di singole imprese?
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Un’ultima osservazione.
Quanto meno negli ultimi 10-15 anni,
nella società orvietana, si è discusso poco o niente di politica urbanistica.
Anche gli amministratori, almeno nelle
sedi deputate, in primo luogo nel Consiglio comunale ne hanno discusso poco.
Stupisce, ad esempio, che le
associazioni ambientaliste, molto attente, più o meno giustamente, a questioni
quali alcuni interventi volti a sviluppare la geotermia, l’eolico o altre fonti
energetiche alternative, che, a loro giudizio, determinerebbero pesanti
effettivi negativi sull’ambiente, siano state silenti sulle politiche
urbanistiche realizzate nel comune di Orvieto e negli altri comuni
dell’Orvietano.
Ma anche altre componenti della società
orvietana sono rimaste silenti.
Quindi la politica urbanistica deve
essere oggetto di attenzione solamente da parte degli “addetti ai lavori”, gli
amministratori, e poi anche i "tecnici", geometri, architetti e
ingegneri che siano?
Io credo di no.
E, ritengo, che la discussione si debba
sviluppare, innanzitutto, sulle destinazioni d’uso, di alcuni importanti
immobili presenti nel centro storico, e cioè l’ex caserma Piave e l’ex
ospedale.
Ovviamente, si dovrebbe discutere anche riguardo alla politica urbanistica relativa alle altre parti del territorio comunale
ma, oggettivamente, il futuro di quei due immobili presenti nel centro storico
rappresenta la principale o quanto meno la più immediata problematica che dovrebbe essere analizzata approfonditamente
e, ripeto, non solo dagli “addetti ai lavori”.
Io spero che questo e-book possa essere
utile proprio per contribuire a sviluppare un dibattito piuttosto ampio e
diffuso, nella comunità orvietana, sulla politica urbanistica, presente e
futura, considerando come base iniziale la riflessione su quanto avvenuto in
passato. E su come la politica urbanistica seguita possa essere collegata ad un
progetto di sviluppo di medio-lungo periodo del comune di Orvieto, progetto di
cui avverto, per il momento e purtroppo, l’assenza.