lunedì 21 dicembre 2015

prorvieto

Gennaio 2016





















La “crescita” di Orvieto
un’analisi dei piani regolatori comunali




















                                                        Paolo Borrello








                                                                a Cinzia e Elisa 




Notizie sull’autore








Paolo Borrello, nato a Orvieto nel 1957, si è laureato in Scienze Economiche presso l’Università di Siena. Ha frequentato il master in gestione dell’economia e dell’impresa organizzato dall’Istao (Istituto Adriano Olivetti di Ancona), allora presieduto da uno dei più importanti economisti italiani del ‘900, Giorgio Fuà.
Ha svolto diverse attività lavorative: consulente di alcune associazioni imprenditoriali, consulente per conto della Regione dell’Umbria relativamente all’utilizzo di contributi dell’Unione europea, consulente del Comune di Orvieto riguardo varie problematiche inerenti lo sviluppo economico. Attualmente è funzionario del Comune di Orvieto.
Ha fatto parte del gruppo di lavoro dell’osservatorio sulla situazione economica e sociale dell’area orvietana, fin dall’inizio della pubblicazione del bollettino realizzato dall’osservatorio.
Ha scritto su incarico del Comune di Orvieto, nel 1998 “L’andamento e i caratteri della popolazione residente nel comune di Orvieto” e nel 2006 “L’economia orvietana dal 1870 agli inizi del 2000". Inoltre, nel 2010, “Dove va Orvieto - il punto sulla situazione economica e sociale dell’Orvietano”, Intermedia edizioni.













                                                                Indice










Introduzione                                           pag. 1



Il piano Bonelli                                      pag. 5



Il piano Piccinato                                   pag. 23



La variante Benevolo-Satolli                 pag. 43



Il piano Rossi-Doria                              pag. 57



Conclusioni                                           pag. 92












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Introduzione

Mi è sembrato opportuno prendere in esame i principali contenuti dei quattro piani urbanistici che fino ad ora sono stati elaborati ed approvati dal Comune di Orvieto perché ho ritenuto utile analizzare le scelte urbanistiche effettuate con quei piani. Infatti le scelte in campo urbanistico sono tra le più importanti fra quelle che possono essere prese in ogni comune, in quanto incidono notevolmente sulle stesse condizioni di vita, quotidiane, della popolazione. Inoltre è proprio in campo urbanistico che i Comuni hanno le maggiori competenze, anche se devono rispettare norme regionali e nazionali.

E’ indubbio però che le scelte urbanistiche, in ogni comune, non vengono effettuate solamente tramite i piani regolatori.

Spesso i piani urbanistici vengono stravolti, successivamente, con tutta una serie di varianti, anche molto parziali ma numerose (e non faccio riferimento alla variante Satolli che sarà qui analizzata, perché essa può essere considerata quasi come un piano regolatore) e ciò è avvenuto anche ad Orvieto, prevalentemente negli anni ’80 e nei primi anni ’90, quando, per certi versi, la variante Satolli fu ritenuta superata da alcuni amministratori e però non si riuscì a varare un nuovo piano regolatore, fino al 2000 quanto diventò operativo il piano redatto da Rossi Doria. In quel periodo furono approvate ben 10 varianti parziali.

Peraltro alcune varianti parziali furono approvate dal Consiglio comunale di Orvieto anche successivamente al piano Rossi Doria.

Occorre inoltre tenere presente che Orvieto, fino agli inizi degli anni ’70, è rimasta priva di un piano regolatore approvato in via definitiva.

Quindi sono consapevole che analizzare le scelte urbanistiche di un comune, facendo riferimento solo ai piani regolatori può fornire una visione parziale di quanto è avvenuto relativamente all'urbanistica dal dopoguerra ad oggi, ad Orvieto.

Ma esaminare anche le varianti parziali avrebbe appesantito il lavoro qui presentato, che non è rivolto solo agli addetti ai lavori, ma, potenzialmente, a tutti i cittadini.

Inoltre analizzare non solamente i piani urbanistici avrebbe comportato per il sottoscritto un dispendio di tempo eccessivo rispetto alle mie possibilità ed anche alle mie competenze. Infatti io non sono un urbanista, mi sono sempre occupato di economia, ma ho ritenuto e ritengo che le scelte urbanistiche siano molto importanti, non solo perché incidono sulle caratteristiche del sistema economico locale ma

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soprattutto perché, come ho già rilevato peraltro, incidono sulle condizioni di vita quotidiane dei cittadini.

E quindi ho deciso comunque di analizzare le scelte urbanistiche, prendendo in considerazione solo i piani regolatori, perché anche così, ho pensato, avrei realizzato uno studio ugualmente utile (peraltro ad Orvieto non sono stati mai realizzati studi simili), nella consapevolezza che così facendo mi sarei esposto a qualche critica circa appunto la parzialità dell’approccio scelto.

Ma le critiche sono e saranno, comunque, ben accette.

I piani urbanistici, o regolatori che dir si voglia, esaminati sono quattro, tutti quelli elaborati fino ad ora, a partire dal dopoguerra: il piano Bonelli, il piano Piccinato, la variante Satolli, realizzata con la consulenza del professor Benevolo, e il piano Rossi Doria.

I quattro piani sono stati analizzati prendendo in considerazione le relazioni e i dibattiti svoltisi in Consiglio comunale. Tali elementi sono stati ritenuti da me sufficienti per individuare i contenuti principali dei quattro piani.

L’esame dei principali contenuti dei quattro piani si è rivelato, a mio avviso, di notevole interesse anche perché esso consente, tra l'altro, di ricostruire, seppure parzialmente, alcune “tappe” fondamentali delle vicende politico-amministrative del Comune di Orvieto, relative a circa 40 anni, poco conosciute ma molto importanti per i loro effetti sulla stessa situazione attuale del nostro comune. Del resto non poteva essere altrimenti. Infatti i piani urbanistici, per tutti i comuni, rappresentano sempre momenti di notevole rilievo dell’azione politico-amministrativa.

Comunque sono consapevole, per le considerazioni già svolte, che, se si vorrà in futuro effettuare uno studio più approfondito sull’urbanistica ad Orvieto, occorrerà utilizzare una più ampia documentazione, peraltro disponibile.

Spero che il mio lavoro rappresenti almeno uno stimolo affinchè tali studi più approfonditi siano effettivamente realizzati.

Intendo precisare fin da ora che ho scelto di dedicare un maggiore spazio all’ultimo piano, il piano Rossi Doria, non perché quel piano, a mio giudizio, sia il piano più importante, nel senso che produsse le conseguenze di maggior rilievo sulle scelte urbanistiche nel comune di Orvieto, e sulle stesse condizioni di vita della popolazione.

Infatti, senza alcun dubbio, da quel punto di vista, il piano di maggiore importanza fu il piano Piccinato, con il quale si decise di dare vita alla nuova città, che si affiancò alla città antica, il centro storico, individuandola a Ciconia, scelta che io considero


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sbagliata, seppure ci siano delle parziali giustificazioni per una decisione che io continuo comunque a considerare un errore.

Altri sono i motivi che mi hanno spinto ad attribuire quello spazio all’esame del piano Rossi Doria.

Innanzitutto il fatto che il processo di formazione e di approvazione del piano Rossi Doria risultò essere piuttosto lungo e complesso. Fra l’altro nella riunione del Consiglio comunale nella quale fu approvato il piano erano presenti consiglieri i quali non erano tali, perché nel 1999 si svolsero le elezioni comunali che determinarono il rinnovo del Consiglio stesso, quando fu adottato il piano. Quindi ciò causò la più ampia discussione, rispetto ai piani precedenti, per i quali gran parte del dibattito si esaurì in fase di adozione, che si sviluppò in fase di approvazione del piano, discussione che quindi non potevo che riportare, seppure sinteticamente. Un altro motivo ha determinato la mia scelta: nell’ambito delle discussioni in Consiglio comunale sul piano Rossi Doria ci furono molti riferimenti da parte dei consiglieri alle caratteristiche dei precedenti piani.

Quindi il dibattito che si sviluppò relativamente al piano Rossi Doria fu anche l’occasione per analizzare il complesso dei piani che furono approvati, in precedenza, dal piano Bonelli, al piano Piccinato, alla variante generale Benevolo-Satolli, e ciò come già rilevato rappresenta proprio l’oggetto principale di questo studio.

Infine una spiegazione sulla scelta della prima parte del titolo: “la crescita di Orvieto”.

Due sono i motivi.

Perché con i piani regolatori approvati si determinò un aumento della parte urbanizzata del territorio comunale, o meglio si verificò un aumento dei centri nei quali si concentrò una parte consistente della popolazione, soprattutto con la nascita e lo sviluppo di Ciconia. Si consideri, peraltro, che nel dopoguerra nel centro storico abitavano circa un terzo dei residenti nell’intero comune, mentre attualmente nel centro storico vi risiedono circa il 20% del totale degli abitanti, e il numero dei residenti a Ciconia è quasi uguale al numero dei residenti nel centro storico.

Perché, inserendo le virgolette che racchiudono il termine crescita, intendo sottoporre all’attenzione dei lettori una domanda: la crescita urbanistica di Orvieto, nei termini appena delineati, è stata anche una crescita di natura qualitativa? Insomma le condizioni di vita della gran parte dei cittadini orvietani sono migliorate oppure no?


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Forse, la mia risposta a questa domanda la potrete individuare leggendo, interamente, l’e-book.




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Il piano Bonelli

Il piano dell’architetto professor Renato Bonelli fu redatto nel 1956 e subì tutta una serie di vicissitudini, anche abbastanza complesse, di cui si riferirà successivamente, che ne impedirono di fatto l’attuazione, almeno nella sua versione originaria.

Ma chi è stato Renato Bonelli?

Per rispondere a questa domanda ho ritenuto opportuno riportare completamente quanto è scritto su di lui su “Wikipedia”.

“Renato Bonelli (Orvieto 2 gennaio 1911 – Orvieto 25 marzo 2004) è stato uno storico dell’architettura e un architetto. Laureatosi in architettura nel 1934, presso l’università degli studi di Roma, La Sapienza, dimostra di possedere una personalità rigorosa già dal tema di tesi, opponendosi al progetto del gerarca fascista Renato Ricci, relativo alla trasformazione della sede del convento di San Domenico, in Orvieto, in Accademia nazionale di educazione fisica femminile, dimostrando la possibilità di non dover intaccare il corpo della chiesa, pur soddisfacendo ogni esigenza distributiva e di spazio. L'8 settembre 1944  fonda l’Istituto storico artistico orvietano (Isao), come riferimento privilegiato per studi e ricerche storiche, iniziative culturali e attività di interesse artistico e musicale, nell'intento di offrire un luogo di incontro per coloro che gravitano culturalmente nel territorio orvietano. Nel 1945  pubblica il saggio ‘Teoria e metodo nella storia dell’architettura’, come primo bollettino dell'Isao, col quale si schiera contro una storiografia dell'architettura tipologica, evoluzionistica, sostenendo, crocianamente che l'arte ‘è forma universalizzata dell'individuale’, che supera tutti i legami estrinseci, quali i fattori economici, costruttivi e strutturali, funzionali, sociali o comunque empirici. Concetto che ribadirà, nel 1983, nell'introdurre i lavori del XXI congresso di architettura. Nel 1948 conclude il servizio di assistente nella facoltà d'Architettura dell'Università di Roma, conseguendo, l'anno successivo, la libera docenza in ‘Storia dell'arte e Storia e Stili dell'architettura’. Nel 1950  diviene professore incaricato di ‘Arte dei giardini’ nella facoltà d'Architettura dell'Università di Roma, sino al 1953, anno in cui ottiene l'incarico di ‘Letteratura artistica’, sempre nella stessa Università. Dal 1959 al 1961, ricopre anche l'insegnamento di ‘Storia dell'arte e Storia e Stili dell'architettura’ e, dal 1962 è professore ordinario di ‘Storia dell'Architettura’ nella facoltà di Architettura di Palermo, dove rimane sino al 1968, quando ritorna a Roma all'Università La Sapienza; da questo stesso anno è anche direttore dell'Istituto di Fondamenti dell'architettura.  Dal 1960 al 1964 è al servizio dell'associazione Italia Nostra, come segretario nazionale. Dal 1979  è accademico cultore dell'Accademia Nazionale di San Luca. Dal 1982 dirige il dipartimento di Storia dell'architettura, restauro e conservazione dei beni architettonici nell' Ateneo romano (fino al 1984) ed è direttore della ‘Scuola di specializzazione per lo studio e il restauro dei monumenti’

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della stessa Università, fino al collocamento a riposo (1986), a seguito del quale è nominato professore emerito. Nel 1990, con la relazione d'apertura del convegno per il settimo centenario dalla fondazione del duomo di Orvieto, ‘Il duomo di Orvieto come problema storiografico’  (edita nel 1995), respinge la presunzione che sia possibile stabilire fra gli ‘indirizzi storiografici’ una ‘gerarchia fissa e permanente, e determinare oggettivamente la graduatoria dei valori che ne deriva’; questo perché ‘il processo storico è in sé privo di unità oggettiva’: ci si deve aprire, quindi, a temi ‘di carattere extrastilistico, di storia quantitativa finora quasi inesplorati’, accogliendo con vero entusiasmo la realizzazione di una banca dati con la documentazione archivistica dei primi centoventi anni del cantiere del Duomo (1321-1450). La riflessione sul metodo sarà estesa da Renato Bonelli anche al restauro. Bonelli, insieme a Roberto Pane e Agnoldomenico Pica, è teorico del ‘restauro critico’, ma rispetto agli altri due studiosi, Bonelli, sviluppa come ‘rapporto dialettico’ il processo critico e l'atto creativo”.

Nella relazione al piano, Bonelli inizia con una considerazione di notevole importanza: Orvieto aveva relazioni molto strette con l’alto Lazio - Bonelli parla esplicitamente di forti legami con la Tuscia - mentre le relazioni con il resto dell’Umbria erano limitate. Bonelli affermò testualmente: “Orvieto e il suo territorio fanno attualmente parte dell’Umbria in dipendenza soprattutto di una finzione di carattere amministrativo. In realtà la maggior parte del territorio orvietano (escludendo cioè i comuni della parte settentrionale) non può essere considerata terra umbra, fino all’unificazione d’Italia ha fatto sempre parte dell’alto Lazio o meglio della Tuscia…”. Fu sostenuto inoltre che i caratteri, geografici e geologici, storici e sociali, e soprattutto economici, di Orvieto erano analoghi a quelli che contraddistinguevano l’alto Lazio.

Si può osservare, quindi, che il movimento politico per la costituzione della regione della Tuscia, che operò ad Orvieto per un certo periodo, agli inizi degli anni ’90, ebbe come oggettivo punto di riferimento culturale un personaggio della notevole statura quale fu il professor Bonelli.

Occorre precisare che il territorio orvietano, secondo il professor Bonelli, era composto da 27 comuni, di cui 17 (Orvieto, Allerona, Fabro, Ficulle, Monteleone, Montegabbione, Parrano, San Venanzo, Baschi, Montecchio, Guardea, Alviano, Lugnano, Attigliano, Porano, Castel Giorgio, Castel Viscardo) facevano parte della regione dell’Umbria e 10 (Acquapendente, Proceno, Onano, Grotte di Castro, San Lorenzo nuovo, Bolsena, Bagnoregio, Lubriano, Castiglione in Teverina, Civitella d’Agliano) appartenevano al Lazio.

Le conseguenze sul piano urbanistico di tali valutazioni del professor Bonelli furono essenzialmente due: nella definizione del piano regionale era necessario riconoscere

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“la parziale autonomia del territorio orvietano attraverso la delimitazione di uno speciale comprensorio urbanistico da pianificare con criteri distinti e metodi adeguati” ed inoltre si doveva promuovere il “coordinamento del piano regionale dell’Umbria con quello del Lazio, in relazione alla necessità di provvedere alla singolare situazione del territorio orvietano, diviso tra le due regioni”.

Nelle parti successive della relazione il professor Bonelli effettuò una analisi piuttosto approfondita e senza dubbio molto interessante degli elementi geografici e dei caratteri fisici del territorio, della storia edilizia di Orvieto, dei dati demografici, della situazione economica e occupazionale, dei servizi pubblici, della situazione abitativa e dei problemi del traffico.

Tale analisi non viene qui riportata, se non marginalmente, perché non rientra negli obiettivi che ci si era proposti, tra i quali occorre considerare l’intenzione di limitarsi, prevalentemente, ai contenuti urbanistici dei piani regolatori esaminati.

L’interesse che suscita quell’analisi, però, dovrebbe spingere coloro che ritengono importanti le problematiche trattate, a prendere in esame questa parte della relazione del professor Bonelli, piuttosto corposa, e che rende il suo piano qualcosa di più di un piano urbanistico, per certi aspetti anche un piano economico e sociale.

Alcuni degli elementi dell’analisi citata però non possono essere assolutamente trascurati soprattutto perché hanno influenzato il programma urbanistico vero e proprio e verranno di seguito presi in considerazione.

Nella parte dedicata alla storia edilizia, il professor Bonelli rilevò che dopo il 1930 furono realizzate alterazioni molto consistenti, valutate in modo del tutto negativo, al precedente assetto urbanistico del centro storico.

Bonelli si riferiva agli “edifici delle caserme e dell’Accademia di Educazione Fisica (per la quale fu demolita in parte la chiesa di San Domenico), cui si aggiungono la brutta sede delle scuole elementari, il rifacimento delle carceri e l’apertura o l’ampliamento di alcune piazze (Soliana, San Domenico e Cahen) e della via del Pozzo, anonime e fuori scala.

Infine il secondo dopoguerra ha visto, con le sue manifestazioni sempre banali e spesso chiassose, l’incontrollato sviluppo dell’edilizia privata e sovvenzionata, che ha invaso la maggior parte degli spazi liberi, distruggendo gli orti, trasformando le strade, alterando i rapporti di dimensione, volume e colore, guastando brutalmente il carattere della città. La distruzione si è esercitata specialmente nella zona occidentale dove piazza Cahen e le strade vicine sono diventate un pessimo campionario di case e ‘villette’ isolate, la via Postierla, un tempo chiusa fra i muri degli orti e così

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suggestiva, non esiste più. L’ambiente di alcuni monumenti è stato violato e la visuale della rupe dall’esterno è ora turbato dai casoni dell’Incis e delle cooperative edilizie”.

Fra i dati demografici presi in considerazione, occorre citare innanzitutto il numero degli abitanti del centro storico - che Bonelli significativamente chiamava città - pari a 9.657 unità, nel 1956, mentre nell’intero territorio comunale i residenti erano 24.974.

E pensare che oggi nel centro storico abitano solamente poco più di 5.000 persone!

Per quanto riguarda la composizione della popolazione attiva, il professor Bonelli rilevò il peso preponderante assunto dall’agricoltura (con il 53% degli attivi complessivi). Gli addetti all’industria erano pochi e in numero minore - 11,6% sul totale - rispetto ai pubblici impiegati - 13,8% -. Normale veniva considerata la percentuale degli addetti al commercio (10,2%), mentre i lavoratori nel settore edilizio era ritenuto eccessivo (7% sul totale). Gli spostamenti periodici per motivi di lavoro venivano considerati di scarso rilievo (circa 150 persone si recavano quotidianamente, utilizzando i treni, soprattutto a Roma e a Terni).

Le scuole allora esistenti erano sette (a parte quelle elementari): la scuola media, il liceo ginnasio, la scuola tecnica industriale, la scuola di avviamento agrario, l’istituto commerciale “Vivona”, l’istituto magistrale femminile “San Lodovico” ed il seminario vescovile (gli alunni frequentanti nel 1956 erano, rispettivamente, 415, 261, 261, 59, 148, 126, 43 ed il 34,2% proveniva da altri comuni).

Ampio spazio venne dedicato all’analisi del settore agricolo, le cui caratteristiche principali erano le proprietà molto frazionate, la presenza di condizioni ambientali, geologiche, pedologiche e climatiche, poco favorevoli, in molte zone, alle colture, il rendimento produttivo piuttosto basso. Tali caratteristiche rendevano quella orvietana, “una zona di transizione tra quelle, tradizionalmente riconosciute intensive, umbre e toscane, e quelle estensive o semiestensive, della vicina Maremma”. Si sosteneva inoltre che lo sviluppo della produzione agricola fosse ostacolato da vari fattori: la conduzione a carattere familiare che tra l’altro imponeva l’utilizzo di metodi di produzione arretrati, la carenza di capitali fondiari, messa in relazione alla scarsa produttività dei terreni ed alla mancanza di consorzi di bonifica, l’inadeguata istruzione professionale di tutte le categorie degli addetti ai lavori agricoli, la carenza di mezzi meccanici e soprattutto di impianti di irrigazione, l’insufficienza dei servizi nelle abitazioni coloniche e negli edifici ad uso agricolo.

E’ bene soffermarsi un attimo su queste considerazioni relative al settore agricolo. Viene confermata da Bonelli la tesi, sostenuta anche da altri, secondo la quale tale

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settore era caratterizzato da problemi di notevole rilievo, che peraltro lo caratterizzarono anche nei decenni precedenti al periodo nel quale Bonelli scrisse la sua relazione. E l’esistenza di tali problemi, le cui cause furono diverse, esercitò effetti non solo sull’agricoltura, ma essi si estesero anche ad altri settori, in primo luogo l’industria. Infatti, in molti territori, anche dell’Umbria, i capitali formatisi nel settore agricolo, una volta manifestatasi la sua crisi ma anche in precedenza, furono utilizzati per effettuare investimenti in altri settori, in primo luogo appunto nell’industria (si consideri che qui come altrove il termine “industria” non necessariamente equivale a un insieme di grandi imprese ma più semplicemente ad un insieme di imprese, piccole e grandi, che producono beni, e non erogano servizi, che non sono ovviamente beni agricoli). E’ del tutto evidente che, se si accetta la tesi della produttività limitata del settore agricolo, è più che probabile che i capitali utilizzabili per essere investiti per favorire lo sviluppo industriale fossero altrettanto limitati e, oggettivamente, tale situazione rappresentò un ostacolo non indifferente al manifestarsi di uno sviluppo industriale adeguato a fornire opportunità occupazionali alternative a quelle che si verificavano in agricoltura, soprattutto quando quest’ultima fu contraddistinta da una tendenza, sempre più forte, alla riduzione del proprio peso, anche in termini occupazionali.

Per quanto concerne le attività industriali, fu osservato che gran parte di esse venivano svolte da piccole aziende che presentavano “i caratteri dell’organizzazione e del metodo di lavoro artigianale” e che, nel complesso, fino alla metà degli anni ’50, avevano avuto uno sviluppo molto limitato, inferiore alle potenzialità ed alle necessità occupazionali. Gli addetti erano 1.863 (di cui 698 nell’edilizia), mentre gli addetti nel settore agricolo erano 5.204, nel commercio 1.000 (di cui 315 nelle attività collegate al turismo). Negli anni precedenti al 1956 si era, poi, verificato un aumento, considerato eccessivo, del numero degli esercizi commerciali, che causò notevoli difficoltà economiche ad una parte delle aziende, anche in seguito “all’improvvisazione dei nuovi e relativamente numerosi esercenti”.

Anche quest’ultima osservazione è opportuno che sia brevemente commentata. Anche allora si rilevò la presenza di un eccessivo numero di esercizi commerciali. Anche allora, scrivo, perché attualmente, e ormai da diversi anni, il numero degli esercizi commerciali rispetto alla popolazione residente è eccessivo ad Orvieto, comunque maggiore rispetto a quanto si verifica nelle altre città più importanti dell’Umbria. Tale situazione è poco conosciuta dagli orvietani, diversamente da quanto sarebbe necessario, ma la sua esistenza è appunto avvalorata da quanto scrisse Bonelli nel 1956.

Il turismo, considerando soprattutto  il numero limitato di occupati in questo settore, all’opposto di ciò che si pensava a quel tempo, non assumeva una notevole importanza.

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E’ bene ricordare che nel 1956 non esisteva ancora il casello autostradale di Orvieto, che fu inaugurato solo successivamente, nel 1964.

Gli occupati nella pubblica amministrazione erano 1.355 (tale numero elevato dipendeva soprattutto dalla presenza delle caserme).

Il fenomeno della disoccupazione non era, secondo il professor Bonelli, particolarmente preoccupante, come invece avveniva nelle città maggiori o nei centri industriali e interessava, in prevalenza, il settore edilizio, che assorbiva metà dei circa 500 disoccupati allora presenti. Gran parte dei disoccupati del settore edilizio era rappresentato da manodopera non qualificata, proveniente in genere dall’agricoltura (molti lavoratori abbandonavano fin da allora il settore agricolo per vari motivi).

Il fenomeno delle “convivenze” era piuttosto consistente: nel 1956 riguardava 3.541 persone, di cui 2.715 militari, 164 religiosi, 160 detenuti, 124 persone che abitavano in ospizi e orfanotrofi, 235 che abitavano in collegi e convitti.

La rete stradale era, poi, caratterizzata dall’attraversamento del centro storico da parte della S.S. 71 (era ancora in fase di progetto la “variante” che avrebbe poi collegato il bivio per Bagnoregio con la zona vicina al cimitero, l’attuale strada dell’Arcone), come del resto non era ancora presente, nel territorio comunale, l’autostrada di cui non si conosceva allora, con precisione, il tracciato, come peraltro ho già rilevato. La funicolare, inoltre, era considerata ormai insufficiente a soddisfare le esigenze che si manifestavano in quel periodo.

Nel 1956 esistevano solo 7 alberghi (con 205 posti letto) e 6 locande (55 posti letto) nel centro storico, e altri 2, di IV categoria, ad Orvieto scalo. Nel 1954 le presenza presso gli esercizi alberghieri furono complessivamente 38.107 (con una percentuale di utilizzo dei posti letto disponibili pari a circa il 40%) e gli arrivi 10.515 (l’indice di permanenza media era pari a 3,6).

Un breve ulteriore commento: allora l’indice di permanenza media era 3,6 molto più elevato di quanto è attualmente, per la verità da molti anni ormai, circa 1,5. Tale valore peraltro viene valutato negativamente, in quanto rappresentativo del fatto che il turismo ad Orvieto sia soprattutto un turismo di passaggio, e il suo incremento è considerato un obiettivo da perseguire ma che da molti anni a questa parte non è stato raggiunto. Pertanto negli anni ’50 il turismo orvietano aveva delle caratteristiche profondamente diverse da quelle che attualmente lo contraddistinguono. Però, occorre aggiungere, allora era un fenomeno molto limitato - si pensi solamente al numero delle presenze alberghiere che non superava le 40.000 unità - diversamente

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da quanto avviene oggi, con le presenze alberghiere che superano non di poco le 100.000 unità e che sommate a quelle extralberghiere raggiungono quasi le 200.000.

I cinema erano 5 (con 1.906 posti complessivamente).

Per quanto concerne la situazione abitativa, venne innanzitutto rilevato che l’indice medio di affollamento, pari a 1,18 abitanti per vano, solo apparentemente poteva indurre a formulare una valutazione positiva, in seguito alle notevoli differenze che si registravano all’interno del territorio comunale. Fu sostenuto, più precisamente, che gli alloggi con indice di affollamento superiore ad 1 erano 1.504, quelli con famiglie in coabitazione 474 e quelli pericolanti 180.

Fu calcolato, poi, il fabbisogno totale dei vani, con l’obiettivo che in ogni abitazione vi fosse presente una persona per ogni vano. Si ottennero 2.630 vani a cui furono aggiunti altri 900 in sostituzione di alloggi pericolanti e 1.930 in sostituzione di locali “scadenti” da sostituire (il numero complessivo dei vani necessari era pertanto pari a 5.460).

Inoltre fu previsto che nei venti anni successivi gli abitanti nel comune sarebbero cresciuti fino a raggiungere le 28.000 unità nel 1976 (occorre rilevare che quella previsione non si verificò affatto e che la popolazione invece diminuì). E questa fu la prima delle previsioni sbagliate sull’andamento demografico futuro, contenuta in un piano urbanistico, seguita anche da altre, nei successivi piani.

In base a queste previsioni sull’andamento futuro della popolazione, fu calcolato che sarebbero stati necessari altri 4.500 vani, ottenendo così un totale di 10.000 vani da costruire in venti anni. Poiché i calcoli effettuati si riferivano, in gran parte, alla situazione esistente al 1951 e poiché in 5 anni furono costruiti circa 3.000 vani, il fabbisogno totale fu ridotto a 7.000 vani. Di questi 7.000 vani, 1.000 dovevano essere realizzati nel centro storico (in sostituzione dei vecchi edifici), 2.000 ad Orvieto scalo (nuove abitazioni), 600 nel “suburbio” (sempre nuove abitazioni) e 3.400 nelle frazioni (per affrontare il problema dell’affollamento e per sostituire gli alloggi pericolanti o scadenti). Nel primo periodo di attuazione del piano (dal 1957 al 1963) doveva essere costruita solo una parte dei 7.000 vani necessari nel ventennio e cioè circa 4.000.

A monte di tutti questi calcoli vi era fra l’altro la convinzione della necessità che nel centro storico non venissero costruite nuove abitazioni e che le principali zone di espansione dovessero essere Orvieto scalo e Sferracavallo.

A proposito di Sferracavallo il professor Bonelli notò che questo nuovo insediamento abitativo si stava già formando rapidamente soprattutto in seguito alla “convenienza

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da parte di gruppi di coltivatori diretti di costruire le loro case intorno ad un nucleo già esistente, situato vicino sia ai terreni e alle zone di lavoro, sia alla città, anzi a metà strada tra gli uni e l’altra. Si trattava perciò della tendenza ad avvicinarsi al nucleo urbano effettuando un inizio di inurbamento, che si fermava alla creazione di nuclei satelliti tendenzialmente semiautonomi e destinati a servire alla popolazione agricola quale aggregato intermedio fra l’abitato compatto della città e la casa colonica isolata. E’ un processo logico e sano che deve essere incoraggiato e al tempo stesso disciplinato”.

Ricordo ancora un volta che quando Bonelli parlava di città si riferiva sempre e solo al centro storico.

Notevole attenzione fu attribuita, nella relazione, ai problemi del traffico che, ovviamente, erano molto diversi da quelli attuali ma forse non meno importanti. Il principale problema fu individuato nell’eccessiva circolazione dei veicoli nel centro storico, in relazione soprattutto al fatto che la gran parte della rete viaria presentava una larghezza insufficiente. E’ necessario precisare che allora la rete principale era costituita dal tracciato di attraversamento della S.S. 71 (Porta Romana - piazza Cacciatori del Tevere - sottopassaggio del Palazzo Comunale - piazza della Repubblica - viale Crispi - piazza Cahen) e dal percorso, che formava un anello, composto da corso Cavour - via del Duomo - piazza del Duomo - via Soliana - via Postierla - piazza Cahen, dove si ricongiungeva al primo.

Il professor Bonelli sostenne, quindi, che le caratteristiche della rete viaria del centro storico erano del tutto inadeguate a sopportare il traffico che vi si dirigeva e ciò causava difficoltà di varia natura, tra le quali “ingorghi, rallentamenti del flusso, rumori, vibrazioni, polvere, pericolo alle persone, invasione continua dell’intera sede stradale…” ed anche notevoli problemi per il passaggio dei pedoni, determinando una vera e propria alterazione della tradizionale vita orvietana. In seguito all’eccessivo traffico, il professor Bonelli rilevo che “una città come Orvieto, ricca di tradizioni e di ambiente architettonico, che ora, nel giro di pochi anni, è rimasta quasi priva del proprio centro civico funzionante come tale, deve necessariamente ritrovare un proprio organico equilibrio nella complessità dei fattori che ne condizionano la vita. Uno dei principali intenti del piano deve essere appunto quello di riportare il centro cittadino alla sua vera funzione, e questo non può essere fatto che ripristinando nel cuore della città le condizioni indispensabili allo svolgimento di una normale vita associata, con l’assegnare altre e nuove sedi, distinte e idonee, al traffico turistico e a quello commerciale”.

Il professor Bonelli, insomma, in forte anticipo rispetto a molti, era già consapevole, nel 1956, che il centro storico dovesse “appartenere” più ai pedoni che agli autoveicoli.

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La parte della relazione contenente le proposte per una pianificazione generale inizia con alcune considerazioni sui risultati delle indagini, soprattutto relative ai problemi economici, che danno vita a un vero e proprio programma economico (Bonelli infatti riteneva che la pianificazione urbanistica dovesse attribuire notevole importanza alle attività economiche).

Il professor Bonelli affermò testualmente che “nel suo complesso l’economia del comune è sana, solida, stabile, dotata di un sicuro equilibrio, largamente attiva; non presenta grandi possibilità di rapido sviluppo, ma consente di assicurare una reale ed adeguata prosperità agli abitanti dei territori. Essendo basata in gran parte sulle attività dell’agricoltura, risente delle presenti difficoltà di questa, che rappresentano però un fenomeno di carattere generale ed un problema nazionale…”. Il professor Bonelli, inoltre, rilevò che lo sviluppo dell’economia locale non dovesse mutare i suoi caratteri tradizionali, basandosi quindi ancora sull’agricoltura e su attività commerciali ed industriali ad essa collegate.

Non si aveva cioè la consapevolezza che, ad Orvieto come altrove, nel procedere dello sviluppo economico, fosse inevitabile una consistente riduzione del peso del settore agricolo, che poteva essere frenata, con provvedimenti specifici, quali quelli indicati dallo stesso Bonelli, ma non più di tanto (per arrivare a tali conclusioni sarebbe stato sufficiente analizzare la storia dei processi di sviluppo economico di nazioni che prima dell’Italia furono interessate dalla cosiddetta “rivoluzione industriale”).

Bonelli, poi, sostenne che “la presenza di un’alta percentuale di appartenenti alle pubbliche amministrazioni, civili e militari (quasi il 14% della popolazione attiva) e la permanenza periodica di un grosso contingente di soldati (2.500-3.000 persone), rappresenta un peso notevole, economico, materiale e psicologico, per la vita orvietana. E’ sufficiente porre a confronto il numero degli abitanti della città (circa 10.000) con quello dei militari presenti che da soli arrivavano a costituire un quarto della popolazione, per intendere la portata dell’errore commesso circa 25 anni fa con la costruzione delle grandi caserme sulla vecchia rocca, in cima alla rupe”. E Bonelli propose che il numero dei militari presenti nel centro storico dovesse ridursi a 1.000-1.500 persone.

Una posizione molto originale, quella di Bonelli, se si considera che soprattutto da parte degli operatori economici, la presenza dei militari fu ritenuta sempre determinante per le prospettive del centro storico e, anche quando la caserma Piave fu chiusa, per decisione dello Stato centrale, tale opinione rimase sempre piuttosto diffusa, tra gli abitanti del centro storico.

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Per quanto riguarda il turismo Bonelli rilevò che dovesse essere compiuta una scelta “quella fra il turista isolato che è cliente di qualità e il movimento di comitive, distinte in gruppi che viaggiano a scopo ricreativo e pellegrinaggi religiosi. E’ naturale che il turismo di massa sarà preferito anche dalle organizzazioni alberghiere, quando però desideri di effettuare il pernottamento, poiché il vero problema del turismo è di riuscire a trattenere sul luogo il viaggiatore almeno per una giornata, compresa la notte”. E come nel caso dell’agricoltura, il professor Bonelli formulò precise proposte volte a favorire lo sviluppo del turismo e non si manifestò, invece, favorevole ad una crescita del settore edilizio, ritenuto già troppo ampio.

Bonelli, formulando tale considerazione, fu un anticipatore, rispetto ai molti che successivamente evidenziarono la necessità che si dovesse accrescere la permanenza media presso gli esercizi ricettivi, soprattutto nel centro storico, puntando a far restare ad Orvieto una parte di turisti più giorni. Se da un lato però quella considerazione fa ritenere Bonelli un anticipatore, essa si presta a valutazioni piuttosto negative rispetto all’efficacia dell’azione svolta da diversi soggetti, pubblici e privati, negli anni successivi, per aumentare la permanenza dei turisti nel centro storico, obiettivo mai raggiunto.

Nella formulazione del piano riguardante il centro storico, si partì dall’attribuzione a questa parte del comune di una funzione principale, cioè quella di “centro residenziale e di scambio di una vasta zona agricola nel quale alcune presenze e attività, come quella dei centri militari, appaiono stranamente disambientate; ma essa è anche luogo ricco di memorie storiche e di opere artistiche e costituisce nel suo insieme, per i suoi spiccati caratteri, per le opere architettoniche che racchiude e per la sua speciale positura, un complesso paesistico e monumentale, fra i più singolari. Nei riguardi del vecchio nucleo il piano deve quindi adottare il principio fondamentale di conciliare il mantenimento e lo sviluppo delle funzioni che la città ha assunto da secoli, con il rispetto dei suoi caratteri formali. Il nucleo storico dovrà conservare ed accrescere tutte le funzioni rappresentative  e di sede amministrativa, commerciale, culturale e turistica che ha avuto finora; potrà ancora tollerare la permanenza di sedi militari in contrasto col proprio carattere, purchè opportunamente ridotte nella loro entità e densità, ma non dovrà proprio assolutamente ancora servire da zona di espansione a se stessa. Nel periodo posteriore al 1944, invece, la tendenza a costruire delle abitazioni nelle aree libere della vecchia città si è manifestata e sempre più accentuata, provocando la distruzione di larghe zone prima dotate di caratteristiche ambientali”.

Quindi già Bonelli attribuiva una funzione ben precisa al centro storico, la stessa funzione che fu ritenuta essenziale, e ne fu oggettivamente il presupposto, da coloro che idearono e attuarono, circa 25 anni dopo, il cosiddetto Progetto Orvieto.

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Quindi secondo il professor Bonelli non doveva essere prevista nel centro storico alcuna zona di espansione edilizia.

La principale zona di espansione venne individuata ad Orvieto scalo (il numero dei nuovi vani ritenuti necessari era pari a 2.000 unità, in un’area ben precisa, al di là della ferrovia, fra la S.S. 71, la strada Amerina ed il Paglia, separata dal nucleo esistente di circa 600-700 metri).

Ad Orvieto scalo, quindi, si pensava di mantenere distinti il vecchio ed il nuovo nucleo abitato. Nel primo, che doveva rimanere sede industriale e commerciale e punto di transito, oltre che comprendere anche una sede residenziale semiautonoma e quindi dotata dei principali servizi, doveva essere vietata la costruzione di nuove abitazioni, che sarebbero sorte invece nel secondo, per garantire la residenza di 1.800-2.000 persone, in cui sarebbe stato incluso il piccolo nucleo Ina-casa, già allora esistente.

Ad Orvieto scalo erano previsti anche altri interventi:

la realizzazione della variante della S.S.71, già citata in precedenza;

la creazione di alcuni impianti sportivi nell’area ricompresa tra la S.S. 71 ed il Paglia;

la creazione di una zona per piccoli insediamenti produttivi nelle vicinanze della ferrovia;

la costruzione della sede della scuola di avviamento professionale di tipo agrario;

il possibile spostamento delle scalo merci delle ferrovie dello Stato.

Occorreva poi regolare la formazione di un aggregato residenziale a Sferracavallo (in cui allora vi erano 300 abitanti) in precedenza realizzatosi in modo disordinato, predeterminando l’ubicazione, le dimensioni e le forme delle nuove abitazioni che dovevano sorgere sul fondo valle e sulle pendici dei colli che fronteggiano il centro storico, a distanza non superiore ai 3 km., e garantire la residenza ad un massimo di 500 persone, con pochi servizi essenziali (scuole, ambulatorio, negozi).

Inoltre si prevedeva di creare un nuovo nucleo abitativo nella zona del Tamburino e di indirizzare le eventuali richieste di costruire nuove abitazioni a Ciconia verso la nuova unità abitativa di Orvieto scalo (in pratica Ciconia non si doveva ampliare).

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Quindi per Bonelli Ciconia non si doveva ampliare e questo rappresenta, oggettivamente, uno degli elementi caratterizzanti del suo piano, se si considera quello che avvenne dopo, in attuazione del piano Piccinato, con la notevole espansione edilizia verificatasi a Ciconia che, ovviamente, determinò anche un forte aumento dei residenti (ora sono circa 5.000).

Gli interventi del piano Bonelli, riguardanti il centro storico, tendevano a perseguire 4 obiettivi principali:

la risoluzione del problema del traffico;

il completamento e il potenziamento dei servizi collettivi (acquedotto, fognature, sedi scolastiche, edificio delle Poste, mercato coperto, musei, ecc…);

il risanamento delle vecchie abitazioni e la sostituzione degli alloggi “scadenti” (per la definizione delle proposte specifiche si rinviava però all’elaborazione del piano particolareggiato);

la conservazione e la valorizzazione dell’intera struttura edilizia, dei monumenti e delle visuali della rupe dall’esterno, mediante l’adozione di nuove norme edilizie.

Il principio fondamentale che ispirava i provvedimenti, proposti relativamente al traffico, consisteva nell’assegnare ad ogni categoria di traffico una distinta sede stradale. Il traffico locale, riguardante cioè i veicoli dei residenti nel centro storico, si doveva infatti svolgere nella rete interna allora esistente. Le autolinee si sarebbero indirizzate, provenendo da porta Cassia - che era localizzata prima di piazza Cahen nella strada che attraversava la zona delle tombe etrusche - e che ora non esiste più, verso la strada che terminava a piazza Angelo da Orvieto, dove sarebbe stata realizzata un’autostazione e il traffico dei giorni di mercato sarebbe arrivato fino a piazza XXIX Marzo, che sarebbe stata utilizzata come parcheggio. Tale soluzione poteva essere ampliata prolungando la strada di penetrazione lungo via di Loreto e proseguendo con una nuova strada da realizzare presso il ciglio della rupe fino alla zona dove sorgeva porta Vivaria. Il traffico turistico, sia proveniente da porta Romana che da porta Cassia, sarebbe stato indirizzato verso la nuova strada da costruire lungo il margine della rupe, da porta Romana a piazza Cahen (era previsto in questo percorso un parcheggio in piazza del Duomo e un parcheggio secondario in piazza Soliana).

Il piano, a parte la realizzazione delle due nuove strade periferiche già citate, manteneva intatte le restanti parti del centro storico (erano previsti solo due “tagli”, il


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primo per creare una via d’accesso sufficientemente ampia da corso Cavour alle scuole di piazza Soliana, allargando e prolungando un vicolo cieco, e il secondo, demolendo e ricostruendo due vecchie abitazioni nell’angolo tra il corso e via San Leonardo, per allargare quest’ultima e dare vita così ad una strada abbastanza larga per arrivare a piazza del Popolo).

Si prevedeva inoltre di realizzare a piazza Vivaria un piccolo mercato e la nuova sede delle Poste (allora ubicate presso l’attuale palazzo dei Sette), di trasformare a portico il pianterreno dell’attuale palazzo dei Sette per ricavarne un passaggio coperto con negozi, di migliorare l’assetto dell’ospedale, allora localizzato in piazza del Duomo, di trasferire l’istituto tecnico commerciale nella sede che sarebbe stata lasciata libera dalla scuola media, di consentire la costruzione di un nuovo albergo per ampliare la ricettività turistica, di richiedere l’utilizzo, da parte dei cittadini, di alcuni impianti sportivi dell’ex Accademia e di impedire l’uso da parte dei militari, per il loro addestramento, di piazza Cahen, essendo sufficienti i piazzali interni alle caserme.

Anche allora si prevedeva che i residenti potessero utilizzare gli impianti sportivi dell’ex Accademia! Fatelo sapere alla Guardia di Finanza che attualmente occupa gli spazi dell’ex Accademia e poi ex Smef…

Per risolvere il problema rappresentato dalla necessità di fornire una maggiore quantità di energia elettrica e di garantire contemporaneamente l’irrigazione di zone prive di acqua, evitando la creazione di invasi che riducessero o danneggiassero le coltivazioni agricole, fu proposto di costruire lo sbarramento della Valle del Paglia nella zona di alta collina fra Torre Alfina e Allerona (in questo modo sarebbero stati evitati gli allagamenti della Valle del Tevere).

Inoltre per la localizzazione del Foro Boario e del Mattatoio, fu scelta la zona del Campo della Fiera.

Nella parte finale della relazione il professor Bonelli ribadì la necessità di conservare e valorizzare il “carattere artistico e paesaggistico” del centro storico. Tale obiettivo doveva essere conseguito, tra l’altro, con una serie di norme ben precise (restrizioni alla possibilità di costruire sulle pendici del colle fino a fondo valle, divieto di costruire sulla fascia lungo il ciglio della rupe, emanazione di speciali prescrizioni per quanto riguarda le costruzioni).

Furono anche individuati i tempi di attuazione della parte edilizia del piano.

Fra il 1957 e il 1959, nel centro storico si sarebbe dovuto procedere alla costruzione delle strade periferiche, dell’autostazione, della scuola media, della sede delle Poste e alla sistemazione dei musei di piazza del Duomo. Ad Orvieto scalo si doveva

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realizzare la variante della S.S. 71, costruire la scuola agraria e iniziare la nuova unità di abitazione. Si doveva realizzare la “sistemazione” del nucleo di Sferracavallo e costruire, nelle frazioni, circa 10 edifici scolastici.

Tra il 1960 e il 1966, nel centro storico si doveva realizzare il “taglio” di via San Leonardo ed il porticato nel palazzo dei Sette, la costruzione del mercato coperto e la “sistemazione” dell’ospedale e delle sedi della scuola industriale, dell’istituto tecnico commerciale e della scuola elementare. Ad Orvieto scalo si doveva completare la nuova unità di abitazione, realizzare la zona sportiva (erano previsti un campo di calcio con piscine interne, un campo di pallacanestro e uno di pallavolo, due campi da tennis, una piscina coperta). Nelle frazioni si doveva realizzare il mattatoio, il Foro Boario, il nucleo residenziale del Tamburino e circa venti edifici scolastici.

Il piano Bonelli, dopo la sua redazione, ebbe un “iter” piuttosto travagliato che ne impedì di fatto l’attuazione.

Il Consiglio comunale, nella riunione del 1° ottobre 1956, deliberò di approvare “in via di massima”, con due voti contrari, il piano redatto dal professor Bonelli, rinviando l’esame delle modifiche, proposte dalla Giunta comunale, alle norme urbanistico-edilizie e dell’ubicazione delle zone che suddividevano il territorio di Orvieto scalo alla seduta successiva alla pubblicazione degli elaborati, quando sarebbero state adottati i cambiamenti al progetto derivanti dall’accoglimento totale o parziale delle osservazioni presentate.

Quel rinvio fu determinato dal fatto che su alcuni aspetti importanti del piano furono formulate delle critiche nel corso del dibattito in Consiglio comunale ed inoltre dalle caratteristiche delle modifiche proposte, sempre in Consiglio comunale, alle norme urbanistico-edilizie, modifiche che tendevano ad eliminare o ad attenuare diversi vincoli, di cui Bonelli sosteneva l’assoluta necessità, riguardanti soprattutto le nuove costruzioni e le ristrutturazioni nel centro storico, ma anche il vecchio nucleo abitativo di Orvieto scalo, la zona industriale e la zona agricola.

Solamente nella riunione del 23 agosto 1958 il Consiglio comunale approvò all’unanimità il piano regolatore con alcune modifiche già discusse nella seduta dell’ottobre del 1956.

Più di un anno e mezzo trascorse tra le due riunioni del Consiglio in seguito alle “laboriose” discussioni che intervennero tra il progettista e la Giunta comunale, a proposito delle modifiche da apportare al piano originario. Le modifiche approvate nell’agosto del 1958, secondo quanto sostenuto nel testo della delibera consiliare, erano solo lievemente diverse da quelle già concordate con il professor Bonelli. Della stessa opinione non fu il professor Bonelli che, precedentemente alla riunione del 23

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agosto, scrisse una lettera al ministero dei Lavori Pubblici nella quale spiegò i motivi per cui il piano regolatore presentato nel 1956 non era più da considerarsi uno strumento adeguato alla situazione del 1958.

Il 7 novembre 1959 furono esaminate dal Consiglio comunale le 22 osservazioni al piano presentate da vari soggetti. In parte furono recepite e in parte no e, soprattutto, non furono recepite, all’unanimità, le osservazioni formulate dallo stesso professor Bonelli.

Nelle sue osservazioni il professor Bonelli innanzitutto rilevò che il piano, redatto nel 1956, non rispondeva più alla situazione esistente agli inizi del 1959, per vari motivi.
 
In primo luogo, secondo Bonelli, dall’ottobre del 1956 in poi l’Amministrazione Comunale autorizzò, in contrasto con i criteri contenuti nel piano, la costruzione di abitazioni in ogni parte del territorio comunale (ciò avvenne soprattutto ad Orvieto scalo). Inoltre, nel centro storico, i limiti fissati nel piano, relativamente alle nuove residenze, furono superati, “distruggendo quasi tutte le zone verdi che restavano, aumentando la densità edilizia e gli inconvenienti derivanti dal traffico”, e consentendo la costruzione di case sul ciglio della rupe che di fatto avevano impedito la costruzione di una strada che rappresentava uno degli aspetti fondamentali del piano.

In seguito a tali considerazioni Bonelli propose di adottare il divieto “generale, completo e assoluto di costruzioni, ricostruzioni ed ampliamenti nel centro storico” e di vietare nuove costruzioni ed ampliamenti nel vecchio nucleo abitativo di Orvieto scalo.

Il Consiglio comunale approvò, all’unanimità, alcune controdeduzioni alle osservazioni di Bonelli, nelle quali si affermava che “le considerazioni esposte dal progettista architetto Bonelli non rispondono a verità…”, in quanto, soprattutto, le autorizzazioni edilizie rilasciate dal Comune non erano considerate in contrasto con le norme urbanistiche edilizie proposte nella riunione pre-consiliare del 1° luglio 1958 da una apposita commissione composta da vari rappresentanti dei cittadini, presenti lo stesso Bonelli e un funzionario della Soprintendenza di Perugia e poi approvate dal Consiglio comunale nella riunione del 23 agosto 1958 e neppure in contrasto con i regolamenti vigenti. Inoltre nelle controdeduzioni furono criticate tutte le argomentazioni utilizzate dal professor Bonelli e si concluse rilevando che “l’Amministrazione respinge in blocco tutte le osservazioni formulate dall’architetto Bonelli, progettista del piano regolatore, perché non serene, non veritiere, non obiettive, ma soltanto ispirate ad acredine e contrarie al benessere e allo sviluppo della propria città”.

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Furono utilizzati termini decisamente forti a testimonianza del notevole contrasto manifestatosi tra l’Amministrazione Comunale, peraltro unanime, e il professor Bonelli, le cui motivazioni andrebbero indagate perché non necessariamente potrebbero corrispondere a verità le accuse formulate, e appena citate, rivolte al professor Bonelli, il quale, come emerge dalla biografia prima riportata, aveva già una statura culturale e un profilo professionale di notevole livello.

Comunque rimane un dubbio, ma perché fu incaricato Bonelli di redigere il primo piano urbanistico del comune di Orvieto se, successivamente, l’Amministrazione Comunale di fatto respinse i principali contenuti del piano stesso? Non c’era stato un confronto preliminare all’affidamento dell’incarico al professor Bonelli o invece qualcuno aveva cambiato idea o ancora qualcuno pensava che Bonelli potesse essere facilmente influenzabile?

Nella seduta del 16 marzo 1963, il Consiglio comunale tornò ad occuparsi del piano Bonelli.

Infatti il piano, con le osservazioni presentate, fu sottoposto all’esame dell’assemblea generale del Consiglio superiore dei Lavori Pubblici che, nella seduta del 14 aprile 1960, si espresse favorevolmente all’approvazione del piano, con modifiche, integrazioni e raccomandazioni, e in base a queste valutazioni il ministero dei Lavori Pubblici predispose il decreto presidenziale 6 febbraio 1961. Tale decreto, trasmesso alla Corte dei Conti, fu da questa restituito al ministero, con l’invito di richiedere al Comune di Orvieto l’accettazione delle modifiche apportate al progetto originario. Il Comune venne invitato dal ministero ad accettare quelle modifiche con una lettera del 22 giugno 1961.

Da quel momento intercorsero numerosi contatti tra l’Amministrazione Comunale e il ministero per ottenere la modifica delle norme contenute nel decreto, soprattutto relativamente al divieto di edificabilità “in senso assoluto”. Le richieste dell’Amministrazione furono esaminate dall’assemblea generale del Consiglio superiore dei Lavori Pubblici, nella seduta del 12 aprile 1962, che stabilì nuovamente che al piano originario dovessero essere apportate modifiche ed integrazioni in parte diverse da quelle indicate tramite il primo esame, in quanto l’assemblea accolse alcune delle richieste dell’Amministrazione Comunale (veniva perciò mantenuto il divieto di costruzioni per l’intera collina “attenuandolo con l’eliminazione dell’aggettivo assoluto prescritto in precedenza”).

Mi domando: quanto l’eliminazione dell’aggettivo assoluto diminuì l’efficacia del divieto? Non riesco proprio a comprendere, perché per me un divieto rimane un divieto, sia che venga considerato assoluto sia che non venga ritenuto tale. 

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Le principali modifiche indicate dall’assemblea del Consiglio superiore dei Lavori Pubblici riguardavano il divieto di costruire edifici industriali nella zona agricola, il ridimensionamento dello sviluppo del vecchio nucleo abitativo di Orvieto scalo e delle nuove espansioni a Sferracavallo, a Ciconia e nella zona del Tamburino (le nuove abitazioni dovevano essere realizzate soprattutto nella nuova unità abitativa di Orvieto scalo), il divieto di nuove costruzioni nel centro storico (dovevano essere consentiti solo interventi di bonifica interna e di consolidamento degli stabili esistenti), l’indicazione secondo la quale il progetto per la realizzazione della variante della S.S. 71 doveva essere stralciato e definito d’intesa con l’Anas e il ministero dei Trasporti.

Il Consiglio comunale accettò, all’unanimità, la proposta della Giunta comunale di approvare il piano Bonelli, con le modifiche indicate dal Consiglio superiore dei Lavori Pubblici, considerando anche che il divieto di nuove costruzioni previsto per il centro storico e per l’intera zona collinare, già sottoposta a vincolo da parte della Soprintendenza ai monumenti, non poteva che intendersi come temporaneo fino cioè all’approvazione dei piani particolareggiati di esecuzione, ed inoltre che la nuova situazione venutasi a creare ad Orvieto scalo, a seguito della costruzione dell’autostrada del Sole, poteva essere oggetto di una variante al piano generale che avrebbe dovuto essere predisposta nei tempi più brevi possibili.

Fu rilevato, infatti, dal sindaco Italo Torroni che, poiché il Comune di Orvieto era allora sprovvisto di uno strumento urbanistico che regolasse il proprio sviluppo, presente e futuro, doveva essere richiesta urgentemente al ministero l’autorizzazione per realizzare una variante al piano Bonelli, ma che, per ottenere questo obiettivo, occorreva approvare il piano con le modifiche indicate dal Consiglio superiore dei Lavori Pubblici.

Nell’ampio dibattito che si sviluppò in Consiglio comunale, fra l’altro, fu specificato che era intenzione dell’Amministrazione Comunale di indicare il professor Piccinato, urbanista di fama nazionale, per redigere la variante al piano regolatore Bonelli e fu richiesto da un esponente della minoranza che, nella successiva variante, la zona industriale venisse prevista in località Patarina.

L’assessore all’urbanistica Leccese  - anche allora gli assessori all’urbanistica erano socialisti una costante che si ripetè negli anni successivi fino a quando l’Amministrazione Comunale fu retta da un maggioranza Pci-Psi - rispose a questa ultima richiesta che molto probabilmente nella definizione della variante non sarebbe stato possibile prevedere la zona industriale in quella località perché il piano di sviluppo economico dell’Umbria la prevedeva già “lungo la ferrovia verso Allerona”.

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Occorre rilevare, infine, che il ministero dei Lavori Pubblici non emanò il decreto di approvazione in via definitiva del piano Bonelli.

L’“iter” così complesso che caratterizzò l’approvazione del piano Bonelli - è da rimarcare comunque che l’approvazione in via definitiva non avvenne mai - è stato determinato, a mio avviso, anche allora, ma non solo, dalla discussione, e dai contrasti, che si sono manifestati più volte, anche successivamente, fra quanti sostenevano e sostengono che le scelte urbanistiche, in tutto il territorio comunale e non solo nel centro storico, debbano essere contraddistinte da vincoli piuttosto stringenti e quanti, invece, sostenevano e sostengono che tali scelte debbano essere caratterizzate, non dico dall’assenza di vincoli, ma dalla presenza di regole piuttosto permissive.

Tale discussione e tali contrasti non si sono certo manifestati solamente nella città di Orvieto, in Italia, ma comunque ad Orvieto, perché di Orvieto mi occupo qui, sono stati piuttosto accesi e, forse, in certi periodi, hanno avuto la meglio posizioni troppo estreme, in un senso o in un altro.

Infatti in alcuni periodi, nella politica urbanistica, soprattutto in quella praticata concretamente, non tanto e non soltanto in quella prevista dai piani regolatori, hanno prevalso i sostenitori di vincoli troppo rigidi, in altri i sostenitori di regole eccessivamente permissive.

Forse sarebbe stato preferibile che, sempre, si fosse manifestato un equilibrio tra queste diverse, e spesso opposte, posizioni, cosa che, raramente, è avvenuta.

Infine, un’ultima considerazione.

Sebbene il piano Bonelli non fu mai attuato, esso non può che suscitare, comunque, un notevole interesse, soprattutto di carattere storico e culturale.

Consente, infatti, di conoscere come fosse Orvieto nell’immediato dopoguerra, ed oggi tale conoscenza è molto limitata, non essendoci tra l’altro studi che ricostruiscano appunto come Orvieto fosse, dal punto di vista urbanistico, in quel periodo.

Inoltre esaminando il piano Bonelli si può apprendere anche che certe posizioni relativamente agli interventi da realizzare ad Orvieto o certi giudizi su quanto fu realizzato furono manifestate da Bonelli, in primo luogo, ma probabilmente anche da altre persone, già alla metà degli anni ’50, posizioni e giudizi che ancora emergono, nell’ambito del dibattito cittadino, “solo” 60 anni dopo.

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Il piano Piccinato

Con la delibera del Consiglio comunale n. 153 del 5 agosto 1963, il professor Luigi Piccinato fu incaricato inizialmente di redigere la variante generale al piano Bonelli, riadottato dallo stesso Consiglio nella seduta del 16 marzo 1963, con le modifiche e le integrazioni indicate dal Consiglio superiore dei Lavori Pubblici.

Successivamente, poiché il professor Piccinato rilevò la necessità, alla luce di fatti nuovi di notevole importanza quali in primo luogo la realizzazione dell’autostrada del Sole, di promuovere la stesura di un nuovo piano regolatore generale, la Giunta comunale decise di accettare quanto proposto da Piccinato, il quale presentò il nuovo piano nell’aprile del 1966.

Ma chi è stato Luigi Piccinato?

Anche in questo caso una breve biografia, ripresa da una voce di “Wikipedia”.

“Luigi Piccinato (Legnago, 30 ottobre 1899 - Roma, 29 luglio 1983) è stato un architetto e urbanista italiano. Si laurea in architettura all’università La Sapienza di Roma nel 1923, avviando sin dai primi anni un'intensa attività didattica e professionale, soprattutto nel campo dell'urbanistica. Dimostra subito la sua estrema sensibilità per le matrici storiche del territorio e per l'ambiente. Nell'ambito sempre di una sua vasta visione di soluzioni derivanti da una sintesi quotidiana di tutti i problemi urbanistici, fra i molti suoi interventi per Napoli, è bene ricordare il progetto per la stazione centrale ed il progetto per il concorso nazionale per la facoltà di Medicina e Chirurgia (premio In/Arch Domosic) dove esaltò particolarmente il problema dell'ambientamento. Dal 1941 si dedica alla conclusione della costruzione del teatro Salieri, nella sua città natale, ma i lavori secondo il suo progetto non vennero mai completati. II premio In/Arch Domosic  gli viene assegnato anche nel 1961 per lo stadio Adriatico di Pescara. Per quanto concerne l’urbanistica, nel 1954 riceve il premio nazionale Olivetti per l’urbanistica, motivato fra l'altro dall'“equilibrio fecondo” con cui egli seppe cogliere “gli aspetti storico-problematici e creativo-pratici dell'attività urbanistica”. La profonda conoscenza delle matrici storiche del territorio gli permette altresì di intervenire con raro equilibrio, nel delicato tessuto di numerosissimi centri urbani in Italia: da Brescia a Matera, da Napoli a Roma, le sue analisi e le sue previsioni si sono sempre dimostrate profetiche, come pure la sua fama di grande urbanista lo ha portato ad affrontare temi internazionali prestigiosi. Autore di una vastissima serie di pubblicazioni e di studi nel campo dell'urbanistica, viene chiamato a tenere corsi e conferenze ad altissimo livello scientifico in numerose città, sia italiane che straniere, facendo parte contemporaneamente di commissioni e comitati di studio e partecipando a congressi urbanistici nazionali ed internazionali. Nel 1942  viene chiamato dalla casa di

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produzione Sagif Artisti Associati per la realizzazione delle scenografie del film “La fortuna viene dal cielo”, girato negli stabilimenti Fert di Torino, che rappresenta il suo unico lavoro nel campo della cinematografia. Membro di numerose accademie ed istituti culturali italiani e stranieri, quali: l'accademia nazionale di San Luca, l’accademia linguistica di Genova, la deutsche akademie fur stadtbau und landesplanung di Dusseldorf, è stato vicepresidente dell’Inu (istituto nazionale di urbanistica) dal 1952 al 1969. Nel 1945 fonda insieme a Bruno Zevi, Mario Ridolfi e Pier Luigi Nervi l’Apao (associazione per l’architettura organica) per promuovere quel tipo di architettura derivante dalle opere di Frank Lloyd Wright. Professore emerito dal 1975, la sua carriera universitaria comincia fino dai primi anni di laurea con la libera docenza in urbanistica. Dal 1937 al 1950 svolge attività didattica presso l’università di Napoli, passando poi, quale professore ordinario di urbanistica, alla facoltà di Architettura di Venezia, dove rimane fino al 1963, anno in cui si trasferisce alla stessa cattedra della facoltà di Architettura di Roma. È stato consigliere comunale di Roma per il partito socialista italiano dal 1956 al 1960”. 

Nella parte iniziale della sua relazione il professor Piccinato rilevò che, negli anni precedenti al 1966, la mancanza di una normativa di piano consentì lo svilupparsi di un’attività edilizia disordinata, valutata da Piccinato in modo fortemente negativo. Il professor Piccinato citò, ad esempio, la costruzione di abitazioni di 4 o 5 piani sul ciglio della rupe e, sulle colline ad essa prospiciente, di diversi edifici in zone panoramiche e vincolate dalla Soprintendenza, la realizzazione della concessionaria della Fiat lungo la strada dell’Arcone a 200 metri da un antico acquedotto e di nuove abitazioni ad Orvieto scalo, senza che “fosse possibile dare una conformazione urbanistica a questa zona”.

Le principali motivazioni alla base, secondo Piccinato, della necessità di realizzare un nuovo piano erano le seguenti:

la realizzazione dell’autostrada del Sole (il cui tracciato impediva fra l’altro che potessero attuarsi le scelte del piano del 1956 riguardanti le nuove costruzioni ad Orvieto scalo);

l’acquisizione da parte dell’Amministrazione Comunale di un’area da destinare ad insediamenti industriali, a Fontanelle di Bardano;

la creazione della nuova strada statale Todi-Baschi.

Piccinato, poi, descrivendo Orvieto, notò che “l’unità espressiva” del centro storico non poteva essere “sconvolta o interrotta”, altrimenti sarebbe stato distrutto “un quadro storico di inestimabile importanza”.

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Ma il professor Piccinato aggiunse che “il quadro non si limita all’antica città, isolata sulla rupe: esso trae, com’è logico, la sua forza e si giustifica proprio nell’intero paesaggio che esalta la forma e la struttura della città, immergendola in uno spazio che, da sempre, ne ha formato il supporto indispensabile”. “Il paesaggio, dunque, fa parte della città…La presenza di questo paesaggio è, di per se stessa, un tema che chiede una sola soluzione, senza mezzi termini, quella della conservazione”. Ma questa città non è solo e tanto un mondo da conservare…il tema della sua conservazione non può essere risolto che in quello più vasto di una pianificazione globale, nella quale siano almeno adombrati - se non presenti - i termini di una visione programmatica dell’economia e dello spazio economico di Orvieto”.

Pertanto, secondo Piccinato, nel piano non si doveva affrontare solo il problema della conservazione del centro storico, ma dovevano essere considerate molto importanti anche altre questioni (nuove attività, nuovi “traffici”, nuova edilizia). Piccinato affermò inoltre che “il piano regolatore generale deve individuare lo spirito della vita della città: considerare, insomma, con gli aspetti storici, paesistici, anche quelli economico-sociali…”.

Piccinato, poi, passò ad esaminare sinteticamente le principali caratteristiche dell’economia orvietana, in gran parte basata sull’agricoltura, (ciò aveva causato secondo Piccinato la lenta e continua emigrazione di abitanti verificatasi a partire dal dopoguerra soprattutto verso Roma ed anche una certa immigrazione locale dalle frazioni verso la città, fattori che determinarono la sostanziale stabilità della popolazione tra la metà degli anni ’50 e la metà degli anni ’60 accompagnata da un notevole aumento del movimento pendolare giornaliero anche in questo caso soprattutto verso Roma). Fra i dati sulla popolazione, riportati nella relazione, si possono citare, per l’interesse che possono suscitare, il numero degli abitanti residenti nel 1964 nel centro storico, ad Orvieto scalo e a Sferracavallo, rispettivamente 9.694, 2.046 e 503.

Piccinato rilevò, quindi, che nel 1964 si era verificata “una clamorosa rottura” dell’isolamento di Orvieto, con l’apertura al traffico dell’autostrada del Sole, che avrebbe determinato per Orvieto nuove ed importanti prospettive economiche (già si era registrato nel corso di due anni un incremento dei flussi turistici abbastanza consistente).

Piccinato, poi, affermò che, fino alla metà degli anni ’60, l’isolamento di Orvieto fece sì che “per quanto riguarda l’edilizia la città ha vissuto di se stessa, sfruttando, malauguratamente, passo a passo la disponibilità del suolo” e che, esaminando la situazione esistente nel 1920, da allora in poi erano scomparse le grandi aree libere che ancora erano presenti nel centro storico. Fuori della città antica, l’unico nucleo che ebbe un notevole sviluppo edilizio fu quello realizzato intorno alla stazione

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ferroviaria, dove furono create anche alcune attività economiche. Il nucleo di Sferracavallo si sviluppò successivamente, quasi come “propaggine dell’antica città”, mentre l’abitato di Ciconia “ha avuto solo negli ultimi anni un certo sviluppo che ora sta vivamente qualificandosi”.

Piccinato, inoltre, notò che, dalla metà degli anni ’50, furono costruiti circa 3.000 vani, solo in apparente contraddizione con la stabilità della popolazione, in quanto queste nuove abitazioni furono realizzate in seguito alla scissione di nuclei familiari e per migliorare il livello abitativo. Era cioè in corso un processo di rinnovamento edilizio al quale il nuovo piano intendeva dare un preciso indirizzo, altrimenti si sarebbero verificate conseguenze negative di notevole rilievo, se si fosse lasciato spazio ad una espansione edilizia spontanea, senza regole.

Piccinato, poi, affermò che Orvieto stava sempre più assumendo “una nuova e più precisa qualificazione comprensoriale”, a seguito soprattutto della futura realizzazione del nuovo ospedale (occorre ricordare che il nuovo ospedale iniziò la sua attività solo nel 2000…), dell’istituto tecnico per geometri, del nuovo impianto polisportivo, oltre che della già avvenuta apertura del casello dell’autostrada del Sole (ciò avrebbe determinato la necessità di un’espansione residenziale).

Il piano era dimensionato sul fabbisogno di un venticinquennio e, poiché in questo periodo piuttosto lungo si sarebbero potuti verificare eventi  non prevedibili al momento della sua elaborazione, fu considerato un piano “aperto”, tale cioè da consentire una realizzazione degli interventi previsti “a tappe” e da poter far fronte ad eventuali imprevisti di notevole importanza.

Quindi anche il piano Piccinato, almeno dall’autore, fu considerato un piano flessibile, definizione che fu attribuita, anche perché determinata dalla nuova normativa regionale, 30 anni dopo, da molti osservatori, al piano Rossi Doria.

Per arrivare a determinare il fabbisogno abitativo Piccinato prese in considerazione vari elementi: l’andamento della popolazione nell’ultimo decennio, l’andamento della popolazione nell’ultimo triennio, l’incremento naturale della popolazione, la struttura della popolazione in base all’età, la composizione della popolazione per tipo di occupazione, i movimenti migratori, il numero dei nuovi vani necessari per diminuire l’indice di affollamento, il numero di vani necessari per il rinnovo delle abitazioni già esistenti e alcuni fattori di correzione.

Soprattutto fu considerato che l’incremento notevole delle nascite faceva supporre che fosse in corso un notevole processo di “ringiovanimento” della popolazione, che le emigrazioni superavano le immigrazioni, che lo sviluppo edilizio verificatosi negli anni ’50 indicava l’esistenza di un fabbisogno dovuto alla scissione dei nuclei

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familiari e alla ricerca di un migliore livello abitativo, che sarebbe aumentato il numero dei lavoratori a seguito della realizzazione di nuovi insediamenti produttivi, consentita dal piano, e che il flusso turistico era notevolmente aumentato negli ultimi anni.

Tenuto presente tutto ciò, nella relazione al piano fu esplicitamente sostenuto che l’obiettivo finale era di raggiungere il numero di 35.000 abitanti nel 1990 (nel 1965 erano circa 24.000).

Non si può non rilevare che queste previsioni non si verificarono affatto. La popolazione invece diminuì, nel periodo considerato, in misura piuttosto notevole. E questa fu la seconda, e grave, previsione decisamente sbagliata, sull’evoluzione demografica del comune di Orvieto, alla base di un piano urbanistico, seguita da altre previsioni relative alla popolazione, sempre sbagliate e sempre alle base di importanti decisioni di carattere urbanistico, preceduta dalla previsione sbagliata che utilizzò anche Bonelli per il suo piano.

Piccinato aggiunse che per gli 11.000 nuovi residenti nel venticinquennio (ulteriore considerazione personale, ma perché fare una previsione relativa a un periodo così lungo, 25 anni, tale da rendere molto incerte e poco attendibili le previsioni?), era auspicabile non una loro uniforme distribuzione nel territorio comunale, ma una “localizzazione qualificata sia quantitativamente sia qualitativamente”. Una frase decisamente un po’ sibillina e non certo molto chiara.

Ma, riflettendoci un po’, l’espressione, non certo molto esplicita, lascia trasparire quello che è stato senza dubbio l’aspetto di maggiore rilievo del piano Piccinato, la scelta di Ciconia come luogo dove far sorgere quella che potremmo chiamare la “nuova Orvieto”.

Piccinato, però, concluse la prima parte della relazione al piano affermando che “naturalmente la dimensione totale - il fabbisogno abitativo corrispondente cioè alla previsione di un aumento dei residenti pari a 11.000 unità - è programmatica: non è quindi logico che essa venga considerata come raggiungibile in modo assoluto. Dentro le maglie previste deve, invece, rimanere lo spazio necessario per consentire un libero gioco di scelta per il mercato delle aree, senza il quale si arriverebbe a un supervalore delle aree fabbricative”. Altra frase non molto chiara, a mio giudizio, che poteva rappresentare o la volontà di Piccinato, per così dire, di mettere le mani avanti circa un eventuale errore nella previsione di quell’incremento così consistente dei residenti o, invece, che quel fabbisogno abitativo dovesse essere considerato come potenziale, nel senso che il numero di nuove abitazioni, conseguenti al fabbisogno ipotizzato, sarebbe stato realizzato solo se, effettivamente, si fosse verificato l’incremento demografico previsto.

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5 erano gli elementi fondamentali del piano Piccinato:

la riorganizzazione territoriale della struttura urbana definendo le nuove zone di espansione e riqualificando quelle esistenti;

l’individuazione di “centri di produzione e di lavoro” (di aree per insediamenti produttivi cioè);

il completamento delle “attrezzature generali” necessarie nelle varie parti del territorio comunale;

la risoluzione dei problemi della “circolazione principale e secondaria”;

l’adozione di vincoli volti alla tutela del paesaggio e al “risanamento conservativo” del centro storico.

Per quanto concerne l’individuazione di nuove zone di espansione edilizia, secondo Piccinato il criterio di una completa duplicazione della città - come avvenne ad esempio a Bergamo - non poteva essere recepito “in toto” ad Orvieto.

Occorreva però considerare però che la presenza di alcune vie di comunicazione molto importanti avevano già allora reso Orvieto scalo una zona in cui si era verificata, nel corso degli ultimi anni, un’espansione edilizia consistente, quasi “una nuova città”. Orvieto scalo non poteva essere definito un vero e proprio quartiere (la popolazione che vi risiedeva non era commisurata alla sua importanza economica e non era possibile realizzarvi un’espansione edilizia notevole per mancanza di aree edificatorie a meno che non si intendesse “distruggere il paesaggio circostante, spingendo l’edilizia a risalire la valle del fosso dell’Abbadia”).

Per creare “un nuovo settore urbano”, secondo Piccinato, era necessario oltrepassare il Paglia. Ed infatti il piano individuò in una vasta area pianeggiante triangolare, ricompresa tra le strade esistenti, l’attuale Ciconia, la zona ideale per “una espansione urbanistica organizzata”. Nel piano si prevedeva la creazione di “un vero settore urbano dotato di tutti i servizi, provvisto di scuole, centro commerciale, centro religioso, zone verdi, strade veicolari e passaggi pedonali. Tutta la zona marginale al fiume doveva essere destinata a verde: parco pubblico, campo polisportivo, istituto per geometri, campi da gioco, passeggiate”. Il nuovo settore urbano sarebbe stato strettamente collegato con Orvieto scalo tramite il ponte sul Paglia, che era di recente costruzione.

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Piccinato era consapevole del fatto che sempre di più Orvieto scalo sarebbe stato interessato da consistenti flussi di traffico, poiché vi si sarebbero concentrate tutta una serie di vie di comunicazione. Di qui la necessità di separare “i due tipi principali di circolazione: locale e intercomunale che oggi sono commisti in un unico difficile slargo presso il piazzale della stazione e della funicolare. Il piano provvede dunque a creare una deviazione della provinciale della stazione prossima a diventare statale, sottopassando la ferrovia…”.

Per quanto riguarda Sferracavallo, Piccinato rilevò che questa frazione non presentava “la compattezza che, invece, esiste allo scalo, ma le casette sono sorte disponendosi linearmente lungo le strade, con pregiudizio della struttura urbanistica locale che, fino ad oggi, non è riuscita a qualificare una comunità ma solo a portare disturbo all’unità del paesaggio”. Il piano, accettando la presenza di quella frazione, prevedeva il suo completamento edilizio, garantendo con la realizzazione delle mancanti “attrezzature” una coerenza urbanistica all’intero nucleo abitativo.

Con il piano, invece, si cercava di impedire il proseguimento della tendenza già in atto alla “proliferazione di casette, ville e villette in località Gabelletta…proliferazione che tende ad estendersi fino alla località Tamburino, intorno al cimitero”. Se non fosse stata contrastata quella tendenza, sarebbe stato danneggiato uno “spazio paesistico importante” e si sarebbe formato “il solito anonimo sobborgo lineare, purtroppo frequente in casi consimili, privo dei necessari servizi”. Invece il piano individuò un’ampia area, in località Buon Viaggio, utilizzabile per realizzarvi “un settore residenziale a ville”.

Per quanto riguarda le numerose piccole frazioni esistenti nel territorio comunale, Piccinato rilevò che, pur nella loro diversità, esse erano accomunate dalla tendenza al verificarsi di una certa espansione edilizia, dovuta sia alla scissione dei nuclei familiari sia alla ricerca di abitazioni migliori rispetto a quelle preesistenti. Alcune di queste frazioni avevano un valore architettonico e paesistico di notevole interesse, altre si prestavano ad essere località di villeggiatura. In ogni piccola frazione il piano prevedeva “sufficienti” aree edilizie disposte in modo tale non solo da conservare gli aspetti caratteristici delle diverse zone ma da creare unità abitative dotate di una certa organicità e dei servizi essenziali.

La necessità di prevedere due aree per gli insediamenti produttivi (una a Fontanelle di Bardano e l’altra a Pian del Vantaggio) veniva messa in relazione all’apertura del casello autostradale che avrebbe reso possibile il verificarsi di un certo sviluppo dell’industria manifatturiera e dell’industria di trasformazione dei prodotti agricoli. Entrambe le aree erano situate a cinque chilometri dal casello autostradale, “entrambe ben servite da buona viabilità”.

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Nella relazione, poi, si prevedeva che i flussi turistici sarebbero aumentati in misura considerevole. Occorreva pertanto riorganizzare la struttura ricettiva, realizzando nuovi alberghi e camping.

Per quanto riguarda il terzo elemento fondamentale del piano, le “attrezzature collettive”, si notò che fin da allora il territorio comunale disponeva di un adeguato numero di queste “attrezzature”. In seguito però all’espansione edilizia prevista nel piano, fu anche indicata la necessità di costruire nuove scuole. Un centro scolastico di notevole importanza sarebbe dovuto sorgere sulle rive del Paglia, nella zona di Ciconia, in cui avrebbe trovato sede l’istituto tecnico per geometri ed una scuola elementare. Nelle frazioni, veniva proposta una riorganizzazione del sistema scolastico, chiudendo le scuole elementari meno frequentate e promuovendo diversi accorpamenti (sarebbero stati fra l’altro costruiti edifici nuovi e più rispondenti alle necessità dell’istruzione elementare). Nuove scuole medie erano previste non solo nel centro storico, ma anche a Ciconia, Orvieto scalo, Sferracavallo, Sugano e Torre San Severo (erano anche previste diverse scuole materne).

Altre “attrezzature collettive” erano indicate nel piano. Il mercato di piazza del Popolo doveva trasferirsi in un’area, coperta, adiacente alla piazza. Si prevedeva la costruzione di un ospedale comprensoriale, con circa 500 posti letto, in località Palombara, su una altura di fronte al centro storico e ben collegata con le principali vie di comunicazione. Nelle vicinanze del casello autostradale sarebbe dovuto sorgere un autoporto. In un’ampia area dovevano cioè essere realizzati alcuni servizi a vantaggio degli autotrasportatori: depositi e magazzini per le operazioni di carico e scarico, un’officina per le riparazioni, un albergo o un motel. Nella stessa area avrebbero dovuto trovare posto “i depositi dei servizi urbani, delle vetture dei servizi pubblici collettivi (autobus, filobus, camion, automezzi, nettezza urbana)”. Inoltre, poiché l’area, all’ingresso di Porta Romana, utilizzata per la fiera del bestiame era insufficiente e non pianeggiante, il piano prevedeva di destinare per questa fiera un’altra area, adiacente all’allora nuovo mattatoio, presso il bivio per Bagnoregio.

Per quanto riguarda i problemi della viabilità, il professor Piccinato rilevò che “il sistema circolare ai piedi della rupe non può essere considerato indifferenziato nelle funzioni dei suoi vari tratti: occorre che questi vengano qualificati nelle loro diverse funzioni, componendo un sistema organico. Il piano regolatore dà maggiore importanza al tratto sud (provinciale) prossimamente statale, che considera come grande arteria per Viterbo, per innestarla, con una breve deviazione e sottopasso alla ferrovia, nell’Amerina onde collegarla con l’autostrada del Sole e con la nuova Ternana a Baschi. Insomma Orvieto trova i suoi scorrimenti marginali in un nuovo sistema che sposta a Baschi il nodo che oggi impegna il ponte dell’Adunata, in modo da svolgere linearmente il traffico importante lungo la valle a sud di Orvieto”. Il tratto

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nord della Umbro-Casentinese doveva servire principalmente a collegare Orvieto scalo con il centro storico, accedendovi sia da est che da ovest ed, inoltre, a raccogliere e a smistare il traffico diretto alle frazioni, ad Orvieto scalo, a Ciconia e alla zona industriale. Con il sistema di viabilità così organizzato, le strade statali 71 e 79 avrebbero perso la funzione di arterie di grande comunicazione per assumere una funzione quasi locale, in modo tale da consentire tra di esse sorgesse una “nuova espansione urbana” delle dimensioni previste dal piano, cioè Ciconia. La presenza di questa espansione avrebbe consentito la realizzazione, a monte del ponte dell’Adunata, di un altro breve tronco stradale che sovrapassando il Paglia e sottopassando autostrada e ferrovia (i sottopassaggi già esistevano) avrebbe collegato direttamente Ciconia con il centro storico, Sferracavallo, la zona industriale di Fontanelle di Bardano, senza che fosse necessario attraversare Orvieto scalo e il ponte dell’Adunata.

Il professor Piccinato affermò poi che dalla soluzione dei problemi riguardanti i primi quattro elementi fondamentali del piano “discendeva in qualche modo la tematica della sistemazione ed il significato urbanistico stesso dell’antica città”. Le problematiche del centro storico assumevano una dimensione più ampia rispetto al passato, in seguito alla vastità dei rapporti con  il restante territorio e le sue attività, presi in esame nel piano. Secondo Piccinato in precedenza “la città antica dentro le mura era considerata come il solo vero corpo urbano: intorno la proliferazione di una periferia suburbana da esso dipendente e, quindi, incapace di inserirsi in un più vasto quadro…Di qui la sproporzione tra centro urbano e periferia; di qui la ricerca affannosa di nuovi spazi edificatori nell’antica città, di qui l’assalto continuo agli orti interni degli isolati, le sopraelevazioni e gli ampliamenti di vecchi edifici; di qui la pressione della circolazione veicolare e della sosta delle vetture; di qui insomma il tema della diuturna lotta per la conservazione e la qualificazione ambientale, tema che troppo spesso si è risolto con la sconfitta o con il compromesso. Di qui anche la menomazione del paesaggio invaso dalle disordinate iniziative edilizie dei sobborghi, proliferati linearmente lungo le strade anziché essere localizzate e composte urbanisticamente in nuove comunità”.

Il nuovo piano, invece, secondo il professor Piccinato, avrebbe consentito di superare i problemi appena esposti e che caratterizzarono in senso fortemente negativo l’evoluzione urbanistica di Orvieto negli anni precedenti e, relativamente al centro storico, indicava il “risanamento conservativo” quale base dell’attività edilizia. Infatti le norme edilizie, contenute nel piano, se da un lato imponevano “l’intangibilità non solo dei monumenti classificati, ma anche dell’intero ambiente di architettura minore che ad essi fa corona” dall’altro favorivano il risanamento delle abitazioni più degradate (del resto già negli anni precedenti l’Amministrazione Comunale aveva affidato al professor Coppa l’incarico di elaborare un piano di risanamento conservativo). E, secondo Piccinato, il piano di risanamento doveva articolarsi in vari

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interventi, tramite la definizione di specifici piani particolareggiati, a seconda  delle esigenze che si manifestavano nelle diverse parti del centro storico. Piccinato formulò, a tale proposito, alcune proposte ma notò che non era compito del piano interessarsi di “operazioni di dettaglio”, bensì dei piani particolareggiati. Due interventi però erano previsti: la realizzazione di “una strada marginale all’edilizia sul lato del mezzogiorno della rupe” per consentire l’accesso ad un parcheggio non lontano da piazza del Duomo, che avrebbe permesso di liberare questa piazza dalla sosta di autoveicoli, ed il trasferimento, già citato, del mercato di piazza del Popolo in un’area vicina.

Altre norme del piano erano, poi, rivolte ad assicurare la tutela del paesaggio circostante la rupe. Infatti il piano disponeva un vincolo di zona di non costruzione sulle pendici collinari vicine alla rupe, estendendo i limiti già esistenti fino a raggiungere le rive del Paglia, a est, comprendendo la collina che si erge tra il cimitero e il centro storico, a ovest, risalendo oltre la zona dell’Abbadia, a sud. Il piano disponeva il vincolo di zona a “parco privato vincolato” sulle pendici che fiancheggiano la valle dell’Abbadia e su parte della riva sinistra del Paglia.

Piccinato rilevò, però, che la salvaguardia del paesaggio non poteva essere affidata esclusivamente all’imposizione di vincoli. Di qui la necessità che contemporaneamente il piano indicasse con precisione le aree dove indirizzare le varie richieste, soprattutto quelle relative alla realizzazione di nuove abitazioni.

La relazione al piano si conclude con l’individuazione dei tempi di attuazione dei principali interventi previsti. Furono individuate tre fasi.

Nella prima, le opere di competenza dell’Amministrazione Comunale erano lo studio dei piani particolareggiati di Ciconia e di Sferracavallo, la realizzazione dell’edilizia economica e popolare a Ciconia, lo studio di un piano di risanamento pilota relativo al centro storico, la realizzazione delle attrezzature sportive ed il completamento della strada per Benano; le opere di competenza dell’Amministrazione Provinciale erano la progettazione e l’inizio del nuovo ospedale comprensoriale, la progettazione e l’inizio dell’istituto tecnico per geometri; per quanto riguarda le opere di competenza dell’Amministrazione Statale era prevista solo l’attuazione della deviazione della statale 71.

Nella seconda e terza fase erano previste solo opere di competenza dell’Amministrazione Comunale.

Nella seconda, la realizzazione dei piani particolareggiati di Ciconia e di Sferracavallo, la realizzazione del mercato coperto, la sistemazione dell’area di

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servizio adiacente al casello autostradale, la realizzazione del nuovo ponte sul Paglia e lo studio del piano particolareggiato della prima zona industriale.

Nella terza, infine, la realizzazione della zona industriale, la realizzazione dei piani particolareggiati e la realizzazione della strada marginale sulla rupe con relativa sistemazione dei parcheggi.

Il piano redatto dal professor Piccinato fu adottato dal Consiglio comunale, nella seduta del 21 maggio 1966.

L’adozione non avvenne all’unanimità. Vi furono 8 voti contrari, espressi dai gruppi di minoranza, Dc e Pli. Diversi rappresentanti di vari gruppi, soprattutto del gruppo Dc, formularono infatti, nel corso del dibattito, numerose critiche nei confronti del piano Piccinato.

Il professor Stella criticò la scelta di individuare, come principale area di espansione edilizia, la zona di Ciconia ritenuta poco salubre “per l’umidità e la nebbia nell’inverno e il caldo opprimente nell’estate” e propose che un’area di espansione fosse individuata nella zona ricompresa tra la località Le Velette e Ponte del Sole. Criticò anche la proposta di ampliare il divieto assoluto di costruire alle colline vicine alla rupe (veniva considerato eccessivo il divieto ministeriale che già esisteva per quanto riguarda le pendici della rupe).

Il consigliere Bordino, poi, rilevò innanzitutto che, a suo giudizio, le previsioni di incremento della popolazione formulate da Piccinato erano sbagliate, per eccesso. Concordò con le osservazioni al piano presentate dal circolo di iniziativa culturale “Città nuova”, secondo il quale la scelta di Ciconia era da valutare negativamente perché quella zona era separata dal centro storico e dalle frazioni da alcuni ostacoli di notevole entità quale il fiume Paglia, la ferrovia, l’autostrada del Sole. Si riteneva che tale situazione avrebbe comportato in futuro problemi rilevanti e che la costruzione di un secondo ponte sul Paglia si sarebbe rivelata un’opera di difficile attuazione. Secondo Bordino, quindi, indirizzando lo sviluppo edilizio principalmente verso Ciconia, sarebbe stata creata una nuova città, una città satellite, dando vita ad una frattura tra il vecchio e il nuovo. La creazione della nuova città avrebbe ostacolato non favorito il risanamento del centro storico. In alternativa Bordino propose la formazione di più aree di espansione, di dimensioni non molto differenti fra di loro.

Il consigliere Dc criticò anche la scelta di individuare due zone industriali, eccessivamente distanti dal casello autostradale; sarebbe stato preferibile utilizzare un’area di 35 ettari  situata nelle vicinanze del casello autostradale. Sempre a proposito delle zone industriali, fu criticata la proposta di rinviare alla seconda fase di

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attuazione la definizione del piano particolareggiato della prima zona ed alla terza la sua realizzazione (occorreva invece realizzarla prima).

L’avvocato Romoli, sempre della Dc, rilevò che, con la realizzazione di Ciconia, si sarebbe determinato lo spopolamento del centro storico e si sarebbe creata una nuova città con notevoli difficoltà di collegamento con la vecchia.

Anche secondo il professor Carletti, anche lui democristiano, l’incremento della popolazione previsto da Piccinato era eccessivo. Carletti poi dichiarò di essere contrario alla scelta di indirizzare l’espansione edilizia quasi esclusivamente verso Ciconia e Sferracavallo, nonché al divieto assoluto di costruire nelle colline vicine alla rupe. Criticò inoltre il divieto di ogni sopraelevazione che veniva imposto per quanto riguarda la zona A e notò che, per una serie di motivi, sarebbe stato antieconomico costruire o ristrutturare nuove abitazioni in altre aree e pertanto lo sviluppo edilizio si sarebbe naturalmente rivolto verso le zone di Ciconia e di Sferracavallo.

L’avvocato Cinti, liberale, si espresse favorevolmente nei confronti di una riduzione dei vincoli imposti dal piano, soprattutto quello riguardante il divieto di accrescere “gli attuali volumi e le altezze esistenti” che avrebbe, per quanto riguarda il centro storico, reso difficili gli interventi di ristrutturazione.

Il senatore Romolo Tiberi, nel motivare il voto contrario del gruppo Dc, affermò, fra l’altro, che gli appartenenti al suo gruppo non negavano, pur sottolineando l’eccesso delle rigidità previste nel piano, la necessità della tutela del patrimonio artistico, nelle forme indicate dal professor Piccinato. Non venivano condivise “le linee generali dello sviluppo e delle prospettive”, con riferimento soprattutto all’eccessiva importanza attribuita a Ciconia come zona di espansione edilizia.

Diversi furono anche i rappresentanti dei gruppi di maggioranza che intervennero nel dibattito.

L’assessore Cortoni, del Psi, difese la scelta di individuare Ciconia come principale zona di espansione, rilevando che già spontaneamente un certo numero di abitazioni era stato costruito in quella località, che lo sviluppo edilizio non poteva più essere indirizzato a Orvieto scalo, come indicato nel piano Bonelli, in seguito al verificarsi di fatti nuovi quali la realizzazione dell’autostrada del Sole e che, in conseguenza delle nuove infrastrutture stradali previste, non si sarebbe verificata una frattura tra Ciconia e il centro storico. Cortoni poi affermò che non sarebbe stato possibile realizzare la zona industriale nelle vicinanze del casello autostradale perché l’area interessata era soggetta ad alluvioni derivanti dallo straripamento del Paglia.

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Una notazione: ma se si riconosceva fin da allora che la zona appena citata era soggetta ad alluvioni, perché si realizzò comunque una relativamente piccola area destinata soprattutto ad attività commerciali e dove oggi è stata localizzata la nuova sede del supermercato della Coop? Se si considera quello che si è verificato alcuni anni or sono, l’alluvione che provocò notevoli danni, per fortuna solo alle “cose”, sarebbe stato necessario che la consapevolezza dei rischi di alluvione, che contraddistinguevano quell’area, avrebbe dovuto, successivamente, impedire la realizzazione di quanto fu invece costruito. Quindi si può concludere che i danni connessi all’alluvione di alcuni anni or sono potevano essere evitati, in considerazione appunto della consapevolezza dei rischi che lì esistevano, consapevolezza che già si era manifestata alla metà degli anni ’60.

Anche l’assessore Ottavio Rossi, del Pci, rilevò che la scelta di Ciconia e di Sferracavallo come aree di espansione edilizia era, in parte, conseguenza degli orientamenti già da tempo manifestati dai cittadini.

Altra notazione: ma che argomentazione è sostenere che viene scelta una zona di espansione edilizia piuttosto che un’altra soprattutto perché alcuni cittadini già l’hanno scelta per costruirvi abitazioni? Anche allora, il Pci e il Psi non erano dei partiti che, ad Orvieto come altrove, consideravano importante la programmazione urbanistica per individuare gli interventi migliori da realizzare per soddisfare l’interesse generale, e che invece non ritenevano che dovessero essere seguiti pedissequamente gli orientamenti spontanei di singoli cittadini, di singole imprese e di singoli proprietari dei terreni?

Il consigliere Trequattrini, del  Psiup, aggiunse che, diversamente da quanto sostenuto dalle minoranze, il piano avrebbe favorito e non ostacolato gli interventi di risanamento.

L’assessore Giulietti, del Psiup, fece notare come fosse inevitabile che lo sviluppo edilizio di Orvieto avvenisse fuori dalla rupe, non essendo più possibile che tale sviluppo si realizzasse nel centro storico, se si intendeva effettivamente operare per la sua salvaguardia.

L’assessore all’urbanistica Leccese, del Psi, affermò che, in sostanza, tutte le critiche rivolte al piano tendevano ad ottenere una riduzione dei vincoli in esso contenuti e, secondo Leccese, quei vincoli erano indispensabili. Inoltre affermò che la distanza tra il casello autostradale e le zone industriali indicate nel piano non era eccessiva e ciò veniva dimostrato dal fatto che alcuni operatori economici avevano già realizzato alcuni piccoli insediamenti produttivi in un’area presso il bivio per Allerona, che era ancora più lontana dal casello rispetto a Fontanelle di Bardano.

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Il sindaco Torroni, del Pci, dopo essere intervenuto all’inizio del dibattito esponendo le linee generali seguite nell’elaborazione del piano, intervenne di nuovo ribadendo la necessità di conservare il centro storico, senza farne un museo però, obiettivo che poteva essere conseguito solo se fossero state individuate aree di espansione edilizia all’esterno della rupe (non solamente a Ciconia ma anche Sferracavallo e a Buon Viaggio).

L’onorevole Guidi, nel corso della dichiarazione di voto a favore dell’adozione del piano effettuata in rappresentanza del gruppo del Pci, affermò di pensare che dietro all’opposizione  dei gruppi di minoranza nei confronti del piano vi fosse anche l’opposizione nei riguardi del piano regionale di sviluppo economico e sostenne esplicitamente che le prospettive di Orvieto erano legate alle sorti dell’economia agricola dalla quale traevano origine tanti altri problemi. Il nuovo piano, inoltre, veniva considerato come possibile elemento propulsore dello sviluppo cittadino.

Quindi l’onorevole Guidi introduce un argomento essenziale quando si discute di quali decisioni in campo urbanistico devono essere prese: che cosa c’è dietro?

Però altri interrogativi a questo punto possono sorgere: dietro le scelte dei partiti di maggioranza e dietro l’opposizione dei partiti di minoranza c’era solo un modo diverso di considerare l’interesse generale o c’era anche la volontà di tutelare interessi precisi di singoli o di gruppi, di singole imprese, di singoli proprietari di terreni?

Come già rilevato all’inizio non è tra i fini di questo studio approfondire tali problematiche, per vari motivi, ma l’importanza di questi interrogativi rimane e sarebbero molto utili, da un punto di vista storico ormai, ulteriori e successive ricerche - perché no anche tesi di laurea - che fossero indirizzate a fornire delle risposte a tali interrogativi.

Nella seduta del 24 giugno 1967, il Consiglio comunale prese in esame le osservazioni presentate da parte di singoli cittadini e di enti nei confronti del piano redatto dal professor Piccinato.

I rappresentanti dei gruppi di minoranza (Dc, Pli e anche Psi che da pochi giorni era uscito dalla maggioranza) non parteciparono né alla discussione né al voto perché avrebbero voluto che fosse rinviato l’esame di quelle osservazioni per avere più tempo a disposizione per valutare le proposte della Giunta comunale.

Curioso il comportamento del Psi che, in precedenza, quando faceva parte della maggioranza, fu coinvolto in modo diretto nell’elaborazione del piano. Infatti

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l’assessore all’urbanistica era socialista come lo stesso redattore del piano, il professor Piccinato, lo era.

Il Consiglio comunale, comunque, con la partecipazione al voto dei soli consiglieri dei gruppi di maggioranza (Pci e Psiup), accolse solo la metà delle osservazioni presentate, approvando le modifiche al piano che risultava quindi, a loro giudizio, necessario approvare (furono accolte 47 delle 96 osservazioni presentate). Fra le altre furono respinte quelle presentate da Luigi Muzi, dall’Unione agricoltori, dal partito liberale, da Sergio Ercini e da altri, dal circolo “Città nuova”, perché ritenute in contrasto con l’impostazione generale del piano.

Nella seduta del 14 aprile 1969 il Consiglio comunale esaminò le modifiche e le integrazioni al piano che il Consiglio superiore del ministero dei Lavori Pubblici propose, nella riunione del 27 marzo 1968, e che furono recepite dalla direzione generale dell’Urbanistica del ministero, con la nota n. 4849 del 12 dicembre 1968. Fra l’altro il Consiglio superiore del ministero propose di respingere, diversamente da quanto fece il Consiglio comunale nella seduta del 24 giugno 1967, la quasi totalità delle osservazioni presentate, tranne tre che furono invece considerate meritevoli di essere accolte.

La Giunta comunale propose al Consiglio di accogliere nuovamente gran parte delle osservazioni presentate, soprattutto quelle che riguardavano “l’ampliamento naturale di insediamenti residenziali, in zone adiacenti a quelle previste dal piano, che erano sature fin dall’origine e che allora, se accolte, potevano essere subito introdotte nel piano con il decreto presidenziale di approvazione. Esse riguardavano particolarmente tre zone di sviluppo - Sferracavallo, Canale e Torre San Severo -, nonché gli insediamenti relativi alle zone a monte delle località Mossa del Palio, zona Villanova, zona La Svolta, zona a valle di Rocca Ripesena, zona Morrano e zona artigianale”.

La Giunta propose inoltre di approvare di nuovo parte delle modifiche apportate alle norme tecniche di attuazione del piano, e non accolte dal Consiglio superiore, “in modo da rendere meno gravose alcune limitazioni e previsioni, che evidentemente erano sfuggite allo stesso progettista del piano”. La principale di quelle modifiche concerneva la possibilità che nei centri frazionali fossero consentite “le variazioni di volume dei fabbricati esistenti sotto il profilo di miglioramenti estetici, igienici e funzionali degli stessi” (in origine il piano imponeva quel vincolo non solo al centro storico ma anche alle frazioni).

Il Consiglio comunale approvò, all’unanimità, con l’astensione di due consiglieri - i rappresentanti del gruppo socialista - le controdeduzioni al parere del Consiglio

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superiore del ministero dei Lavori Pubblici, proposte dalla Giunta (votarono a favore quindi anche i consiglieri dei gruppi Dc e Pli).

Intervennero nel dibattito che precedette il voto i consiglieri Bordino e Cortoni e l’assessore Rossi.

Bordino si chiese perché, in considerazione del fatto che molte delle controdeduzioni proposte nella riunione del Consiglio comunale dell’aprile 1969 recepivano gran parte delle critiche al piano formulate dal gruppo Dc in sede di sua prima approvazione nel maggio del 1966, non si volle allora (nel 1966 cioè) “dare ascolto alla voce dell’opposizione” e perché “l’Amministrazione Comunale ha fatto l’errore di accogliere a scatola chiusa un piano regolatore soltanto perché era stato firmato da un illustre studioso della materia che, però, aveva assai poco studiato la complessa realtà di Orvieto” - come dire un attacco ai “professoroni” quello di Bordino…-. Bordino aggiunse che, nelle controdeduzioni, si riconosceva la necessità di completare Sferracavallo, accogliendo in pratica quanto sostenuto dal gruppo Dc nel 1966 circa l’opportunità di promuovere uno sviluppo policentrico, puntando cioè a espandere contemporaneamente Sferracavallo, la Gabelletta e Ciconia.

Cortoni fece notare che, all’inizio del dibattito che si sviluppò in città sui contenuti del piano, l’atteggiamento della Dc non fu di collaborazione, tutt’altro, e ci si limitò ad un’opposizione di principio e non ad un’opposizione costruttiva (Cortoni citò come esempio una mostra fotografica del circolo “Città nuova”, ritenuto emanazione di Bordino, in cui fu esposta anche una fotografia del professor Piccinato in divisa da fascista). Cortoni poi, riferendosi al precedente intervento del consigliere Bordino, rilevò che, come nel 1966, il rappresentante del gruppo Dc affermò che il piano regolatore era completamente sbagliato, senza però precisare i contenuti di un eventuale piano alternativo. Cortoni aggiunse che, nella seduta del Consiglio nella quale furono esaminate le osservazioni al piano, i socialisti uscirono dall’aula perché ritennero che con l’accoglimento di alcune osservazioni non si chiedesse altro che il consenso per poter concedere o non concedere delle “licenze” edilizie (è evidente che Cortoni intendeva sostenere che alcune osservazioni accolte tendevano solo a soddisfare interessi di singoli). Cortoni concluse affermando che condivideva solo parte delle controdeduzioni presentate dalla Giunta e, fra l’altro, si espresse a favore del mantenimento del divieto delle sopraelevazioni anche nelle frazioni.

L’assessore Rossi precisò che il piano prevedeva un’area di 145 ettari in cui si poteva edificare, non determinando perciò alcun blocco dello sviluppo edilizio (dal 1966 al 1969 furono rilasciate 336 “licenze” edilizie). Criticò inoltre le minoranze, che pur valutando in modo fortemente negativo i contenuti del piano non avevano indicato concretamente quale strumento urbanistico alternativo avrebbero voluto. Rossi poi affermò che non corrispondeva a verità l’opinione secondo la quale parte delle

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osservazioni presentate tendessero a salvaguardare interessi personali e a coprire quindi delle speculazioni edilizie. Invece, a suo avviso, “nell’iter amministrativo del piano regolatore si è seguita la vita democratica accogliendo l’apporto di tutti i cittadini che hanno inteso proporre osservazioni”. Infine Rossi sostenne, per controbattere alle critiche che nuovamente erano state rivolte all’impostazione generale del piano, che “non esistevano altre alternative in quanto non era possibile costruire grattacieli in Orvieto, non era possibile consentire le costruzioni nella fascia sotto la rupe, non era possibile consentire le costruzioni in località Abbadia. Ed il piano regolatore ha tenuto presente tali realtà”.

Infine occorre notare che il piano regolatore, redatto dal professor Piccinato, fu approvato definitivamente dal ministero dei Lavori Pubblici solo nel 1971.

Mi sembra evidente che il piano Piccinato ha assunto un’importanza fondamentale per l’allora futuro di Orvieto e per il suo attuale presente. Principalmente perché con quel piano fu presa la decisione di puntare come zona di espansione edilizia soprattutto su Ciconia, in cui oggi abitano 5.000 persone, mentre solo alcune centinaia in più sono residenti nel centro storico (mentre 50 anni or sono erano quasi 10.000).

A questo punto alcune considerazioni mi sembrano necessarie.

Proprio facendo riferimento all’ultimo intervento dell’assessore Ottavio Rossi, era proprio vero che non ci fossero alternative? Era vero che non ci fossero alternative a Ciconia come zona di espansione principale? E, soprattutto, non era possibile in alternativa prevedere più zone di espansione delle stesse dimensioni invece della decisione di realizzare una zona, localizzata a Ciconia, decisamente più estesa delle altre? Fra l’altro nel dibattito che si sviluppò in occasione dell’adozione del piano furono evidenziate alcune possibili alternative. Quali furono i motivi, quelli veri, che impedirono il loro accoglimento? O meglio erano realmente validi i motivi addotti, da quanti in Consiglio comunale hanno sostenuto il piano Piccinato, per giustificare la scelta di prevedere, di fatto, come principale e quasi unica zona di espansione, appunto Ciconia?

Ulteriore considerazione: anche nel caso del piano Piccinato, come, per la verità, per molti altri piani urbanistici, relativi a molte altre città, si pensava prima ai luoghi dove costruire e solo dopo alle infrastrutture viarie da realizzare affinchè non ci fossero eccessivi problemi di viabilità. E, di nuovo, ritorna ad essere presa in considerazione la scelta di Ciconia. C’era sì la consapevolezza che l’assetto viario dovesse essere modificato in seguito alla forte crescita demografica che ci sarebbe stata in quella località, ma non si valutò quanto fosse possibile e in quali tempi cambiare, come indicato, quell’assetto viario. E forse sarebbe stato meglio prevedere

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la più importante zona di espansione edilizia in un’area dove sarebbero stati necessari cambiamenti nell’assetto viario di minore entità o prevedere più zone di espansione di dimensioni pressocchè uguali. Un solo esempio, il piano Piccinato prevedeva la costruzione di un secondo ponte sul fiume Paglia:  ancora oggi non è stato realizzato, 50 anni dopo, anche se verrà costruito, finalmente, entro breve tempo.

Altra considerazione: ancora una volta furono formulate previsioni demografiche, alla base della determinazione del fabbisogno edilizio, che si sono rivelate totalmente sbagliate, anche perché si ipotizzava un incremento della popolazione molto consistente. Non è stata la prima volta che questo è avvenuto ad Orvieto, in relazione alle decisioni di natura urbanistica, e ciò si è verificato in molte altre città. Sorge un dubbio, chi ha formulato quelle previsioni demografiche forse era consapevole che non si sarebbero affatto realizzate e nonostante questo, per  giustificare un elevato fabbisogno edilizio, ha continuato a prenderle in considerazione?

Ultima considerazione per ora, o meglio una domanda: perché in fase di approvazione del piano Piccinato le posizioni espresse dai rappresentanti del gruppo Dc si modificarono, si ammorbidirono, dal momento che le modifiche apportate al piano Piccinato, nel suo iter di approvazione, non furono sostanziali, rimanendo infatti le stesse le caratteristiche principali del piano?

Poiché il piano Piccinato fu, oggettivamente, fondamentale per Orvieto, considerando che Piccinato elaborò anche un piano urbanistico per Roma, ho ritenuto opportuno riportare un articolo di Giuseppe Pullara, pubblicato nelle pagine romane de “Il Corriere della Sera”, l’8 settembre del 2013, in occasione del trentesimo anno dalla morte di Piccinato. Nell’articolo sono contenute anche parte delle critiche che furono rivolte a Piccinato al piano realizzato per Roma come sono contenute parte delle valutazioni positive relativo allo stesso.

L'originale e le infinite varianti del “piano Piccinato”

E’ stata dura per me - dice Giorgio Piccinato, 77 anni, urbanista, docente a Roma Tre - appena laureato lavoravo a studio da zio Luigi a piazza Jacini. Lui giocava un ruolo da divo, aveva sempre una risposta a tutto. Era un tipo gioviale, dalla battuta facile”. In famiglia si ricordano in questi giorni i trent'anni dalla scomparsa del più celebre dei congiunti: Luigi Piccinato, uno degli urbanisti più importanti del secondo dopoguerra, soprattutto il capofila degli autori del Piano regolatore di Roma del 1962, il primo dopo quello fascista del 1931.

All'inizio degli anni Cinquanta il Comune mise mano ad un nuovo progetto di sviluppo della città: anni ruggenti, demografia impazzita (+50/60.000 abitanti

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all'anno!) ed enormi speculazioni. Nel ‘57 un Comitato tecnico (con Piccinato) presentò una proposta che fu malamente trasformata dalla giunta democristiana e che venne in parte ripristinata da una speciale commissione di cinque saggi di nomina ministeriale (guidata da Piccinato, con Vincenzo Passarelli, Michele Valori, Piero Maria Lugli, Mario Fiorentino).

Il Piano fu infine adottato nel 1962 e approvato dal Quirinale tre anni dopo.

Dieci anni fa è stato sostituito dal Prg firmato Veltroni.

Il “Piano Piccinato” ha operato per quarant'anni, infarcito di “varianti” e correzioni di ogni genere. A lui si deve grosso modo l'aspetto attuale della città, nel (poco) bene e nel (tanto) male.

Il Piano successivo in buona parte ha sviluppato anche se corretto le linee già stabilite lasciando ufficialmente aperta ogni possibilità di trasformazione urbana con gli “accordi di programma”, le “varianti” e soprattutto la logica che sostiene l'intero progetto: “Pianificar facendo”.

Nato a sinistra, l'attuale Prg è andato proprio per questo quasi bene anche alla destra di Alemanno.

Il Piano regolatore di Piccinato, pur essendo considerato dal suo co-autore “flessibile”, ossia vivo e adattabile alle circostanze che via via si sarebbero presentate, è in sostanza l'ultimo Piano “rigido”, che fissa nei dettagli (coloratissimi sulle mappe) tutte le funzioni che il territorio dovrà assumere.

Un Piano che parte dall'idea che il Comune deve decidere dove e come va la città (un'idea cara a Luigi, socialista militante) non lasciando i suoi 150.000 ettari a se stessi e alla speculazione.

Con tutti i suoi difetti, il Prg del ’62 è stata l'ultima occasione in cui Roma ha avuto un progetto strategico fortemente caratterizzato da idee perfino grandiose. Dopo, gli ideali urbanistici sembrano essere calati nell'ordinario mondo della realtà.

“La tutela del centro storico comincia dalla periferia” diceva Piccinato. E così nacque l'idea di un asse attrezzato da piazzare tra Est e Sud per portare il direzionale fuori dal centro, liberando la parte più prestigiosa della città.

Un progetto basato sul trasporto su gomma e non sul ferro (metrò), cosa che ancora pesa su Roma.

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L'espansione urbana doveva avvenire con nuovi quartieri autosufficienti (restati scollegati tra loro e col centro) in grado di soddisfare un incremento di popolazione fino a 5 milioni (un errore, ma la previsione serviva per garantire lo sviluppo incontrollato del territorio).

Il verde pubblico sarebbe stato abbondante e pianificato.

Tutto il tema delle immense periferie, che sarebbe esploso nei primi anni di attuazione del Piano, fu trascurato.

Scrive Italo Insolera (Roma moderna, ed. ‘93, pag. 263): “Non è dato vedere una politica delle periferie intesa come rottura della tradizionale indifferenza dei Prg romani verso quelle zone della città dove, nelle baracche, nelle borgate, negli alveari di cemento armato si accumulano da cento anni energie umiliate e frustrate, vane speranze di uomini a cui non è stato dato di partecipare all'evoluzione di quella civile comunità di persone che dovrebbe essere una città”.

Il Piano di Piccinato negava l'“urbanistica contrattata” venuta poi, anche se “teneva conto con intelligenza delle forze in campo” come annota il nipote Giorgio.

Tentò di coniugare spinte conservatrici con propositi riformisti.

Scelse lo sviluppo direzionale a Est con un aeroporto internazionale nell'estremo Ovest negando (forse perché d'ispirazione fascista) l'opzione “a mare” che si è realizzata fuori controllo in seguito.

Nonostante il Piano, il “sacco di Roma” denunciato anni prima da Aldo Natoli in consiglio comunale, procedette inesorabile.

“Noi urbanisti - commenta amaro Giorgio Piccinato - abbiamo il compito di capire come funziona una città. Come vanno poi le cose dipende dai tanti protagonisti in campo: politici, amministratori, categorie, forze sociali, finanza, cittadini”.



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La variante (o piano) Benevolo-Satolli

Come precisò il sindaco professor Giulietti nel suo intervento introduttivo, nella seduta del Consiglio comunale del 17 gennaio 1977, si manifestò la necessità di realizzare una variante al piano Piccinato in seguito ai mutamenti intervenuti ad Orvieto dopo l’approvazione di quel piano, sia relativamente alla situazione economica sia a quella sociale e culturale.

I più importanti mutamenti, a cui fece esplicito riferimento Giulietti, erano i seguenti:

la diminuzione della popolazione;

l’impoverimento dell’agricoltura con il conseguente abbandono delle campagne da parte dei contadini;

l’incremento dei flussi turistici legato all’apertura del casello dell’autostrada del Sole;

l’elevazione culturale della popolazione;

l’interesse nazionale e mondiale per la sistemazione urbanistica di Orvieto;

una nuova legislazione statale e regionale, il piano decennale per la casa, la legge sul regime dei suoli;

la presa di coscienza della comunità orvietana per “sbloccare” il centro storico.

Giulietti aggiunse poi che nella redazione della variante furono compiute alcune scelte fondamentali:

il recupero e la valorizzazione del centro storico;

il riequilibrio tra edilizia privata ed edilizia pubblica;

un sufficiente sviluppo delle frazioni;

la tutela del territorio dal punto di vista ecologico e paesaggistico legata allo sviluppo dell’agricoltura.

La variante al piano Piccinato, realizzata nel 1976, fu redatta dall’architetto Satolli, allora direttore dell’ufficio urbanistico speciale del Comune di Orvieto, con la


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consulenza del professor Leonardo Benevolo e con l’utilizzo dei dati statistici raccolti dall’Is.so.co.

L’architetto Satolli, orvietano, è ben conosciuto nella nostra città. Dopo quell’incarico presso il Comune, è stato per diversi anni docente presso l’istituto d’arte locale, si è occupato della progettazione di vari interventi di ristrutturazione del patrimonio storico ed artistico di Orvieto, ha scritto numerosi libri sulla storia della nostra città e, negli ultimi anni, sulla storia della ceramica artistica orvietana.

Chi è invece Leonardo Benevolo?

Anche in questo caso ho ritenuto opportuno, per la sua biografia, di fare riferimento alla voce a lui dedicata da Wikipedia.

“Leonardo Benevolo (Orta San Giulio, 25 settembre 1923) è un architetto, urbanista e storico dell’architettura. Ha studiato architettura all’università di Roma, dove si è laureato nel 1946. Successivamente ha insegnato storia dell'architettura dapprima nello stesso Ateneo, e poi alle università di Firenze, Venezia e di Palermo. Per le sue prime, geniali intuizioni (rivoluzionarie per la cultura di quegli anni), in particolare sulla differenza fondamentale fra architettura romana e architettura greca, gli fu assegnata la cattedra di ‘Storia e stili dell'architettura I e II’ nella facoltà di Roma nel 1956, a soli 33 anni. I suoi scritti, diffusi e tradotti in molti Paesi, gli hanno procurato fama internazionale, sicché lo si può considerare a pieno titolo come uno dei massimi storici viventi dell’architettura e dell’urbanistica. Oltre a tali attività didattiche Leonardo Benevolo ha svolto un'intensa attività professionale, che lo ha portato a progettare e costruire la nuova sede della fiera di Bologna (assieme a Tommaso Giura Longo e Carlo Melograni), il piano regolatore di Ascoli Piceno, il piano del centro storico di Bologna, il piano regolatore di Monza (1993-1997). È stato inoltre membro della commissione incaricata del piano di ricostruzione dell'area completamente devastata nel 1963 dal disastro del Vajont, dovuto alla tracimazione delle acque dell'omonima diga, causa di migliaia di morti e della distruzione totale dei paesi di Longarone, Casso, Erto. Chiamato a Brescia, da Luigi Bazoli (allora assessore all'urbanistica), per redigere la variante generale del piano regolatore, ideerà e progetterà a partire dal 1973 il quartiere di San Polo (la cui realizzazione si protrarrà fino agli anni 1990). Da allora, si è stabilito definitivamente a Brescia, continuando l'attività professionale, specie in urbanistica (piani regolatori di diverse città piemontesi e lombarde). Attualmente opera sia in campo progettuale che teorico, con una ininterrotta produzione di testi. Nel 1981, fino al 1983, viene incaricato dal Comune di Urbino, per redigere una variante al Piano Regolatore, con la progettazione e la realizzazione del quartiere ‘La Piantata’. Durante gli anni ottanta animò il dibattito, accademico e non, sostenendo l'utilità storica, culturale e sociale, dell'abbattimento del Vittoriano (Altare della Patria) di Roma”.

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Quindi, come Piccinato, scegliendo Benevolo fu scelto uno studioso di livello nazionale ed internazionale.

L’autorizzazione per la realizzazione di questa variante fu richiesta dal Consiglio comunale con una delibera del 13 dicembre 1974 e fu concessa dalla Regione dell’Umbria con un decreto dell’11 giugno 1975.

Nella parte iniziale della relazione alla variante Benevolo-Satolli furono analizzate le tendenze della popolazione e del fabbisogno abitativo. Fu innanzitutto rilevato che nel quindicennio 1961-1975 si era verificata una tendenza della popolazione ad una lieve diminuzione (nel 1961 i residenti erano 25.100 e nel 1975 23.400). La causa principale di tale diminuzione fu individuata nel fatto che, in quasi tutti  gli anni considerati, si manifestò un saldo migratorio negativo (inoltre si verificò una tendenza continua alla diminuzione dei nati e all’aumento dei morti, dovuta all’invecchiamento della popolazione a sua volta determinato dai flussi migratori). Si affermò inoltre che le tendenze verificatesi nel movimento naturale della popolazione, molto probabilmente, non si sarebbero modificate nel breve periodo (si sarebbero potute modificare solo se si fosse verificata una consistente immigrazione di popolazione giovane e un arresto dell’emigrazione, eventi questi ritenuti del tutto improbabili). Poi si considerò che sarebbe stata probabile una ripresa dell’emigrazione, perché erano venute meno le cause che determinarono la diminuzione del numero degli emigrati avvenuta nel quinquennio 1971-1975.

In base a queste valutazioni, nella relazione si affermò testualmente che la popolazione in futuro sarebbe rimasta stabile o si sarebbe ridotta. Si fece anche una previsione al 1985 della popolazione secondo la quale i residenti nel comune di Orvieto sarebbero stati circa 22.000 (il dato reale non si discostò di molto da tale previsione).

Quindi, questa volta, una previsione riguardo all’evoluzione demografica nel comune di Orvieto corretta, diversamente da quanto avvenne con quella, totalmente sbagliata, alla base del piano Piccinato.

Si pervenne quindi ad un prima conclusione: “non essendo il territorio comunale di Orvieto zona di espansione demografica non c’è problema di soddisfazione di un fabbisogno ulteriore rispetto a quella attualmente esistente, ma c’è solo il problema di soddisfare il fabbisogno esistente”.

Un bel cambiamento rispetto all’impostazione del piano Piccinato!

Successivamente si procedette a calcolare il fabbisogno abitativo arretrato.

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Furono presi in esame i nuclei familiari residenti in abitazioni nelle quali il numero dei vani era inferiore al numero degli abitanti. L’ammontare complessivo del fabbisogno arretrato si ottenne sommando gli abitanti in eccesso rispetto al numero dei vani (nel 1961 quel fabbisogno era pari a 6.032 vani e nel 1971 scese a 3.081 con un diminuzione pari al 49% determinata soprattutto dalla costruzione di nuove abitazioni, essendosi ridotta la popolazione nello stesso periodo solo del 7,4%). Pertanto si era verificata non solo una tendenza alla riduzione della popolazione ma anche una tendenza alla riduzione del fabbisogno, molto più consistente della prima.

Il territorio comunale poi fu suddiviso in tre parti, per tenere conto delle differenze nell’andamento della popolazione e nelle variazioni del fabbisogno.

Le tre parti erano:

il centro storico;

la periferia urbanizzata  o in via di urbanizzazione;

la periferia agricola (le principali frazioni considerate appartenenti  alla periferia agricola erano Benano, Canale, Corbara, Morrano, Rocca Ripesena, S.Egidio, Sugano, Titignano, Torre San Severo e Prodo).

Le tre zone erano effettivamente caratterizzate da diversità significative. Pertanto avrebbero richiesto “un intervento con strumenti urbanistici differenziati e, almeno per la campagna, coordinato con un intervento di risanamento e di sviluppo economico”.

Nel decennio 1961-1971, il centro storico (zona 1) fu contraddistinto da una riduzione della popolazione pari al 7,9% e da una riduzione del fabbisogno molto più rilevante, pari al 44,6% (quest’ultima riduzione fu determinata più dalla riduzione della popolazione che da nuove costruzioni). Aumentarono inoltre le stanze non occupate (l’aumento fu pari al 59%) fino a raggiungere, nel 1976, il numero di 636, quasi uguale all’entità del fabbisogno (683 stanze).

Nella periferia urbana (zona 2) si registrò invece un aumento della popolazione pari al 26,5% e una riduzione del fabbisogno abbastanza consistente, pari a 283 stanze (nel 1971 il fabbisogno era pari a 1.101 stanze). Le nuove costruzioni infatti avevano più che compensato il fabbisogno determinato dall’aumento della popolazione. Anche in questa zona, come nelle altre due, aumentò il numero delle stanze vuote, le cui caratteristiche però erano diverse rispetto alle stanze vuote delle altre due zone (in

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queste ultime le stanze vuote riguardavano abitazioni di vecchia costruzione mentre nella seconda zona riguardavano abitazioni di nuova costruzione).

Nella periferia agricola (zona 3) si verificò una diminuzione della popolazione pari al 27,2% della popolazione che provocò anche una notevole diminuzione del fabbisogno, pari a circa il 50%, e un consistente aumento delle stanze vuote, pari al 96%.

Nella relazione si concluse quindi che le differenze tra le tre zone erano piuttosto notevoli (il centro storico e la periferia rurale erano zone di esodo e i nuovi insediamenti abitativi si concentravano nella periferia urbana) e che anche le linee della pianificazione urbanistica dovessero essere diverse.

Nel centro storico occorreva soddisfare il fabbisogno tramite il recupero e la riqualificazione del “vuoto” esistente, nella periferia urbana era necessario soddisfare il fabbisogno arretrato (1.100 stanze) sia con interventi di edilizia pubblica sia con interventi di edilizia privata (questi ultimi relativi a 1.000 stanze circa), nella periferia agricola occorreva infine recuperare e riqualificare il “vuoto” esistente - di entità superiore al fabbisogno - e promuovere interventi a favore dell’agricoltura, quali quelli previsti dal piano di sviluppo della zona dell’Orvietano.

Nella relazione, poi, si passò a definire con più precisione gli interventi da realizzare nelle tre zone.

L’obiettivo principale che doveva essere perseguito nel centro storico era rappresentato dalla necessità di soddisfare il fabbisogno arretrato (pari a 683 vani). Non veniva, pertanto, ipotizzato alcun ulteriore fabbisogno (in sostanza si sosteneva che  la popolazione dovesse stabilizzarsi intorno alle 8.500 unità) - di nuovo occorre ricordarsi che attualmente la popolazione nel centro storico è pari a circa 5.300 residenti -. Una volta soddisfatto il fabbisogno arretrato, se vi fosse stato “un certo margine di cubatura utile”, questo avrebbe dovuto essere utilizzato per servizi pubblici, sia di quartiere che generali, oltre quelli già previsti. Si rilevò inoltre che per realizzare la necessaria “conservazione integrata” del centro storico sarebbe stato indispensabile elaborare un piano particolareggiato, basato su una conoscenza approfondita della “realtà fisica” controllata però continuamente “dall’analisi critica dei fattori economici onnipresenti nella formazione di un tessuto urbano che si sovrappone al tessuto sociale che lo genera. Il piano particolareggiato, senza una valutazione di aspetti economico-sociali come la consistenza della proprietà, la distribuzione del reddito, le abitudini e i comportamenti della gente sia nella forma di vita privata che collettiva, rimarrebbe un’astrazione, specialmente in riferimento al suo obiettivo principale che è quello del restauro sociale, integrale, del centro storico”.

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Il piano particolareggiato si sarebbe dovuto articolare in diversi piani di settore: il P.e.e.p. (piano di edilizia economica e popolare) che doveva riequilibrare “sia la distribuzione della popolazione sia il mercato degli alloggi e i costi degli affitti”, il piano dei contenitori storici che doveva affrontare le problematiche inerenti la quantificazione e la localizzazione dei servizi, il piano del verde, il piano dei trasporti urbani e dei parcheggi-garage extraurbani tendente a limitare il traffico privato all’interno del centro storico (con l’obiettivo finale di pervenire alla sua completa abolizione) e a sviluppare contemporaneamente l’utilizzo dei mezzi pubblici di trasporto, il piano per l’arredo urbano e la “passeggiata archeologica” che avrebbe dovuto comprendere, oltre alla campagna scavi delle necropoli, anche interventi di consolidamento della rupe e la sistemazione a parco delle zone verdi suburbane.

Il piano per l’arredo urbano! Quante volte se ne è parlato ad Orvieto, nel corso degli anni, e non è stato mai realizzato.

Da notare che si fa riferimento ad interventi di consolidamento della rupe prima che si verificassero, alcuni anni dopo, le gravi frane che destarono un grande allarme non solo fra gli orvietani ma anche a livello nazionale ed internazionale, che portarono poi all’approvazione di leggi speciali che consentirono la realizzazione di un programma complessivo di interventi di consolidamento della rupe e di interventi di ristrutturazione del patrimonio storico-artistico presente nel centro storico, che fu denominato Progetto Orvieto.

La zona 2, la periferia urbana, che comprendeva i nuclei immediatamente a valle della rupe e la frazione di Canale nuovo, era considerata “la zona meno squilibrata del territorio comunale dal punto di vista dell’affollamento, ma è sicuramente quella più disorganica dal punto di vista urbanistico”. Il pericolo maggiore per questa zona era rappresentato dalla possibilità che si consolidasse “la sua conformazione di periferia dipendente e perciò informe”. Si faceva riferimento soprattutto ai piccoli nuclei, sorti spontaneamente ai “crocicchi” delle strade, che si svilupparono in misura eccessiva nel dopoguerra, frenati solamente dall’indicazione contenuta nel piano Piccinato, come principale area di espansione, della zona di Ciconia.

Per la periferia urbana si stabilì che il fabbisogno di 1.100 vani dovesse essere completamente soddisfatto dall’intervento pubblico e che questo dovesse essere integrato da un intervento dei privati di poco inferiore (per quest’ultimo intervento cioè fu decisa una limitazione ben precisa). Furono poi individuate le aree utilizzabili dagli interventi pubblici e quelle utilizzabili dai privati, per perseguire gli obiettivi di non aumentare la quantità di aree urbanizzate e di controllare direttamente la crescita di quelle esistenti.

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Fu deciso inoltre di ridurre le lottizzazioni già approvate in base al piano Piccinato perché, altrimenti, sarebbero state superate le previsioni relative al fabbisogno già citate in precedenza, destinando a servizi pubblici i lotti esclusi. Le “esclusioni” riguardarono principalmente le seguenti lottizzazioni: Urbani-Barbini, Soleica, Ciucci, Muzi-Bottai-Perali.

Si propose quindi un ridimensionamento dell’intervento privato, sostanzialmente perché le previsioni contenute nel piano Piccinato furono ritenute eccessive, ma nella relazione si affermò esplicitamente che non si intendeva mortificare “né l’iniziativa privata né le possibilità di lavoro per le imprese private. L’intervento pubblico, infatti, si limita a fornire strumenti operativi (Peep) e ad occuparsi direttamente dell’urbanizzazione delle aree, ma l’esecuzione sarà demandata comunque ad imprese private mentre il mercato dell’edilizia convenzionata potrà avere solo effetti benefici sul costo degli alloggi e sugli affitti”.

Nelle diverse parti della zona 2 il numero dei nuovi vani da costruire era il seguente: Sferracavallo (129 in seguito all’intervento privato e 170 in seguito all’intervento pubblico), Ciconia (596 e 850), Canale nuovo (181 e 80), Gabelletta, Ponte del Sole e Orvieto scalo (rispettivamente 18, 4 e 96 ad opera dell’intervento privato).

Nella periferia rurale (zona 3) non fu possibile determinare il numero di nuove costruzioni necessarie, seguendo gli stessi criteri utilizzati nella zona 2, a causa delle diverse caratteristiche che contraddistinguevano le due zone. Infatti solo teoricamente il fabbisogno della zona 3, che ammontava a 1.297 vani, si sarebbe potuto ampiamente soddisfare con l’utilizzo dei vani vuoti (nel 1971 erano pari a 1.876 unità). Nella realtà notevoli difficoltà avrebbero ostacolato il perseguimento di quell’obiettivo.

Nella zona 3, quindi secondo quanto sostenuto nella relazione, l’intervento pubblico avrebbe dovuto soddisfare, come nelle altre zone, il fabbisogno arretrato mentre all’intervento privato doveva essere lasciato il compito “di rendere equilibrato il rapporto tra interessi generali e particolari ma senza indulgenze per la speculazione più parassitaria”.

Mi sembra opportuno notare che nella relazione a questa variante, diversamente da quanto avvenuto per i due piani urbanistici precedenti, si utilizza esplicitamente il termine “speculazione”, a significare, io credo, che effettivamente esistevano pericoli che si manifestassero attività speculative e che, forse, nel recente passato, si fossero effettivamente manifestate.

La dimensione dell’intervento pubblico fu possibile quantificarlo con precisione (200 vani concentrati nelle due frazioni con minore decremento demografico e

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baricentriche rispetto al territorio comunale e cioè Sugano e Morrano), mentre l’intervento privato si doveva ripartire omogeneamente in tutti i centri e nuclei frazionali.

Un principio di fondo fu stabilito: anche i centri storici di piccole dimensioni dovevano essere salvaguardati e restaurati, avendo la stessa importanza del centro storico della rupe.

Nella seduta del Consiglio comunale del 17 gennaio 1977, al termine della quale fu adottata la variante Benevolo-Satolli, dopo l’intervento introduttivo del sindaco Giulietti, prese la parola l’assessore ai Lavori Pubblici professor Cirinei, socialista, il quale espose le linee generali contenute nella relazione della variante. Cirinei affermò, tra l’altro, che per il centro storico si intendeva ottenere soprattutto “il recupero del patrimonio edilizio ai fini delle abitazioni, dei servizi e delle attività produttive, nonché la salvaguardia dei suoli onde poterli destinare a scopi di sviluppo economico, storico, artistico e culturale”. Dichiarò inoltre che nel centro storico vi erano dalle 250 alle 300 abitazioni vuote ed inabitabili che, con la sollecita redazione dei piani particolareggiati da parte dell’ufficio urbanistico e l’intervento finanziario della Regione, avrebbero risolto il problema del fabbisogno arretrato di abitazioni. Inoltre Cirinei rilevò che nella zona 2, caratterizzata da un incremento della popolazione, il fabbisogno di vani sarebbe stato soddisfatto “in larga parte con l’intervento pubblico e in parte con quello privato” e che nella zona 3 sarebbero state soddisfatte le richieste abitative con la possibilità di realizzare sopraelevazioni e ampliamenti dei fabbricati esistenti”.

Il consigliere Torroni diede poi lettura di un documento approvato dalla commissione consiliare urbanistica. In questo documento si sosteneva che la variante al piano regolatore era meritevole di accoglimento e che però la normativa provvisoria, elaborata in attesa dell’approvazione dei piani particolareggiati, lasciava insoluti alcuni problemi particolari. Pertanto nel documento si chiedeva che l’Amministrazione Comunale si impegnasse a presentare, entro un anno dall’adozione della variante, il piano particolareggiato del centro storico ed i piani settoriali con la relativa normativa, a predisporre contemporaneamente i piani particolareggiati dei centri storici frazionali, a prendere atto, nelle osservazioni che sarebbero state presentate, di quelle osservazioni formulate nel corso degli incontri partecipativi dei cittadini, riguardanti aspetti particolari della normativa e a portare avanti un rapporto di piena collaborazione tra “capitale pubblico e capitale privato” sia per favorire “la difesa e la rivitalizzazione del centro storico sia per garantire una ripresa delle attività agricole nelle campagne” (si sosteneva anche che le zone agricole dovessero essere “difese” dall’opinione secondo la quale queste zone potessero essere utilizzate per “residenze esterne per coloro che nulla hanno a che vedere con lo sviluppo dell’agricoltura”).

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Due brevi notazioni: già da allora si parlava di rivitalizzare il centro storico, segnale del fatto che si riconosceva che la situazione di questa parte del territorio comunale non fosse ottimale, e ancora oggi si parla ripetutamente di rivitalizzare il centro storico, il che dimostra che gli interventi realizzati nel corso degli anni a tal fine non hanno conseguito pienamente l’obiettivo perseguito.

Seconda notazione, ancora alla fine degli anni ’90 si riteneva possibile, e forse anche auspicabile, un rilancio delle attività agricole, non volendo, o facendo finta di non volere, riconoscere che al massimo si potesse ridurre la velocità con la quale, inevitabilmente, il peso del settore agricolo nel comune di Orvieto sarebbe diminuito. E poi non si capisce il vero motivo dell’opposizione a quelle che venivano definite “residenze esterne”, non comprendendo che da quelle poteva trarre giovamento l’economia locale e che potevano anche essere residenze di coloro che intendevano trasferirsi da Roma, pur mantenendo come luogo di lavoro la capitale d’Italia. Per fortuna, tali residenze esterne ebbero comunque un notevole sviluppo nonostante le resistenze manifestate da esponenti della maggioranza.

Il consigliere Carlo Tatta, in rappresentanza del gruppo Dc, fece un intervento molto articolato, quasi una controrelazione alla relazione della variante Benevolo-Satolli, fortemente critico su vari aspetti di questo strumento urbanistico. Tatta iniziò con il rilevare che mentre si adottavano i piani particolareggiati esecutivi redatti dal professor Coppa, i quali prevedevano vari espropri per la realizzazione di parcheggi nel centro storico, contemporaneamente veniva elaborata una variante che si proponeva come obiettivo la chiusura al traffico di questa parte del territorio comunale. Il consigliere Dc continuò affermando testualmente che “un piano regolatore che prevede il blocco del centro storico e delle possibilità di adattamento degli interni, non incoraggia i privati a prendere iniziative atte a rendere abitabili le proprie case mentre l’assenza di zone di espansione nelle frazioni non lascia certo spazio a chi volesse realizzare abitazioni per sé e per gli altri. E poi si nega pressocchè totalmente la possibilità edificatoria nelle campagne, mentre le espansioni previste sono quasi totalmente destinate ai Peep”. I contenuti della variante, poi, furono considerati in evidente contrasto con  quelli del piano Piccinato, che venivano in sostanza vanificati, e con quelli del piano regolatore delle frazioni che fu adottato “dopo non poche polemiche il 29 aprile 1975, pochi giorni prima delle elezioni amministrative e quando già era in corso lo studio della variante al piano regolatore” (venne anche notato però che il piano regolatore delle frazioni non fu mai trasmesso alla Regione).

Le critiche di Tatta si indirizzarono, soprattutto, nei confronti della decisione di ridurre o eliminare parti consistenti di lottizzazioni convenzionate, approvate sia dal Comune che dalla Regione, dove erano state già realizzate o erano in corso di

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realizzazione le opere di urbanizzazione, e di sopprimere anche lotti acquistati da cooperative di lavoratori e di piccoli risparmiatori. Tale decisione, ad avviso di Tatta, avrebbe determinato un ampio contenzioso, che avrebbe potuto riguardare la giustizia amministrativa ed anche quella penale.

Non veniva condivisa da Tatta, in pratica, la scelta di fondo della variante cioè quella di considerare che il solo problema da affrontare fosse quello di soddisfare il fabbisogno abitativo arretrato, scelta che si basava soprattutto su  previsioni sul futuro andamento demografico, ritenute sbagliate.

Veniva poi evidenziata una contraddizione importante: era prevista un’ampia zona industriale tra Fontanelle di Bardano e Ponte Giulio (circa 40 ettari) e ciò era ritenuto in contrasto con le previsioni demografiche utilizzate. Per quanto riguarda il centro storico, Tatta notò che l’impostazione del piano tendeva a ridurre fortemente il ruolo che in futuro questa parte del territorio comunale avrebbe svolto. Infatti rischiava di essere svuotato, di essere terziarizzato, “turisticizzato”, di essere caratterizzato solamente da alcuni monumenti da ammirare mentre invece sarebbe dovuto essere “un insieme urbanistico unitario residenziale da valorizzare, da vitalizzare”. Si riteneva necessario invertire la preoccupante tendenza manifestata dalle giovani coppie, dalle nuove famiglie, di “uscire dalla rupe alla ricerca di migliori condizioni abitative nei quartieri del suburbio e di favorevoli occasioni di lavoro”. Occorreva, secondo Tatta, “arginare la fuga, consentire di costruire senza porre remore artificiose…”. Sempre con riferimento al centro storico, Tatta criticò le decisioni di non prevedere tutti i parcheggi pubblici indicati nel piano particolareggiato di attuazione, redatto dal professor Coppa, e di porsi come obiettivo la totale soppressione del traffico privato “con faraoniche previsioni di opere per costruzione di sottovie, percorsi pedonali, percorsi meccanici di ascesa e terminali con quattro ascensori”.

Altra notazione, già nella variante Benevolo-Satolli si ipotizzavano alcuni interventi che furono poi realizzati, negli anni ’80 e ’90, nell’ambito del cosiddetto progetto di mobilità alternativa.

Tatta aggiunse che anche il gruppo Dc non era favorevole ai parcheggi indiscriminati e che però sarebbe stato necessario mettere a disposizione dei cittadini  “autorimesse e posteggi accessibili e nel più rigoroso rispetto dell’ambiente”. Veniva ugualmente criticata la scelta di considerare “aree di verde isolato come servizio pubblico”, quindi soggette ad esproprio, numerose zone che in parte il piano Coppa prevedeva come “verde privato”, senza che fossero stati evidenziati i criteri utilizzati (sarebbero stati penalizzati secondo Tatta molti cittadini che avevano acquistato un’abitazione con annesso un piccolo giardino). Per quanto riguarda la zona 2, periferia urbanizzata, le critiche si rivolsero soprattutto, come del resto già riferito, nei

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confronti della decisione di procedere alla riduzione di lottizzazioni già approvate. Tale decisione veniva ritenuta non accettabile anche alla luce della scelta, apparentemente contraddittoria, di considerare come zone di completamento 25 lotti di terreno, non ricompresi nelle lottizzazioni convenzionate, localizzati anche in zone non residenziali e in zone non edificabili, secondo le previsioni del piano Piccinato (a giudizio di Tatta quella scelta dipendeva dalla volontà di salvaguardare interessi particolari, di singoli cittadini dello stesso orientamento politico dei gruppi di maggioranza).

Quindi si evidenzia esplicitamente l’ipotesi che con la variante Benevolo-Satolli si salvaguardassero anche interessi particolari, non soddisfacendo in quei casi l’interesse generale. Si tratta di vedere però quante delle critiche rivolte da Tatta alla variante tendessero, anch’esse, a tutelare interessi particolari.

Tatta criticò, poi, il fatto che le zone di espansione fossero state completamente destinate all’edilizia economica e popolare, in quanto riteneva possibile che parte del fabbisogno abitativo venisse soddisfatto dall’iniziativa privata. Per quanto riguarda le zone rurali, Tatta dichiarò che sarebbero state eccessivamente ostacolate le iniziative edilizie, anche quelle connesse allo svolgimento di attività agricole (del resto era considerata troppo ampia l’area classificata come paesistica, pari a circa i 2/3 dell’intero territorio comunale con un indice di edificabilità troppo basso che avrebbe determinato la necessità per i coltivatori con l’intenzione di costruirsi  una casa dignitosa di disporre di almeno 12 ettari di terreno). Infine Tatta criticò l’estensione della rigorosa normativa, prevista per il centro storico situato sulla rupe, ai centri storici frazionali, in quanto questi centri sarebbero stati in questo modo “mummificati”.

Il consigliere Barbabella, poi (esponente del Pci che a partire dal 1980 diventò sindaco gestendo attivamente la variante Benevolo-Satolli), rilevò che negli anni passati Orvieto era stata interessata da un ampio programma di opere pubbliche (la diga di Corbara, l’autostrada del Sole, la Direttissima) che pur determinando effetti positivi (l’incremento dell’occupazione e lo sviluppo del turismo) provocò anche dei problemi quali l’emigrazione e lo spopolamento delle campagne con le conseguenti richieste di nuove abitazioni in alcune frazioni del comune che facilitarono la speculazione edilizia (di nuovo si torna a parlare di speculazione edilizia…). Barbabella aggiunse che il piano Piccinato fu l’espressione della cultura urbanistica degli anni ’60, risentendo di tutti i meriti e di tutti i limiti di quella cultura e che la variante Benevolo-Satolli teneva conto della volontà della Regione di elaborare un programma di sviluppo di medio periodo articolato in piani di settore con dimensione territoriale comprensoriale. Secondo Barbabella, inoltre, la necessità di prevedere, nella variante, vincoli e limitazioni si basava sul principio che “il territorio è un bene che appartiene alla collettività, la cui caratteristica è di essere limitato e

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irriproducibile e che la sua alterazione comporta inevitabilmente perdite non recuperabili”. Barbabella concluse che la variante non avrebbe soffocato l’iniziativa privata perché avrebbe fornito ad essa un quadro di certezze per interventi programmati e che l’intervento pubblico previsto avrebbe svolto sia un ruolo di indirizzo e di controllo ma anche un ruolo più incisivo e diretto per rispondere all’esigenza di recupero del patrimonio esistente e per consentire la costruzione di nuove abitazioni accessibili ai ceti meno abbienti.

L’intervento di Barbabella è particolarmente interessante, soprattutto perché già contiene “in nuce” le linee che successivamente caratterizzeranno la politica urbanistica che, una volta diventato sindaco, portò avanti lo stesso Barbabella, con decisione.

Al di là dei motivi, più o meno corrispondenti alla realtà, addotti da Barbabella, la critica al piano Piccinato è evidente ed è altrettanto evidente che la sua critica è principalmente rivolta al fatto che con il piano Piccinato si consentì l’attuazione di una politica urbanistica che, tranquillamente può essere definita (mutuando il termine anche dalle connotazioni che normalmente possono essere attribuite alla politica economica) fortemente espansiva nel senso che rese possibile la costruzione di un notevole numero di nuove abitazioni.

Inoltre è già presente in  Barbabella la consapevolezza che l’introduzione di vincoli e limitazioni - e probabilmente si riferiva principalmente al centro storico - fosse rivolta alla tutela e alla valorizzazione del territorio, e aggiungo io del patrimonio storico-artistico.

Questi due elementi, già presenti nell’intervento di Barbabella, caratterizzarono la sua politica urbanistica da sindaco. Ho scritto sua, non a caso, perché, da sindaco, Barbabella si occupò molto di urbanistica, nonostante non avesse la delega a questo importante settore dell’amministrazione di ogni comune. Una politica urbanistica, la sua, che potrebbe essere definita restrittiva, che puntava soprattutto alla ristrutturazione degli edifici, ovviamente quasi esclusivamente nel centro storico, e molto poco alla costruzione di nuove abitazioni, senza che in questo caso, peraltro, venissero imposti vincoli poco stringenti.

La sua politica urbanistica fu oggetto sì di apprezzamenti (molto probabilmente rappresentò una delle condizioni necessarie affinchè gran parte degli interventi previsti nel cosiddetto Progetto Orvieto potessero essere realmente attuati) ma anche di forti critiche, soprattutto all’interno del suo stesso partito. Fu accusato, tramite la sua politica urbanistica, di aver imposto a molti orvietani di trasferirsi nel vicino comune di Porano, nel quale invece fu adottata una politica urbanistica fortemente espansiva, dove riuscirono a trovare abitazioni, a un prezzo di acquisto o a un

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canone di affitto, decisamente inferiori a quelli che caratterizzavano il mercato edilizio nel comune di Orvieto, anche nelle principali frazioni quali Ciconia e Sferracavallo.

E furono proprio queste critiche, espresse all’interno del suo stesso partito, il Pci, che determinarono le improvvise dimissioni di Barbabella da sindaco, nel 1987, che non gli consentirono di completare il secondo quinquennio alla guida dell’Amministrazione Comunale, come ci si aspettava?

Intervennero anche, dopo Barbabella, l’indimenticato e indimenticabile professor Ciocchetti, preside del locale Liceo Classico ed esponente del Psdi, per motivare la sua decisione di votare contro l’adozione della variante, e l’altrettanto indimenticato e indimenticabile, per motivi diversi da quelli che valgono per Ciocchetti, consigliere Zambrino, esponente storico del Msi, il quale dichiarò che non avrebbe partecipato al voto in quanto a suo avviso, prima di procedere all’approvazione della variante, sarebbe stato necessario promuovere altri incontri partecipativi con i cittadini. E non fu la prima volta che Zambrino, in completa autonomia, assunse nei confronti della maggioranza, posizioni più “morbide” rispetto a quelle assunte dal gruppo Dc.

E infatti il consigliere Marco Tiberi dichiarò che il voto contrario del gruppo Dc dipendeva da tre motivi principali:

l’ulteriore rinvio dell’elaborazione dei piani particolareggiati per il centro storico;

la scelta di prevedere il Peep (piano di edilizia economica e popolare) solo per le frazioni di Canale, Morrano e Sugano;

la scelta di estendere la rigorosa normativa che si intendeva applicare nel centro storico anche ai centri frazionali indicati come “centri storici”;

l’adozione di alcune decisioni che avrebbero potuto configurarsi anche come violazioni di legge, in netto e ingiustificato contrasto con il piano Piccinato.

Al termine del dibattito, il Consiglio comunale deliberò di adottare la variante Benevolo-Satolli. Espressero voto contrario però i consiglieri dei gruppi Dc e Psdi.

Nella seduta del 26 settembre 1977, il Consiglio comunale esaminò le osservazioni presentate alla variante Satolli.

L’assessore Cirinei illustrò le controdeduzioni alle osservazioni proposte dalla Giunta municipale.

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Il consigliere Tatta espose i contenuti dell’opposizione-ricorso presentata dal gruppo Dc e nel suo intervento ribadì le forti critiche nei confronti della variante Benevolo-Satolli, già peraltro avanzate nella seduta nel corso della quale la variante fu adottata dal Consiglio comunale. Tatta, fra l’altro, definì la variante Benevolo-Satolli un vero e proprio piano regolatore, per sottolineare le profonde modifiche da essa introdotte rispetto a quanto previsto nel piano Piccinato e dichiarò che “il Comune avrebbe dovuto sovradimensionare il piano anche per il fatto che una maggiore disponibilità di aree determinerebbe una logica azione calmieratrice sul mercato delle stesse. Invece con il restrittivo disegno urbanistico che riduce talune lottizzazioni già convenzionate, i prezzi delle aree e quindi degli appartamenti saliranno alle stelle”. Tatta poi rilevò che nell’accoglimento o nel rigetto delle osservazioni presentate non furono sempre seguiti gli stessi criteri, realizzando delle discriminazioni contro alcuni cittadini e dei favoritismi nei confronti di altri.

E’ del tutto evidente, con le ultime due considerazioni, che Tatta accusasse la maggioranza, anche se non esplicitamente, di favorire delle attività speculative, a vantaggio soprattutto dei proprietari di alcune aree, e di tutelare interessi particolari, di alcuni cittadini e non di altri.

E anche piuttosto interessante è l’osservazione di Tatta, secondo la quale la variante Benevolo-Satolli fosse un vero e proprio nuovo piano regolatore.

A me sembra che Tatta, su questo punto, avesse ragione. E allora perché non si decise, fin dall’inizio, di realizzare un nuovo piano urbanistico? Non si volle sconfessare gli amministratori, che non molti anni prima, approvarono il piano Piccinato? Non si volle apertamente ammettere che il piano Piccinato contenesse degli errori e non di lieve entità?

Il consigliere Torroni fece notare che nella commissione consiliare urbanistica si discusse del problema della riduzione delle lottizzazioni e si decise di “fare salvi i diritti acquisiti al fine di non impegnare l’Amministrazione in azioni di contenzioso”.

Il Consiglio comunale, infine, approvò le controdeduzioni alle osservazioni presentate, con 19 voti favorevoli e 5 contrari.

La variante Benevolo-Satolli, nel gennaio del 1979, entrò definitivamente in vigore in seguito all’approvazione da parte della Regione dell’Umbria.


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Il piano Rossi Doria

Il piano redatto dal professor Bernardo Rossi Doria è stato contraddistinto da un iter che ha condotto alla sua approvazione piuttosto lungo e complesso.

Vari sono stati i documenti predisposti da Rossi Doria e gli atti approvati dal Consiglio comunale.

Il primo documento, definito documento preliminare di indirizzo, risale all’estate del 1995, quando assessore all’urbanistica era ancora Maurizio Conticelli, successivamente passato nelle fila dell’opposizione, che votò contro  all’approvazione definitiva del piano urbanistico.

Il piano urbanistico fu adottato dal Consiglio comunale nella seduta del 5 agosto del 1998, quando assessore all’urbanistica era Sergio Cherubini.

Il piano fu approvato dal Consiglio comunale nella seduta del 16 febbraio del 2000, quando assessore era diventato Nazzareno Desideri.

Quindi ben 3 assessori all’urbanistica furono impegnati nel processo di formazione del piano Rossi Doria, anche se il sindaco rimase sempre lo stesso, Stefano Cimicchi.

E proprio il fatto che il processo di formazione e di approvazione del piano risultò essere piuttosto lungo e complesso rappresenta uno dei motivi che hanno determinato la mia scelta di dedicare a questo piano uno spazio maggiore a quello attribuito ai precedenti piani. Fra l’altro nella riunione del Consiglio comunale nella quale fu approvato il piano erano presenti consiglieri i quali non erano tali, perché nel 1999 si svolsero le elezioni comunali che determinarono il rinnovo del Consiglio stesso, quando fu adottato il piano. Quindi ciò causò la più ampia discussione, rispetto ai piani precedenti, per i quali gran parte del dibattito si esaurì in fase di adozione, che si sviluppò in fase di approvazione del piano, e che quindi non potevo che riportare, seppure sinteticamente. Un altro motivo ha determinato la mia scelta: nell’ambito delle discussioni in Consiglio comunale sul piano Rossi Doria ci furono molti riferimenti da parte dei consiglieri sulle caratteristiche dei precedenti piani. Quindi il dibattito che si sviluppò relativamente al piano Rossi Doria fu anche l’occasione per analizzare il complesso dei piani che furono approvati, in precedenza, dal piano Bonelli, al piano Piccinato, alla variante generale Benevolo-Satolli.

Probabilmente l’iter di formazione di questo piano non poteva non essere lungo e complesso. Infatti fu un piano molto atteso e lungamente atteso.

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Io personalmente ricordo che almeno dalla metà degli anni ’80 si è spesso parlato ad Orvieto, per la verità prevalentemente negli ambienti politici e fra i tecnici, della necessità di approvare un nuovo piano regolatore.

Se ne parlava, se ne parlava, ma l’inizio del processo di realizzazione del nuovo piano slittava sempre. A me, ma non credo solo a me, non risultarono mai chiari ed evidenti i motivi che determinarono questo slittamento. Probabilmente non si riusciva a raggiungere un accordo politico sulle linee generali che dovessero caratterizzare il nuovo piano regolatore.

Comunque gli amministratori che si sono succeduti da quando si iniziò a parlare della necessità di approvare un nuovo piano urbanistico non rimasero certo con le mani in mano. Infatti, dall’approvazione della variante generale Benevolo-Satolli al piano Piccinato, che risale alla fine degli anni ’70, all’ approvazione del piano Rossi Doria, furono decise dal Consiglio comunale ben 10 varianti parziali, che incisero considerevolmente sull’assetto urbanistico del comune di Orvieto.

Forse quelle 10 varianti parziali costituirono un nuovo piano, “innominato”, comunque influenzarono notevolmente le scelte urbanistiche e non dell’Amministrazione comunale.

E tali varianti parziali, a mio avviso, incisero notevolmente sulle stesse caratteristiche del piano Rossi Doria, proprio perchè quanto attuato in seguito alle varianti parziali, normalmente, avrebbe dovuto essere contenuto in un piano urbanistico vero e proprio, per la sua rilevanza, e, quindi, i potenziali contenuti del piano Rossi Doria, quando finalmente fu elaborato e approvato, furono in qualche misura ridotti, proprio a causa del fatto che decisioni urbanistiche importanti furono prese con le varianti parziali citate.

Si potrebbe sostenere pertanto che la “montagna abbia partorito un topolino”? Si potrebbe sostenere che le aspettative, quanto meno di una parte di coloro che, nel corso degli anni, hanno rilevato la necessità di un nuovo piano, siano andate in gran parte deluse?

Forse al termine di questo capitolo si potrà rispondere a queste domande.

Un’ulteriore considerazione preliminare, prima di addentrarmi nei principali contenuti del piano Rossi Doria, ed anch’essa rappresentata soprattutto da una domanda: ma perché spesso fu rilevata la necessità, a partire dalla metà degli anni ’80, di approvare un nuovo piano regolatore?

Rispondere a questa domanda non è facile.

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E’ sufficiente notare che quanto realizzato da Benevolo e Satolli fu denominata variante generale al piano Piccinato? Non credo anche perché, al di là della denominazione, quanto elaborato da Benevolo e Satolli fu un vero piano o quanto meno rappresentò un orientamento urbanistico decisamente diverso rispetto a quello prevalente nel piano Piccinato. Del resto Rossi Doria, riferendosi al lavoro di Benevolo e Satolli, parlò sempre di piano.

Il piano Piccinato, oggettivamente, fu l’espressione di una politica urbanistica fortemente espansiva. Una sola osservazione è sufficiente per avvalorare tale tesi. Fu con il piano Piccinato che si decise di realizzare una nuova città, di fatto contrapposta alla città antica, e di farla sorgere a Ciconia.

La variante Benevolo-Satolli è figlia di un orientamento quasi opposto, frutto di una politica urbanistica che non può che essere definita restrittiva, tendente a limitare le nuove espansioni edilizie e tendente a sottoporle a regole, a norme, molto stringenti e vincolanti.

E quanto meno una parte consistente di coloro i quali hanno sostenuto la necessità di approvare un nuovo piano, intendevano, tramite il nuovo piano, contrastare quelle caratteristiche, fortemente restrittive, della variante Benevolo-Satolli e della politica urbanistica che concretamente l’Amministrazione comunale, almeno fino alla metà degli anni ’80, attuò.

Tale politica urbanistica fu sì oggetto di molte valutazioni positive, soprattutto perché consentì la tutela del patrimonio edilizio e di quello storico-artistico della città antica, favorendo di fatto l’attuazione del cosiddetto progetto Orvieto, ma fu anche criticata ampiamente sia perché limitava fortemente la realizzazione di nuove abitazioni in varie parti del territorio comunale sia perché le nuove costruzioni, gli ampliamenti e le ristrutturazioni delle abitazioni esistenti dovevano sottostare all’osservanza di norme considerate troppo rigide e limitative.

Che tali critiche una parte di verità l’avevano è dimostrato, tra l’altro, dal fatto che in quel periodo si assistette ad un flusso migratorio di una certa consistenza da Orvieto verso Porano, che determinò una diminuzione della popolazione nel primo comune e un contemporaneo aumento dei residenti nel secondo, anche perché a Porano si attuò una politica urbanistica opposta a quella attuata nel comune di Orvieto e cioè una politica fortemente espansiva, che consentì fra l’altro la costruzione di un numero abbastanza consistente di nuove abitazioni, a prezzi di vendita decisamente più bassi di quelli che caratterizzavano il mercato immobiliare nel comune di Orvieto.

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Un singolo episodio, a cui assistetti personalmente, è emblematico dell’esistenza di un orientamento piuttosto critico nei confronti della politica urbanistica attuata dall’Amministrazione comunale negli anni ’80, orientamento presente anche all’interno del Pci di Orvieto che, in quegli anni, aveva molti consensi, vicini al 50% dell’elettorato.

Quando, alla fine degli anni ’80, fu sostituito Franco Barbabella, nell’incarico di sindaco, da Adriano Casasole, si tenne, appena dopo la sostituzione, una riunione del direttivo di zona del Pci, un organo che allora contava molto, come contava molto chi assumeva incarichi importanti nell’ambito del Pci di Orvieto, anche nei rapporti con i rappresentanti di questo partito nelle amministrazioni comunali.

In quella riunione, a cui partecipai, la relazione introduttiva fu tenuta da Adriano Casasole, una relazione che conteneva le linee generali che avrebbero dovuto caratterizzare almeno i primi anni dell’amministrazione da lui guidata.

E Casasole, sostenuto dall’allora segretario di zona del Pci Valentino Filippetti, il quale, fortunatamente e giustamente, alcuni anni dopo fu costretto ad abbandonare l'incarico, annunciò la sua intenzione di attuare una politica urbanistica che consentisse alla popolazione del comune di Orvieto di raggiungere i 30.000 residenti (si consideri che allora la popolazione superava di poco le 20.000 unità). A parte l’indicazione dell’obiettivo riguardante la popolazione, per il cui raggiungimento peraltro non era certo sufficiente adottare una politica urbanistica in linea con quell’obiettivo, politica oggettivamente irrealizzabile, emergeva con chiarezza che Casasole fosse favorevole, e con lui una parte consistente del gruppo dirigente del Pci di Orvieto, ad una svolta radicale nella politica urbanistica. Anche, se, io credo, quella sua affermazione fu determinata anche da altri motivi.

Io, peraltro, che ho quasi sempre ammirato Casasole e che ritengo che, complessivamente, la sua attività di amministratore comunale, esplicatasi soprattutto tramite l’incarico di assessore e purtroppo per pochi anni tramite l’incarico di sindaco, sia da giudicare in modo fortemente positivo, valutai negativamente quel suo orientamento in merito alla politica urbanistica, anche se concordavo con la valutazione che la politica urbanistica del Comune di Orvieto negli anni ’80 fosse stata eccessivamente restrittiva.

Ma, a parte le mie valutazioni, il singolo episodio che ho citato rappresenta la dimostrazione che esistesse davvero ad Orvieto in quegli anni una forte critica, più o meno giustificata, nei confronti della politica urbanistica comunale attuata negli anni ’80.

Ed è possibile quindi che tale critica fosse alla base di almeno una parte delle ripetute richieste volte ad evidenziare la necessità di un nuovo piano regolatore per Orvieto.

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A questo punto sarebbe opportuno acquisire delle informazioni su chi è Rossi Doria e su che cosa ha fatto. Per quanto riguarda gli autori dei precedenti piani ho individuato su Wikipedia delle voci a loro dedicate. Bernardo Rossi Doria però non è presente su Wikipedia. Per la verità, forse perché è ancora vivo e vegeto, seppure in pensione come docente universitario, non ho individuato nemmeno in altro modo una biografia piuttosto estesa e soddisfacente. Ho solo potuto acquisire qualche informazione qua e là sulla sua attività.

Bernardo Rossi-Doria è innanzitutto figlio di Manlio, un economista che si occupava di economia e politica agraria, che diventò molto famoso per i suoi studi sul Meridione e fu considerato uno dei “meridionalisti” più importanti del dopoguerra. Bernardo Rossi-Doria ha insegnato urbanistica presso le università di Reggio Calabria e Palermo. Ha scritto numerosi libri tra i quali “L’uomo e l’uso del territorio”, “Palermo verso un nuovo piano”. Si è interessato della programmazione urbanistica di diverse città, tra le quali, Palermo, Messina e Taranto. E’ stato anche segretario generale di Italia Nostra e può essere considerato, anche per questo, molto attento ai problemi ambientali.

E, forse, questa sua caratteristica, l’essere considerato un ambientalista, fu uno dei motivi principali alla base della sua scelta, come autore del nuovo piano. Peraltro non si deve dimenticare che, quando fu scelto Rossi Doria, era assessore all’urbanistica Maurizio Conticelli, anch’egli ritenuto un ambientalista, come dimostrò anche successivamente quando diventò un oppositore delle altre giunte guidate da Stefano Cimicchi, nell’ambito delle quali fu definito, e poi approvato, il nuovo piano urbanistico.

Ora è necessario passare ad esaminare i principali contenuti della relazione al piano Rossi Doria.

E’ bene precisare innanzitutto che, in seguito alla nuova normativa approvata dalla Regione dell’Umbria (la legge urbanistica regionale n. 31 del 29.19.1997), il nuovo piano fu suddiviso in due componenti: il piano strutturale che, in qualche modo, doveva contenere gli interventi generali da realizzare, le linee generali di politica urbanistica da seguire, per un periodo di tempo piuttosto lungo, e il piano operativo, o meglio i piani operativi, che potevano essere elaborati dalle diverse Amministrazioni comunali che si sarebbero succedute a quella che avrebbe approvato lo strutturale, piani che avrebbero dovuto contenere gli interventi da realizzare a breve termine, o meglio nel periodo nel quale avrebbero operato le successive Amministrazioni.

Qui ci si occuperà soprattutto del piano strutturale, e quindi della relazione a questo piano.

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All’inizio della relazione al piano Rossi Doria, dopo aver formulato un breve excursus sulla pianificazione urbanistica precedente, si esamina quanto si è verificato in attuazione del piano vigente, cioè della variante generale Benevolo-Satolli.

Al 1986 erano stati realizzati 279 alloggi in zone Peep, erano stati realizzati interventi di recupero su 49 alloggi nel centro storico e 554 interventi di iniziativa privata su immobili, sempre del centro storico. Tra il 1984 e il 1992 furono approvate 10 varianti di “razionalizzazione di previsioni locali”, le cosiddette varianti parziali, quasi tutte contraddistinte da previsioni di incremento dell’edilizia residenziale, per complessivi 1.743 alloggi. Dopo l’approvazione della variante “Deltafina” (per intenderci quella che determinò la nascita dell’area di espansione edilizia denominata successivamente “Il Borgo”), si legge nella relazione “è in atto una fisiologica e modesta attività edilizia”.

Si rilevò insomma che, dopo che con le 10 varianti parziali si è costruito molto, ci si era fermati un po’, forse in attesa del nuovo piano.

Nella relazione si passò poi ad analizzare la situazione esistente e cioè l’evoluzione demografica, l’uso del territorio, la superficie agricola, l’organizzazione urbana, la situazione abitativa, la dotazione di servizi,  le zone industriali, la situazione alberghiera e i movimenti turistici, le scuole militari e la situazione economico-sociale.

Per quanto concerne l’organizzazione urbana si notò che esistevano 48 nuclei, di cui 4 con più di 1.500 abitanti (nei quali risiedeva il 66,2% della popolazione complessiva), 8 nuclei con più di 100 e meno di 500 abitanti (vi risiedeva il 10,0% della popolazione), 10 con più di 50 e meno di 100 abitanti, 15 con più di 10 e meno di 50 abitanti, 8 con meno di 50 abitanti e, infine, 3.869 case sparse, nelle quali risiedeva il 18,1% della popolazione totale.

Per quanto riguarda la situazione abitativa, fu osservato che al 1991 il 19,1% delle abitazioni, e cioè 1.742, risultava non essere occupata, mentre nel 1981 lo erano soltanto il 15,7%, 1.319. Tra il 1981 e il 1991 quindi si registrò un loro considerevole incremento, sia in termini percentuali che assoluti.

Nel centro storico, tra il 1981 e il 1991, le abitazioni occupate diminuirono, di 271 unità sulle 2.650 iniziali, del 10,2%, mentre quelle non occupate passarono da 280 a 597 con un aumento di 317, pari a oltre il 100%.

E nella relazione si rilevò, a questo punto, che un importante obiettivo del piano Benevolo-Satolli fosse quello di soddisfare parte del fabbisogno abitativo con il

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patrimonio edilizio del centro storico, obiettivo non conseguito, quanto meno pienamente, se si considerano i dati appena esposti.

Anche nell’intero territorio comunale fu riscontrata l’esistenza di un numero cospicuo di stanze non occupate, pari al 18,6% del patrimonio complessivo (in alcuni casi si trattava di situazioni di diffuso abbandono, in altri sussisteva un considerevole patrimonio destinato alle vacanze).

Relativamente alla dotazione di aree per servizi, si riteneva che fosse soddisfatto il fabbisogno di aree per il verde e quello per le scuole, mentre sussisteva una carenza di aree per attrezzature comuni e soprattutto per parcheggi.

Prima di enunciare gli obiettivi generali del piano, si evidenziarono i caratteri specifici del cosiddetto “caso di Orvieto”.

Infatti si può leggere “anche in epoche in cui l’orientamento prevalente era in Italia quello dell’ampliamento oltre misura e senza qualità degli spazi urbanizzati, la vicenda della pianificazione ad Orvieto è caratterizzata da sempre da una spiccata tendenza verso la ricerca di uno sviluppo in senso qualitativo piuttosto che quantitativo. Prima che altrove, ed in tempi meno favorevoli degli attuali, in particolare col piano Satolli- Benevolo, è stata attuata una politica di contenimento dell’urbanizzazione e si è puntato sulla selezione di obiettivi specifici corrispondenti ad effettivi bisogni abitativi. Inoltre, con la elaborazione del progetto Orvieto e la realizzazione delle opere di consolidamento della rupe, l’attuazione di opere atte a governare il sistema della mobilità, e gli interventi di restauro e recupero di contenitori storici, si è puntato a creare le condizioni per un recupero qualitativo del centro storico. Ciò che differenzia il caso di Orvieto da molte altre situazioni è la circostanza di trovarsi di fronte ad un patrimonio di realizzazioni effettive, che in molte altre situazioni non c’è stato. Nel caso in esame c’è dunque di che discutere criticamente e costruttivamente, mentre in molti altri casi in cui si è rimasti allo stato dell’enunciazione ci si trova in una situazione di stallo”.

Tali valutazioni  in gran parte sono condivisibili. Ma una domanda sorge spontanea a questo punto: Rossi Doria lo conosceva davvero il piano Piccinato e ciò che avvenne in sua attuazione? Leggendo quanto appena riportato, sembrerebbe di no…

E quindi gli obiettivi generali del nuovo piano?

In primo luogo, si sostenne che la questione della qualità della vita, fosse centrale e prevalente. E ciò non solo nel centro storico, ma anche nelle grandi frazioni e nei nuclei e nelle località diffuse nel territorio.

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Poi si rilevò che le scelte del piano regolatore dovranno essere di incentivo per uno sviluppo “qualitativamente conforme” ovvero “sostenibile” del territorio orvietano. E condizione necessaria veniva considerata l’esigenza di tutelare l’integrità fisica ed ambientale del territorio. E gli obiettivi specifici da perseguire, a tale proposito, erano: tutela e regolazione del sistema dei corsi d’acqua delle falde e delle sorgenti e delle loro pertinenze territoriali; contenimento e prevenzione dei fenomeni erosivi e di dissesto; tutela e governo dei boschi e delle aree a carattere naturale e naturalistico; tutela e valorizzazione delle aeree agricole e agroturistiche; contenimento e controllo delle nuove urbanizzazioni.

Inoltre si ritenne necessario promuovere prioritariamente la riqualificazione urbana del territorio. Due problemi si dovevano affrontare: da una parte accrescere la qualità della vita nei quartieri decentrati creando spazi ed opportunità maggiori di quelli attuali e dall’altra ricostruire ed agevolare le relazioni con il centro storico.

L’organizzazione multicentrica attuale doveva essere valorizzata in tutte le sue parti: al fine di ricondurla ad unità, con la creazione di un sistema di relazioni efficiente, orientato essenzialmente ad una offerta equivalente, sotto il profilo della qualità e dell’accessibilità, di servizi primari e secondari (in questo senso ci si proponeva di proseguire nella costruzione di una politica di organizzazione della mobilità); al fine di assicurarvi condizioni di vita sostenibili (dovevano essere create le condizioni per ridurre e contenere l’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo, l’inquinamento acustico, lo spreco energetico); al fine di consolidarne e qualificarne la diversità e la riconoscibilità, di fatto l’identità con la definizione di indirizzi di conservazione delle risorse e di incremento delle stesse.

Questi indirizzi dovevano costituire i contenuti generali della scelta della riqualificazione.

Per quanto riguarda gli obiettivi da perseguire relativamente alle diverse principali parti nelle quali poteva essere suddiviso il territorio comunale, furono distinti gli obiettivi riguardanti i piccoli nuclei, quelli per il centro storico e quelli per le frazioni.

Nei piccoli nuclei dovevano essere create le condizioni di equità in termini di qualità della residenza, accesso ai servizi, lavoro, mobilità, relazioni con il centro, per i residenti, insieme a condizioni competitive per l’accoglienza dei potenziali fruitori delle già avviate attività agrituristiche.

Per il centro storico un obiettivo prioritario era rappresentato dal mantenimento di una quota congrua di residenti. Infatti tale obiettivo rimaneva valido anche perché, sebbene con il piano Benevolo Satolli si fosse percepita la necessità di contenere la riduzione del numero dei residenti, tale tendenza era continuata a manifestarsi. E nel

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decennio 1981-1991 le residenze occupate erano diminuite di 271 unità mentre quelle non occupate erano aumentate di 317 unità. Lo sviluppo del centro storico, anche in termini di crescita dei residenti, veniva considerato strettamente legato alla valorizzazione del già consistente patrimonio di beni culturali. E più precisamente veniva individuato come obiettivo del piano regolatore quello di creare le condizioni urbanistiche per potenziare il sistema museale, per potenziare il sistema degli archivi e delle biblioteche, per completare il sistema degli spazi per la cultura e per le attività congressuali, per adeguare il sistema ricettivo-turistico, per riorganizzare ed integrare il sistema educativo locale e per creare le condizioni per la nascita di strutture di ricerca e formazione specialistiche.

Per quanto riguarda le grandi frazioni, si partì dalla constatazione che esse - in primo luogo se non essenzialmente Ciconia e Orvieto scalo - erano separate da una condizione di difficile accessibilità da e per il centro storico, pur essendone in realtà una appendice inseparabile (chissà se gli abitanti di quelle due frazioni erano e sono concordi nel considerarle delle appendici del centro storico…). Ed invece il piano avrebbe dovuto fare in modo che le relazioni con il centro storico fossero considerevolmente sviluppate. Infatti il problema del collegamento fisico tra Ciconia, Orvieto scalo, e Orvieto centro, sebbene impostato con l’avvio del sistema di mobilità alternativa non era stato in realtà risolto. E, considerando soprattutto l’esistenza della barriera rappresentata dal fascio ferroviario e autostradale che separava Ciconia dallo Scalo, lo studio del collegamento tra quelle due realtà territoriali, che ovviamente influenzava il collegamento soprattutto di Ciconia con il centro storico, doveva essere assunto come punto programmatico determinante del nuovo piano regolatore. Tale studio appariva però problematico, perchè le difficoltà nel collegamento fisico tra le due frazioni citate nacquero dalla precisa volontà originaria di localizzare l’insediamento di Ciconia in un luogo separato dalla vecchia città (tale notazione può essere considerata anche come una critica nei confronti di quella volontà?). Problemi di collegamento con il centro storico si riteneva che esistessero anche per la frazione di Sferracavallo, anche se la “cesura” con il centro non aveva in questo caso lo stesso impatto traumatico di quello di Ciconia-Orvieto scalo. La cesura, nel caso di Sferracavallo, era rappresentata dall’ambiente naturale e culturale delle pendici della rupe, che costituiva invece un valore positivo da salvaguardare. Poi fu evidenziata, sempre per le grandi frazioni, l’esistenza di un diffuso problema di degrado ambientale. Pertanto fu ritenuto necessario ridisegnare queste realtà insediative. In questo ambito ci si proponeva innanzitutto di delinearne i confini, modificando la consuetudine di considerare che “la transizione tra urbano e non urbano sia destinata a discariche o sia dismessa dalle attività produttive agricole o dalla condizione di naturalità originaria”. E più precisamente scriveva Rossi Doria “in sostanza invece di voltare le spalle ai campi, al fiume, al bosco, l’abitato dovrà affacciarvisi”(?!).  All’interno degli insediamenti, inoltre, “doveva essere ben definito il rapporto tra

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spazi edificati e non edificati e tra questi ultimi il rapporto tra spazi verdi capaci di assorbire calore e restituire ossigeno e spazi pavimentati, asfaltati”.

Il territorio comunale fu  suddiviso in Atu, ambiti territoriali vasti, di interesse ambientale e paesaggistico. Ne furono individuati sei: i tufi, il monte Peglia, la zona delle Crete, la valle del Paglia, la valle del Tevere verso sud, la valle del Chiani. Furono però indicati anche altri elementi di interesse ambientale e paesaggistico da realizzare: il parco territoriale del Paglia, il parco della Rupe, il parco della Selciata.

Furono individuate anche le aree soggette a prelievo di materiale ghiaioso che in passato erano state abbandonate in stato di degrado senza operazioni di ripristino come sarebbe stato richiesto allora. Si prevedeva comunque di ripristinare tutti gli spazi di cava ivi compresi quelli che erano allora autorizzati e quelli che lo sarebbero stati in futuro.

Per quanto riguarda il sistema di mobilità, con l’obiettivo di ridurre le distanze e favorire l’accessibilità, furono tre le linee di intervento proposte: unificare e consolidare la cosiddetta area centrale di Orvieto e riorganizzare le relazioni tra nuclei esterni e area centrale; eliminare gli ostacoli e le interferenze del sistema di mobilità territoriale sul sistema della mobilità locale  (per questo fu prevista la realizzazione di una strada complanare all’autostrada che consentisse di passare da sud a nord e viceversa senza interferire con la vita urbana di Orvieto scalo e Ciconia diramandosi da una parte  verso la discarica sulla strada statale per Ficulle e dall’altra con un nuovo ponte sul Paglia ed un sottopassaggio attraverso il grande fascio infrastrutturale verso Sferracavallo fino ad innestarsi nella strada per l’aeroporto in modo tale da attraversare tutto il sistema insediativo dell’area centrale e di servire l’area industriale indirizzando il traffico verso nord e verso sud senza interferenze significative e fu indicata una breve bretella di collegamento verso Ciconia dalla direttrice per Ficulle per consentire un’uscita da Ciconia stessa verso la grande rete infrastrutturale - sia verso il Viterbese sia verso l’autostrada e Todi -); creare un sistema di mobilità locale per favorire le relazioni tra le diverse parti del sistema insediativo (si trattava di rafforzare il sistema di trasporti collettivi - già positivamente avviato con il ripristino della funicolare, impropriamente denominata funivia da Rossi Doria, e con la realizzazione del parcheggio dell’ex campo della fiera con l’attivazione delle scale mobili e dell’ascensore -, tramite un suo prolungamento indicato sotto forma di corsie attrezzate e/o preferenziali da trasformarsi eventualmente in linee su ferro  o su gomma a seconda della fattibilità tecnica ed in relazione alla domanda reale di mobilità).

La strada complanare rappresentò oggettivamente l’intervento più importante previsto dal nuovo piano, anche se la sua attuazione, parziale, con il primo stralcio, sarà completata solo tra breve tempo. Peraltro il tracciato indicato fu “bocciato” dalla Regione dell’Umbria, dopo l’adozione del piano da parte del Consiglio comunale e

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ciò determinò il nascere di notevoli polemiche e critiche, in occasione dell’approvazione definitiva del piano stesso, provenienti dai gruppi consiliari di opposizione.

Per quanto riguarda il cosiddetto fabbisogno abitativo (quando si tratta nei piani regolatori di questo argomento si individuano anche e soprattutto le eventuali zone dove consentire nuove costruzioni), si rilevò che il patrimonio edilizio esistente, dal punto di vista quantitativo, corrispondeva alle esigenze della popolazione complessiva anche se, di fatto, tale patrimonio non poteva soddisfare le esigenze di tutte le componenti della popolazione. Soprattutto risultavano insoddisfatti i bisogni della popolazione anziana e di una popolazione dalle capacità economiche deboli. Inoltre sussisteva una domanda tendente a un miglioramento della qualità del patrimonio esistente, in corrispondenza della riduzione della grandezza delle famiglie e del prevalere di nuove abitudini, rispetto a quelle prevalenti in passato. Poi, essendo stata riconosciuta la necessità di favorire un’inversione di tendenza rispetto al decremento demografico con il reinsediamento di nuova popolazione, veniva evidenziata l’opportunità di destinare una parte del patrimonio edilizio come riserva per affrontare l’avverarsi di questa auspicata eventualità. Con il nuovo piano si prese anche atto dell’esistenza di un consistente patrimonio edilizio non occupato e non destinato ad abitazioni per vacanze e della possibilità che una parte di esso potesse essere reimmesso sul mercato abitativo. Tale patrimonio, non essendo immediatamente agibile, doveva essere assoggettato ad opere di riqualificazione e di adeguamento agli standard abitativi contemporanei. Si prevedeva che almeno il 50% di questo patrimonio potesse essere utilizzato.

In applicazione della legislazione regionale il nuovo piano regolatore individuò i 17 ambiti territoriali urbani, in linea di massima corrispondenti, oltre al centro storico, alle frazioni esistenti nel territorio comunale.

Furono poi individuate alcune aree progetto, denominate ambiti “G”,  per le quali furono definiti gli obiettivi del nuovo disegno urbano, anche con indicazioni planimetriche e volumetriche, oltre che i caratteri funzionali e d’uso delle aree interessate. Le aree progetto erano di due tipi: quelle “destinate a riorganizzare spazi urbani posti in posizioni centrali attualmente disorganici con destinazioni funzionali integrate di interesse collettivo e con ridisegno della scena urbana in forma significativa e riconoscibile”; quelle destinate a completare il “disegno di bordo e/o di riconnessione del tessuto extraurbano con il tessuto urbano”.

Furono individuate in particolare tre aree progetto del primo tipo: l’area ricompresa tra il piazzale sovrastante attualmente il parcheggio di via Roma, via Roma e piazza Cahen, l’area nei pressi della stazione ferroviaria, dalla piazza antistante la stazione al grande parcheggio utilizzato soprattutto dai pendolari, la “Porta di Orvieto”, sulla

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strada Amerina nei pressi del casello autostradale (in quest’ultima area dovevano essere realizzate strutture e infrastrutture di accoglienza e di accesso alla città e una parte di essa doveva essere destinata alla realizzazione di uno svincolo destinato a smistare la circolazione automobilistica da una parte verso la complanare e dall’altra verso la città).

Una breve notazione: per ora "Porta di Orvieto" è solo la denominazione del nuovo centro commerciale realizzato da alcuni anni, appunto in una zona vicina al casello autostradale...

E furono individuate due aree progetto del secondo tipo: il parco perimetrale di Sferracavallo e il parco urbano del Paglia (quest’ultimo costituiva la parte urbana del più vasto parco territoriale già citato).

Poi furono classificate come zone omogenee B quelle aree urbane di recente costruzione non ancora “sedimentate” e per alcune parti non completate, nelle quali abitava una parte consistente della popolazione. In queste zone, che erano caratterizzate da un ambiente urbano di modesta qualità, erano previsti interventi di diversa natura volti a migliorare la situazione esistente (al fine ad esempio di provvedere alla manutenzione o alla ristrutturazione del patrimonio edilizio utilizzato anche con integrazioni volumetriche di tipo funzionale, di completare l’edificazione degli spazi a ciò destinati o destinabili e di provvedere al recupero e all’utilizzazione del patrimonio inutilizzato, di integrare con nuove previsioni di ampliamento che si rendessero necessarie per favorire la politica di riqualificazione del patrimonio esistente contigue e di contenuta entità, di definire il perimetro degli insediamenti in modo che sia ben leggibile il confine tra area urbana e area non urbana eliminando quelle tradizionali “aree di bordo” costituite da discariche e da suoli e immobili dismessi che caratterizzano alcune periferie).

Furono anche individuate nuove zone di ampliamento, classificabili come zone omogenee C, per residenze normali e speciali, le prime rappresentate da insediamenti confacenti alla domanda locale da realizzare con iniziativa privata e le seconde rappresentate sia dalle residenze in aree Peep e sia da quelle speciali per anziani.

Furono individuate inoltre le zone omogenee D, distinte in zone per le attività di produzione industriale manifatturiera ed artigianale e in zone per la produzione di servizi commerciali, turistici e direzionali, e le zone F, distinte in zone per servizi territoriali di interesse culturale e sociale e zone per impianti tecnologici e per la mobilità territoriale.

Ed infine furono indicate le zone E, suddivise in zone E1 (zone a carattere prevalentemente agricolo), zone E2 (zone a carattere prevalentemente agroforestale), zone E3 (zone dei fondi agricoli che sono anche in gran parte vincolati dalla legislazione nazionale sul paesaggio), zone E4 (zone degli orti urbani di estensione molto limitata e tendenti a soddisfare una domanda proveniente soprattutto dalla popolazione anziana) e zone E5 (zone in prossimità dei corsi d’acqua che presentano valori naturalistici da preservare).

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Si passò poi ad analizzare il cosiddetto dimensionamento del piano strutturale - quella parte del piano in cui si indica fra l’altro l’ammontare della popolazione insediabile in seguito agli interventi previsti -, dimensionamento che non fu considerato corrispondente ad una effettiva previsione di sviluppo, anche perché si riteneva ormai accertato che le previsioni di lunga scadenza non potessero essere di sicura attendibilità, ma riferito “ad un quadro di assetto territoriale ed ambientale che il piano strutturale considera stabile ed in equilibrio”. E si rimandarono ai piani operativi le decisioni relative alle parti del piano strutturale da attuare dopo aver verificato la tendenza della domanda insediativa in atto e le risorse economiche, pubbliche e private, che si sarebbero rese disponibili. Pertanto il dimensionamento del piano strutturale non costituiva una previsione di sviluppo ma una verifica della capacità massima di accoglimento di popolazione ed attività sul territorio, nell’ambito del patrimonio edilizio ed infrastrutturale esistente e realizzabile. La valutazione della capacità di accoglienza del patrimonio edilizio esistente fu determinata considerando ottimale un indice di 0,7 abitanti per stanza, corrispondente a quello medio esistente nel patrimonio occupato, fatta eccezione per il centro storico per il quale fu adottato un indice di 0,6. Fu preso atto dell’esistenza di un diffuso patrimonio non utilizzato, stimando che il 50% di esso potesse esser recuperato all’abitazione, previo recupero ed eventualmente un incremento di volume mediamente del 15%.

E si arrivò, tutto ciò considerato, a determinare una popolazione insediabile nel territorio comunale pari a 31.528 abitanti, rispetto ai 21.199 censiti nel 1991, con un potenziale incremento di 10.329 abitanti. E si ammise che, in quel modo, il piano risultava dimensionato oltre le reali necessità contingenti.

La relazione al primo piano operativo, la cui approvazione doveva avvenire contestualmente al piano strutturale, come specificato in una nota di indirizzo della Giunta regionale dell’Umbria, in prima attuazione della nuova legge urbanistica regionale del 1997, fu molto più sintetica rispetto alla relazione al piano strutturale.

Inizialmente, nella relazione al piano operativo, furono esposte le funzioni generali di questo piano, tendenti soprattutto alla specificazione delle scelte contenute nel piano strutturale. Tra l’altro nel piano operativo furono delimitate le singole zone già classificate come omogenee in subzone. Furono indicate le zone da sottoporre a recupero. Furono indicati con precisione gli interventi di completamento e di integrazione della viabilità. In particolare si stabilirono le connessioni tra la nuova viabilità derivante dalla variante Anas di Orvieto scalo e il piazzale superiore della stazione ferroviaria, il tracciato della strada complanare e soprattutto delle sue derivazioni (svincolo sulla strada provinciale Amerina, diramazione verso Ficulle, diramazione verso Ciconia).

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Il piano operativo, comunque, comprendeva due parti: una contenente la specificazione delle subzone urbanistiche, la definizione della rete infrastrutturale generale, l’identificazione delle aree da destinare ai servizi generali e di quartiere e una, programmatica, contenente gli interventi da realizzare nei primi quattro anni di applicazione del piano strutturale e gli interventi la cui attuazione era prevista negli anni successivi.

Nel piano operativo poi particolare attenzione fu attribuita alla disciplina degli interventi nel centro storico, per quanto riguarda i quali questa parte del territorio comunale fu  suddivisa in cinque zone: zona A1 - area dell’urbanizzazione preunitaria (la zona dell’urbanizzazione antica in cui fu prescritta la conservazione dell’assetto urbanistico originario e la conservazione ed il restauro degli edifici), zona A2 - complessi edilizi storici a tipologia speciale (a carattere storico monumentale in cui erano compresi edifici a tipologia speciale, con caratteri storico-artistici e monumentali la cui destinazione originaria doveva essere in linea di principio mantenuta e poteva essere variata soltanto per funzioni di interesse collettivo compatibili con la loro conservazione e restauro), zona A3 - urbanizzazione postunitaria (in questa zona fu prescritto il mantenimento dell’assetto urbanistico, dei volumi e delle superfici edilizie, la manutenzione ordinaria e straordinaria, l’adeguamento e la ristrutturazione), zona A4 (gli edifici scolastici e sanitari di cui fu prescritto il mantenimento, la cui destinazione d’uso non era variata, e per i quali nell’eventuale determinazione di nuove funzioni doveva essere attribuita priorità a quelle a carattere culturale e sociale e ad attività ricettive e di servizio al turismo d’arte e congressuale, non essendo ammesse attività commerciali né parcheggi), zona A5 - orti, parchi e giardini storici sui bordi della rupe (gli spazi inedificati localizzati tra l’edilizia di bordo e il dirupo per i quali fu indicato un progetto di conservazione degli assetti storici e di ripristino di orti e giardini).

Nel piano operativo si considerò poi la maggior parte delle aree destinare a residenza dal piano in vigore, quello Benevolo-Satolli cioè, come zone di completamento, assumendo un orientamento atto a favorire il compattamento delle zone anche attraverso un processo di recupero e di ammodernamento del patrimonio edilizio esistente. E si distinsero le zone B in ulteriori sottozone, individuando quelle sature, quelle in cui era ancora possibile realizzare nuova edificazione e quelle relative a lottizzazioni previste dai precedenti piani e programmi.

Per quanto riguarda le zone di produzione furono individuate le zone D1 per le attività produttive artigianali e industriali (fu previsto che le zone già localizzate dal vigente piano a Bardano e a Ponte Giulio fossero riorganizzate, dotate di aree per servizi generali, collegate in modo efficiente con la rete infrastrutturale stradale e ferroviaria e furono indicate delle possibili aree di ampliamento da attivare dopo che la piena riutilizzazione dell’esistente fosse stata verificata), le zone D2 per le attività

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direzionali, commerciali e turistiche (tutte soggette a pianificazione attuativa) le zone D3 per le attività estrattive (fu previsto il ripristino delle aree interessate).

Le zone F furono suddivise in due sottoclassi: le zone F1 (in cui furono ricomprese tutte le attrezzature tecnologiche territoriali come ad esempio gli impianti per la raccolta e il trattamento dei rifiuti, gli impianti per la distribuzione idrica), le zone F2 (in cui furono ricomprese le attrezzature socio-culturali quali scuole, musei, biblioteche, impianti sportivi, attrezzature ricreative, strutture sanitarie).

Per quanto concerne la seconda parte del piano operativo, quella programmatica, furono indicate le zone di nuova urbanizzazione o quelle di intervento complesso in cui si prevedeva di intervenire immediatamente e quelle la cui urbanizzazione veniva dilazionata nel tempo. Fu prevista l’immediata attuazione della strada complanare (sic!) e delle sue diramazioni verso Ciconia e verso Ficulle, e della bretella di raccordo tra la variante alla strada statale Umbro Casentinese a Orvieto scalo con il piazzale superiore della stazione ferroviaria.  Fu prevista inoltre l’immediata attuazione delle previsioni indicate dal piano strutturale relativamente agli ambiti AG1, AG2, AG3, AG4 e AG5 e l’attuazione differita delle previsioni indicate dal piano strutturale relativamente a tutte le zone classificate con la lettera C, circoscritte con apposito segno grafico nelle rispettive tavole, fatta eccezione per quelle previste dal precedente piano regolatore già in attuazione.

Nelle due  relazioni non furono specificate  con chiarezza le principali zone di espansione previste, che ovviamente furono individuate nelle cartografie allegate. Questo aspetto della relazione di Rossi Doria assume un certo rilievo perché nelle discussioni che si svolsero in Consiglio comunale, sia in fase di adozione che in fase di approvazione definitiva del piano, ci furono amministratori e consiglieri, facenti parte della maggioranza, che sostennero che le zone di espansione erano molto limitate, e consiglieri, facenti parte delle opposizioni, che sostennero l’esatto contrario. Tale questione non è da considerarsi secondaria, se si tiene presente che sia nell’ambito delle relazioni sia nel corso delle discussioni in Consiglio comunale fu spesso rilevato che obiettivi prioritari del piano fossero interventi volti alla tutela dell’ambiente, tramite anche un’azione molto consistente di riqualificazione urbana. Ora, è del tutto evidente che se si ammette che le zone di espansione, pur potenzialmente previste nel piano, assumessero un rilievo notevole, risulterebbe meno credibile la tesi secondo la quale gli obiettivi prioritari del piano fossero effettivamente quelli appena citati. Non si può a questo punto non rilevare che la popolazione insediabile nel territorio comunale, in attuazione del piano, oltrepassasse, seppur di poco le 30.000 unità, con un incremento del 50% rispetto alla popolazione che allora abitava ad Orvieto. Certo quell’incremento era da considerarsi come potenziale, però quell’incremento avrebbe potuto determinare il realizzarsi, successivamente, di interventi urbanistici piuttosto estesi, cosa che non sarebbe stato

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possibile se la popolazione insediabile, in applicazione di quanto previsto nel piano, fosse stata decisamente inferiore.

Un’altra notazione: né nel piano strutturale né nel piano operativo furono ipotizzati possibili utilizzi per due aree molto importanti e piuttosto estese, nel centro storico, che al momento dell’approvazione definitiva del nuovo piano erano o già disponibili o lo sarebbero state entro breve tempo, e cioè l’ex caserma Piave e l’ex ospedale in piazza del Duomo. Ho ritenuto necessario formulare tale osservazione perché questa “assenza” fu criticata più volte da esponenti dei gruppi consiliari di opposizione, in fase di approvazione definitiva del piano, e considerata un notevole limite del piano stesso. Ovviamente non furono della stessa opinione rappresentanti della maggioranza. Le tesi sostenute da entrambi saranno esposte successivamente quando sarà preso in esame il dibattito consiliare sviluppatosi in occasione dell’approvazione definitiva del nuovo piano. Fin d’ora mi è sembrato opportuno rilevare tale caratteristica del piano Rossi Doria perché, oggettivamente, la questione degli utilizzi di quelle due aree presenti nel centro storico era ed è di notevole rilievo, anche perché non è stata affatto ancora definita ed anzi le ipotesi avanzate nel corso degli anni sono state diverse, e spesso contrastanti.

Ed ora risulta opportuno passare ad esaminare i principali contenuti dei dibattiti consiliari relativi sia all’adozione che all’approvazione definitiva del piano Rossi Doria, ed anche, pur se brevemente, all’approvazione delle controdeduzioni alle osservazioni presentate dopo l’adozione del piano.

Il piano regolatore Rossi Doria fu adottato nella riunione del Consiglio comunale di Orvieto del 5 agosto 1998. In una riunione precedente l’assessore all’urbanistica Sergio Cherubini e il professor Rossi Doria pronunciarono i loro interventi iniziali. Una sintesi dei loro interventi, che furono discussi nella riunione del Consiglio già citata, non viene riportata sia perché nel resoconto di quella riunione, disponibile nell’archivio comunale, mancano alcune parti dei loro interventi sia perché, esaminando le parti riportate nel resoconto, si può concludere che i due interventi rispecchiassero sostanzialmente i contenuti della relazione al piano già ampiamente analizzata.

All’inizio della riunione del 5 agosto 1998, il presidente del Consiglio comunale Stefano Talamoni diede lettura di una lettera inviata dal consigliere di Alleanza Nazionale Luca Giardini, nella quale comunicava la sua decisione di non essere presente poiché non gli erano stati consegnati tutti gli allegati al nuovo piano.

Poi il consigliere Alessandra Sargenti, in rappresentanza del gruppo del partito Popolare, comunicò la decisione di questo gruppo di non partecipare alla discussione

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in quanto non era stato loro consentito di prendere visione della documentazione completa.

Il consigliere Agostino Turreni, in rappresentanza del gruppo Lista per Orvieto, espresse anche lui notevoli critiche per il fatto che non gli fu consegnata tutta la documentazione necessaria e attribuì questa carenza alla fretta che il sindaco avrebbe manifestato, per arrivare all’approvazione definitiva del piano prima della scadenza del suo mandato e per potersi presentare alla successiva campagna elettorale con il piano appunto approvato.

Il consigliere Stanislao Fella, di Alleanza Nazionale, espresse, invece, una serie di critiche ai contenuti del piano, considerato soprattutto uno strumento per porre rimedio, in vari modi, agli errori urbanistici compiuti in passato. Secondo Fella, poi, gran parte del tracciato della complanare era previsto in zone alluvionali, la cosiddetta “Porta di Orvieto”, all’uscita del casello autostradale, era per le sue caratteristiche “inquietante”, una sorta di Disneyland di cemento ed asfalto. Rilevò inoltre la necessità di formulare delle previsioni circa i futuri utilizzi degli edifici adibiti a caserme, nella malaugurata ma possibile ipotesi che le caserme venissero chiuse,  si dichiarò contrario alla costruzione di un parcheggio multipiano nella zona di via Roma, perché in questo modo sarebbe stata impedita la possibilità di parcheggiare in piazza Cahen, e alla scelta di localizzare delle zone di espansione ad attuazione immediata nelle vicinanze del nuovo ospedale, perché non si prevedeva un sistema viario profondamene diverso rispetto all’attuale. Più in generale Fella criticò “la ristrettezza di previsione di tale piano che in fondo prevede modifiche al territorio che potevano essere apportate con una comune variante” e “l’assenza, oltre fumose previsioni di improbabili sviluppi turistici legati al costituendo parco archeologico, di una programmazione territoriale che incentivi e rilanci l’economia orvietana”. Fella terminò con un’interessante considerazione circa la possibilità che i piani regolatori siano disattesi e vanificati, successivamente alla loro approvazione, dai piani di recupero, dai piani attuativi, dai piani particolareggiati, dai condoni e soprattutto dalle varianti al piano, oltre che dalla tolleranza di gravi fenomeni di abusivismo (evidentemente sottintesa a tale considerazione era la valutazione che in passato si era spesso ricorso a questi strumenti per vanificare quanto previsto nei precedenti piani regolatori).

Pier Luigi Leoni, consigliere di Alleanza Nazionale, nel suo intervento adottò un’impostazione piuttosto diversa da quella seguita dagli altri due consiglieri dello stesso gruppo intervenuti, uno tramite una lettera e l’altro direttamente. Leoni fornì un' interessante chiave di lettura del processo di formazione del nuovo piano rilevando tra l’altro che si dovesse approvare il piano entro la consiliatura 1995-1999 poiché il sindaco Cimicchi non si poteva presentare alle successive elezioni senza la sua approvazione promessa da molto tempo, che il piano dovesse accontentare il

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maggior numero di elettori, che nel caso in cui non fosse possibile accontentare dando qualcosa (ci si riferiva alla normativa per le zone di completamento) lo si doveva fare promettendo qualcosa (ci si riferiva alla normativa per le zone di espansione in base alla quale spesso si può dire a un potenziale elettore che non lo si può far costruire perché la popolazione non aumenta ma che se sarò rieletto qualche modo lo troverò per farti costruire). Detto questo Leoni, di fatto, si espresse favorevolmente nei riguardi del piano dichiarando che il piano era rispettoso della normativa di fonte superiore; che il piano era correttamente redatto su base aerofotogrammetrica; che il piano affrontava in modo organico e corretto il problema della viabilità; che il piano affrontava il problema della riqualificazione dei centri urbani anche se ciò costituiva il riconoscimento degli scempi del passato; che il piano dettava soluzioni razionali per il centro storico, pur criticando l’assenza di proposte sui futuri utilizzi delle aree del vecchio ospedale e delle caserme; che il piano affrontava, mediante la previsione di insediamenti di carattere sportivo, il problema della riqualificazione delle zone della valle del Paglia rovinate dalle cave; che il piano introduceva, seppure in modo timido e riduttivo, l’idea veramente civile e culturalmente raffinata della porta di Orvieto all’uscita dall’autostrada; che il piano dettava una normativa abbastanza chiara, sebbene troppo minuziosa e destinata ad essere complicata dal nuovo regolamento edilizio.

Espresse, poi, il proprio giudizio positivo il consigliere di maggioranza Giuliano Santelli, il quale dichiarò che il nuovo piano affrontava in modo strutturale tre questioni molto importanti: la pianificazione e l’individuazione definitiva delle zone di espansione intese come zone urbane ampie ma flessibili nella loro crescita, le nuove infrastrutture viarie in primo luogo la complanare tra l’Amerina e la zona industriale di Bardano, gli interventi di riqualificazione urbanistica relativi a Orvieto scalo, Ciconia e Sferracavallo. Santelli affermò però che, riguardo a interi comparti abitativi da decenni vuoti, mai immessi sul mercato immobiliare, e ormai ridotti a stabili in alcuni casi anche pericolosi e incompiuti (si riferiva agli immobili delle Conce, a quello incompiuto nei pressi del tribunale, agli immobili confinanti situati a fianco della Smef e confinanti con la Confaloniera), il nuovo piano avrebbe potuto e dovuto agire con maggiore determinazione e propose che nel piano operativo, qualora permanesse la volontà di alcuni proprietari di non procedere all’immissione sul mercato di queste abitazioni, si procedesse al loro inserimento all’interno di piani di recupero, predeterminando così la possibilità di esproprio da parte del Comune.

Poi, come semplice consigliere di maggioranza, intervenne il presidente del Consiglio comunale Stefano Talamoni. Talamoni, innanzitutto, relativamente al carattere generale del nuovo piano, sostenne che fosse uno strumento sia per “fotografare” le profonde trasformazioni che nell’arco del ventennio precedente avevano interessato l’intero territorio comunale sia per fornire risposte valide e alle “emergenze” e soprattutto ai problemi “strutturali” che, nel corso del tempo, si erano manifestati. E,

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secondo Talamoni, il nuovo piano “ridisegna le maglie più grandi e quelle più fini di un tessuto connettivo, composto da infrastrutture destinate a riconnettere, a ‘ricucire’ grandi agglomerati urbani, superando cesure naturali ed artificiali (il fiume, l’asse delle vie di comunicazione nazionali e cioè le due linee ferroviarie e l’autostrada). La scelta strategica fondamentale è rappresentata, infatti, dal nuovo assetto della grande viabilità, incentrato sulla variante stradale già acquisita nell’immaginario collettivo con il termine di ‘complanare’ (perché tangenziale, parallela, per lungo tratto all’autostrada)”. Talamoni riprese un obiettivo, che già negli precedenti era stato più volte evidenziato, e che caratterizzava anche il nuovo piano, e cioè “la città unita”, o meglio più unita, poiché esso tendeva a ricondurre a unità il multicentrismo che contraddistingueva il territorio comunale - la sua articolazione in 45 nuclei abitati di cui soltanto 4 con popolazione superiore a 1.500 abitanti -, attraverso un sistema di relazioni efficienti sia sotto il profilo dell’organizzazione della mobilità che della dotazione di pari opportunità di accesso ai servizi primari e secondari e di sviluppo economico e civile.

Prese poi la parola Massimo Frellicca, allora capogruppo dei Democratici di Sinistra, il quale svolse un intervento piuttosto lungo, nell’ambito del quale fece spesso riferimento a quanto già scritto nella relazione al piano. Mi limito, soprattutto per brevità, a citare le principali e le più interessanti considerazioni contenute nel suo intervento. Frellicca sostenne che con il nuovo piano si sarebbero create solo alcune limitate zone di espansione (previste a Ciconia nei pressi del nuovo ospedale, a Sferracavallo, a Canale, a Colonnetta di Prodo, ad Osarella e a Morrano), valutazione questa che non fu condivisa invece da alcuni rappresentanti delle opposizioni secondo i quali le zone di espansione previste non erano affatto di scarso rilievo. Frellicca rilevò che, diversamente da quanto sostenuto in alcuni interventi formulati da rappresentanti delle opposizioni, il processo di formazione del piano fosse stato caratterizzato da una notevole trasparenza e da un’ampia partecipazione, ed anche condivisione, dei cittadini orvietani.

Intervenne poi, di nuovo, brevemente, l’assessore all’urbanistica Sergio Cherubini. Cherubini precisò, innanzitutto, che nei quattro anni di preparazione del nuovo piano né lui né l’estensore del piano né l’ufficio avevano ricevuto da parte dei consiglieri di minoranza richieste di incontri o di documenti, sottintendendo che non fossero quindi legittime le loro critiche, formulate nel corso del dibattito, di una del tutto insufficiente informazione sui contenuti del piano. Affermò, poi, che l’unica vera zona di espansione era prevista a Ciconia “a destra verso la strada statale 79 ternana”, che non c’erano zone di espansione “pilotate”. Si era tentato solamente di soddisfare le esigenze specifiche di singoli cittadini. E rilevò che le principali scelte del piano erano influenzate solo da un elemento, di particolare importanza, e cioè dall’esistenza di un fiume, di una ferrovia e di un’autostrada. Altre influenze, poco chiare, non c’erano state.

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L’intervento conclusivo fu svolto, ovviamente, dall’allora sindaco Stefano Cimicchi. Cimicchi riconobbe che il piano avrebbe funzionato solamente se si fosse effettivamente realizzata la complanare e il piano infrastrutturale che è stato individuato (che dire pertanto oggi quando dopo “solo” 15 anni si sta ultimando esclusivamente il primo stralcio della complanare: quanto previsto dal piano è stato vanificato?). E ammise che con il nuovo piano ci si faceva carico degli errori urbanistici compiuti in passato, nei decenni precedenti, e che tale ammissione non rappresentava un’offesa per l’attuale Giunta, che aveva approvato il nuovo piano. Anzi una delle principali indicazioni rivolte al professor Rossi Doria fu proprio la necessità di farsi carico del passato, oltre ad un’altra, altrettanto importante, e cioè l’esigenza di rendere il nuovo piano “altamente realizzabile” (ma se il completamento solo della prima parte della complanare è tardato così tanto ciò vuol dire che il piano Rossi Doria è stato realizzato solo in minima parte?). E Cimicchi precisò che “il tasso di realizzabilità delle opere individuate in questo piano è altissimo”. Evidentemente Cimicchi si sbagliò, se si considera quanto avvenuto per la complanare, appunto. Peraltro Cimicchi rimase sindaco fino al 2004 e quindi una parte delle responsabilità circa la mancata realizzazione della complanare sono senza dubbio sue. Cimicchi aggiunse che il piano Rossi Doria era stato il primo piano regolatore che non fosse stato discusso in precedenza nelle segreterie e nelle sezioni dei partiti. E ciò, secondo Cimicchi, rappresentò un notevole elemento di novità, di “svolta”. Poi Cimicchi espose quello che, a suo avviso, era stato il motivo che impedì, per venti lunghi anni, la definizione di un nuovo piano regolatore: era stato più facile trovare l’accordo tra le diverse forze politiche relativamente ad interventi parziali, a singole varianti, appunto definite parziali, rispetto invece alla predisposizione di un disegno urbanistico di carattere generale. Poi nell’intervento di Cimicchi ci fu un breve passaggio che, secondo me, invece doveva essere approfondito. Infatti Cimicchi affermò: “In passato c’erano state discussioni terribili ma con voti unanimi perché c’era lo scambio” (il riferimento fu fatto sottintendendo che se in questo caso c’era stata un’opposizione decisa non era un fatto negativo tutt’altro). Cimicchi quindi adombrò l’esistenza in passato di una sorta di consociativismo tra maggioranza ed opposizione, non specificando le occasioni nelle quali esso si manifestò né se si verificò solamente in occasione di scelte di natura urbanistica.

A questo punto ci furono gli interventi per dichiarazioni di voto.

Prese la parola per primo il consigliere Agostino Turreni, per il gruppo Lista per Orvieto. Turreni rilevò che non spettava ai gruppi di opposizione di formulare delle controproposte, anche perché sarebbe stato necessario che avessero avuto una compiuta conoscenza di tutti gli atti, nei tempi previsti. E proprio il fatto che sia stato violato il diritto di accesso agli atti da parte della minoranza venne considerato il

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principale motivo alla base della decisione di votare contro l’adozione del nuovo piano.

Intervenne poi il consigliere di minoranza Pietro Lamberto Brencio, il quale, dopo aver espresso critiche di varia natura relativamente ai contenuti del nuovo piano, manifestò la sua incertezza circa l’effettiva realizzazione della complanare, rilevando che se non fosse stata possibile la sua realizzazione entro tempi brevi sarebbe “saltata” l’impostazione generale del piano stesso.

Inoltre il consigliere Stanislao Fella, in rappresentanza del gruppo di Alleanza Nazionale, ribadendo le critiche già espresse, dichiarò che il suo gruppo avrebbe votato conto l’adozione del nuovo piano.

Infine, il consigliere Massimo Frellicca, prendendo spunto dalle considerazioni svolte nel suo precedente intervento, annunciò il voto favorevole all’adozione del piano Rossi Doria dei componenti del gruppo consiliare dei Democratici di Sinistra.

E la riunione si concluse con la decisione del Consiglio comunale di adottare il piano regolatore in esame, con 12 voti favorevoli e 5 contrari, quelli dei consiglieri Leoni, Turreni, Brencio, Fella e Olimpieri.

Nella riunione del Consiglio comunale del 20 gennaio 1999 furono approvate le controdeduzioni alle osservazioni presentate al nuovo piano regolatore redatto dal professor Rossi Doria.

L’assessore all’urbanistica Sergio Cherubini, nel suo intervento iniziale, rilevò che furono presentate, nei tempi previsti, 209 osservazioni, riunite in 5 gruppi dall’ufficio. Di queste, 59 erano state accolte, 61 erano state parzialmente accolte e 89 respinte. Il primo gruppo riguardava le richieste di inserimento di aree di completamento o di lotti interclusi all’interno delle zone B (tali zone erano aree urbane di recente costruzione dove erano anche possibili interventi di ristrutturazione del patrimonio edilizio utilizzato, di completamento dell’edificazione di spazi a ciò destinati, di recupero del patrimonio inutilizzato, di ampliamento necessari per riqualificare il patrimonio esistente). E si propose di accogliere tutte queste osservazioni. Il secondo gruppo riguardava i nuclei insediativi sparsi e si propose di accogliere anche tali osservazioni. Il terzo riguardava gli insediamenti produttivi esistenti, le cosiddette zone D1A. Il quarto era relativo alle zone C di ampliamento (di fatto si chiedeva di inserire altre aree fra le zone C). Si propose di accogliere solo una parte di queste osservazioni, quelle riguardanti l’inserimento fra le zone C di aree a ridosso di “scelte urbanistiche precedenti” o a ridosso di “scelte urbanistiche previste dal piano adottato”. Il quinto riguardava le strutture esistenti per la trasformazione e la commercializzazione di prodotti agricoli. Furono presentate

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alcune richieste di espansione di quelle strutture e fu consentita una maggiorazione del 30% della superficie utile per  le strutture in questione. Cherubini, poi, osservò che la quasi totalità delle osservazioni presentate avevano come oggetto solo questioni specifiche e che quindi non mettevano in discussione le linee generali del piano. E da questa osservazione l’assessore ne derivò la considerazione che da parte della grande maggioranza di coloro che avevano presentato le osservazioni emergeva un loro giudizio positivo relativamente ai contenuti generali del piano adottato. Fra l’altro Cherubini ribadì che il nuovo piano fosse un piano equilibrato, prudente, poichè fu deciso, prima di prevedere nuove zone di espansione, di realizzare i completamenti e le infrastrutture ed i servizi mancanti. Comunque Cherubini affermò “fermo restando che in questa prima fase tutte le zone di espansione dovranno essere completate prima di andare a prendere delle aree nuove”. Quindi delle zone di espansione ad attuazione immediata, o comunque nei primi anni dall’approvazione del piano, erano previste dal piano adottato.

Nella prima parte dell’intervento del consigliere Alessandra Sargenti, in rappresentanza del gruppo del  Partito Popolare, fu sintetizzato il comportamento di quel gruppo in relazione al nuovo piano. Sargenti ricordò che i consiglieri del Partito Popolare non parteciparono al voto per l’adozione del piano per protesta, non avendo potuto consultare tutti i documenti necessari. Poiché dal 13 gennaio 1999 avevano avuto a disposizione la documentazione completa, i consiglieri di quel gruppo erano in grado di esprimere un giudizio, seppure tardivo, sul nuovo piano. Sargenti dichiarò che il nuovo piano regolatore, con l’approvazione di un certo numero di osservazioni, ha accontentato molti cittadini “inserendo qua e là aree in zone B e C”, ma chiese che fossero ulteriormente esaminate le osservazioni respinte. Passando poi ad analizzare le linee generali del piano, rilevò che esso si configurava sostanzialmente come una grande variante al piano esistente (a monte di tale affermazione c’era ovviamente la valutazione secondo la quale con il nuovo piano non venissero prese decisioni di particolare importanza). Le principali perplessità espresse da Sargenti riguardavano la chiarezza delle norme, la fattibilità di natura economica degli ambiti di immediata attuazione come, ad esempio, l’intervento previsto per piazza Cahen e aree vicine, la riorganizzazione di Orvieto scalo, la porta di Orvieto, il parco perimetrale di Sferracavallo e il parco urbano del Paglia. E la Sargenti concluse il suo intervento, dichiarando che il suo gruppo “sarà comunque attento e propositivo nel dibattito futuro sulle scelte che verranno prese per la città in cui viviamo”. Non si può non notare che il gruppo del Partito Popolare, nella fase di esame delle osservazioni, assunse un atteggiamento, nei confronti anche delle linee generali del nuovo piano, molto diverso da quello che lo caratterizzò quando si doveva adottare il piano stesso. I veri motivi di questo cambiamento? Non li conosco ma me li immagino.

Intervenne poi il consigliere Leoni che, prima di prendere in esame le osservazioni, formulò alcune valutazioni di altra natura. Leoni rilevò innanzitutto che riteneva

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positivo il fatto che il nuovo piano fosse stato spesso considerato come un piano di basso profilo. Infatti Leoni ammise che era stato sempre terrorizzato dai piani regolatori di alto profilo e dichiarò “nella mia vita ho visto che con le scoperte geniali degli architetti sono stati fatti danni enormi, danni feroci…con le idee geniali - sia quelle a carattere di pianificazione di tipo albanese sia quelle relative alla zona di espansione a Ciconia - si sono avuti dei danni non più recuperabili. Le proposte geniali che vennero avanzate all’epoca avrebbero fatto danni altrettanto gravi, se fossero state accolte” (molto probabilmente Leoni aveva ragione ma perché non specificò quali principali decisioni dovessero essere prese nell’ambito del piano Piccinato?). Inoltre Leoni motivò meglio la sua scelta di votare contro all’adozione del piano nella riunione del Consiglio comunale dell’agosto del 1998: nel piano vi erano elementi positivi ma anche elementi abbastanza gravi rappresentati dalla non risoluzione di problemi importanti quali la destinazione dell’ex caserma Piave, dell’area sovrastante il futuro parcheggio di via Roma e del vecchio ospedale (probabilmente Leoni fece questa notazione perché non si erano ben capiti i motivi alla base del suo voto contrario all’adozione del piano dopo un intervento nella riunione del Consiglio comunale dell’agosto del 1998 nel quale espresse sostanzialmente un giudizio positivo sui contenuti del piano).  E sempre relativamente alla questione relativa al basso profilo del nuovo piano, Leoni affermò “credo che l’impressione di basso profilo sia da ascriversi al fatto che questo piano regolatore deve rimediare ad una situazione di edificazione, di urbanizzazione molto pesante, avvenuta nel dopoguerra e che ormai è avvenuta, bene o male, con errori e aspetti positivi. Il grosso che doveva essere fatto ad Orvieto, in questo secolo, è stato fatto. Era già stato fatto negli anni ’60, negli anni ’70” (nel condividere tale affermazione di Leoni vorrei però aggiungere che qualcosa è stato fatto anche negli anni ’80 e nei primi anni ’90 con l’attuazione di quanto previsto nelle cosiddette varianti parziali).  E Leoni così continuò “si trattava con questo piano regolatore di fare il punto della situazione, di ricucire, di prendere atto di quello che c’era, di migliorarlo e di completarlo. Tutto ciò è stato realizzato con scaltrezza, attraverso la suddivisione dell’attuazione del piano in due fasi: quella delle zone produttive e delle zone di completamento, che possono essere realizzate subito; quella delle zone di espansione, rinviate ad un improbabile auspicato incremento demografico. Questa, infatti, è una soluzione abbastanza scaltra perché dà speranza e l’uomo vive soprattutto di speranza”.

Nel suo intervento il consigliere Egisto Tedeschini, appartenente al gruppo del Partito Popolare, sostenne, fra l’altro, che nel nuovo piano fosse previsto un numero eccessivo di zone nelle quali potessero essere realizzati nuovi insediamenti commerciali, questione che fu oggetto anche di un’osservazione presentata dalla Confcommercio provinciale. Tedeschini criticò inoltre il fatto che nel piano strutturale vi fosse un’eccessiva presenza di zone C in aree alluvionali. Tali zone non erano considerate ad immediata attuazione ma, nonostante questo, la loro presenza

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destava ugualmente preoccupazione. E poi in questo modo si creavano delle aspettative su interventi irrealizzabili, cosa che secondo Tedeschini non si doveva fare, in generale, non solo relativamente a quelle zone. Peraltro aspettative irrealizzabili si sono determinate nel momento in cui, nel piano strutturale, sono state previsti complessivamente interventi, di varia natura, che avrebbero potuto consentire un aumento della popolazione pari a circa 10.000 unità. Poiché tale eventualità non si verificherà, si creeranno delle aspettative irrealizzabili in una parte della popolazione. Notò inoltre con sorpresa che le associazioni ambientaliste, diversamente da quanto avvenuto in passato, non presentarono nessuna osservazione. Ed infine anche Tedeschini criticò il fatto che con il nuovo piano non ci si occupasse delle future destinazioni delle aree delle caserme e del vecchio ospedale.

Vi furono poi le repliche del professor Rossi Doria e dell’assessore Cherubini, quasi esclusivamente rivolte a rispondere alle considerazioni svolte dai consiglieri relativamente alle osservazioni presentate. Cherubini, giustamente, rilevò che, in alcuni interventi, non ci si era limitati ad occuparsi delle osservazioni ma che venivano analizzate le linee generali del nuovo piano. Peraltro Cherubini in qualche modo giustificò almeno una parte dei consiglieri che fecero quella scelta, i consiglieri del gruppo del Partito Popolare, i quali non parteciparono al dibattito riguardante l’adozione del nuovo piano. Cherubini poi motivò la decisione di non occuparsi delle aree delle caserme e del vecchio ospedale: non si era ritenuto opportuno né possibile esaminare le future destinazioni d’uso di aree non ancora disponibili per utilizzi diversi (citò il caso del vecchio ospedale che non era stato ancora liberato).

Nella riunione del Consiglio comunale del 16 febbraio del 2000 ci si occupò dell’approvazione del nuovo piano regolatore, redatto dal professor Rossi Doria. L’approvazione avvenne dopo lo svolgimento delle elezioni. Quindi la composizione del Consiglio era diversa rispetto a quella del Consiglio che adottò il piano. Anche per questo motivo, considerando che si sviluppò un’ampia discussione sulle linee generali del piano anche in fase di approvazione, dovuta soprattutto al fatto che intervennero consiglieri che non avevano tale incarico quando il piano fu adottato, diversamente da quanto avvenuto quando mi sono occupato dei precedenti piani urbanistici, ho dovuto necessariamente attribuire una maggiore attenzione nei confronti della discussione avvenuta in occasione dell’approvazione del piano, mentre per i piani precedenti fu sufficiente concentrarsi sulla discussione manifestatasi in fase di adozione dei piani stessi.

Al nuovo assessore all’urbanistica, Nazzareno Desideri, del partito socialista, spettò l’intervento iniziale. Desideri rilevò, in primo luogo, la notevole attenzione che, con il nuovo piano, veniva attribuita alle risorse ambientali del territorio comunale, alla loro tutela e valorizzazione. Ribadì poi che un obiettivo prioritario del piano era rappresentato dalla volontà di procedere ad un’estesa ed intensa opera di

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riqualificazione urbana. Infine Desideri passò a leggere la relazione, predisposta dall’ufficio, per l’approvazione del piano.

Appena dopo intervenne il consigliere Maurizio Conticelli, del gruppo di opposizione “I Democratici”, il quale, è bene ricordarlo, era assessore all’urbanistica quando la Giunta espressa dal precedente Consiglio decise di affidare a Bernardo Rossi Doria l’incarico di redigere il nuovo piano e che, quindi, seguì la prima fase del processo di formazione del piano. Anche per questo forse l’intervento di Conticelli fu piuttosto lungo ed articolato. Conticelli iniziò con il rilevare che, a suo giudizio, ci fosse un’evidente incongruenza tra il documento preliminare  al piano,  che fu approvato agli inizi del 1996, quando era ancora assessore all’urbanistica, e i contenuti del piano stesso. E Conticelli manifestò la sua profonda delusione soprattutto per le problematiche, importanti, che, con il nuovo piano, o non venivano risolte o non venivano affrontate o venivano malamente affrontate. Un ulteriore elemento di imbarazzo, precisamente così lo definisce, era rappresentato da Conticelli dalla bocciatura, da parte della Regione, del tracciato della complanare, opera fondamentale prevista dal piano, che in qualche modo aveva determinato la “decapitazione” del piano stesso, bocciatura che recepiva le richieste avanzate, relativamente alla complanare, espresse dal gruppo di cui faceva parte Conticelli. E già a questo punto del suo intervento Conticelli rilevò l’impossibilità di approvare un piano, di cui era “saltato” un intervento essenziale, fondamentale, come appunto la realizzazione della complanare. E Conticelli espose altri motivi che imponevano al suo gruppo la decisione di non approvare il nuovo piano. Il primo di questi motivi riguardava le espansioni definite “immotivate, eccessivamente discrezionali, non ben comprensibili”. Le zone di espansione, le zone C quindi, sebbene sarebbero state realizzate solo se, successivamente all’approvazione del piano, il sindaco e il Consiglio lo avessero deciso, impegnavano un ampio territorio ed erano destinate ad ospitare circa 2.000 abitanti, con la conseguenza che la quasi totalità dei nuovi abitanti che avrebbero potuto risiedere nel territorio comunale, se tutte le previsioni del piano fossero state realizzate, e cioè 10.000, sarebbero stati ospitati nelle zone di completamento, le zone B -, secondo Conticelli il numero degli abitanti “correlato” a queste zone era pari a circa 6.000 unità -, zone cioè ad attuazione immediata. Un breve inciso: Conticelli paragonò il piano Rossi Doria al piano Piccinato, perché anche quest’ultimo prevedeva un aumento della popolazione pari a circa 10.000 abitanti. Quindi, secondo Conticelli, quando si esaminavano le espansioni consentite dal nuovo piano occorreva considerare anche e soprattutto le zone B. E la conclusione a cui pervenne Conticelli, a questo proposito, fu che quello redatto da Rossi Doria fosse “un piano espansivista”. Le espansioni così concepite si manifestavano soprattutto a Ciconia e a Sferracavallo. Nel primo caso “invadono le propaggini del monte Peglia” e la più discutibile di esse era quella localizzata sopra Mossa del Pallio, in direzione di San Giorgio. Per quanto riguarda Sferracavallo, Conticelli criticò soprattutto la presenza di un’espansione, prevista in un’area

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esondabile, tra due fossi. E continuò affermando che gli sembrava scandaloso prevedere espansioni in zone agricole di pregio. Inoltre, secondo Conticelli ci si occupava molto poco del centro storico e criticava l’assenza di decisioni circa le future destinazioni d’uso di grandi edifici quali il vecchio ospedale.

In parziale risposta a quanto sostenuto da Conticelli intervenne l’assessore Sergio Cherubini che, quando il Consiglio comunale fu chiamato ad approvare il nuovo piano, non aveva più la delega ad occuparsi di urbanistica, era assessore ai lavori pubblici, ma che nella precedente consiliatura era stato assessore all’urbanistica, proprio dopo Conticelli. Poiché Conticelli aveva sostenuto che i contenuti del piano fossero notevolmente diversi rispetto a quanto ci si sarebbe aspettato nella definizione del documento preliminare d’indirizzo, predisposto quando assessore all’urbanistica era ancora lo stesso Conticelli, Cherubini sembrò in qualche modo rispondere a quella critica rilevando che a determinare la versione definitiva del piano fossero state soprattutto le richieste e le valutazioni dei cittadini, manifestate nel corso del processo di formazione del piano, tramite prevalentemente l’organizzazione di numerosi incontri, e comunque la volontà di soddisfare gli interessi della comunità orvietana. Cherubini inoltre manifestò la sua contrarietà nei confronti del giudizio di Conticelli e di altri, secondo il quale quello redatto da Rossi Doria fosse un piano di basso profilo, che non affrontava le problematiche urbanistiche più importanti, allora esistenti. Cherubini poi ribadì che non si formulò realmente una previsione di aumento della popolazione di 10.000 abitanti e che il piano non fosse quindi sovradimensionato. Si operò, semplicemente, in modo tale che, se tutti gli interventi inseriti nel piano fossero stati realizzati, non solo nei primi anni dopo la sua approvazione, ma anche negli anni successivi, gli abitanti che teoricamente avrebbero potuto risiedere in tutto il territorio comunale sarebbe stati circa 30.000. E Cherubini sostenne che questo piano, diversamente dai precedenti, anche per il cambiamento della normativa vigente, non fosse un piano rigido ma un piano flessibile, valido per un periodo di 20 anni, nell’ambito del quale solo con il passare del tempo si sarebbe deciso quali interventi sarebbero stati realizzati e quali no, per tenere conto, fra l’altro, di eventuali cambiamenti nelle esigenze che via via si sarebbero manifestate e nei problemi che si sarebbe dovuto affrontare. Cherubini poi rigettò un’altra delle valutazioni espresse da Conticelli. Non era vero che il piano trascurasse il centro storico (tra l’altro era prevista la riqualificazione di piazza Cahen, alcune modifiche al sistema dei parcheggi, un’area ricreativo-sportiva). E non era proprio possibile prendere delle decisioni relative alle future destinazioni del vecchio ospedale e delle caserme. Comportarsi in questo modo, riguardo a quegli edifici, fu, secondo Cherubini, un atto di umiltà. In relazione alla complanare, Cherubini affermò che non era stata bocciata da parte della Regione la necessità e quindi la scelta di realizzarla, Di fatto erano stati richiesti solamente dei cambiamenti parziali del suo tracciato.

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Prese poi la parola Sergio Ercini, del gruppo “Libero Comune”. Anche Ercini rilevò che con il nuovo piano non fosse stato affrontato quello che considerava il problema fondamentale, e cioè la rivitalizzazione del centro storico. E anche Ercini sostenne che il piano si sarebbe dovuto occupare dell’area dell’ex caserma Piave e del vecchio ospedale. Aggiunse poi che era d’accordo con gran parte delle considerazioni svolte da Conticelli, relativamente ai contenuti del piano. Ricordò inoltre che quando, con il piano Piccinato si decise di realizzare la nuova città a Ciconia, egli manifestò la propria contrarietà a quella scelta e propose un’altra area, nella zona del Botto e della Culata, e riconfermò la validità di questa sua proposta, che se fosse stata attuata avrebbe evitato il manifestarsi delle notevoli difficoltà nella mobilità, che si verificarono e si verificano in seguito alla decisione di individuare a Ciconia l’area dove far sorgere la nuova città.

Poi prese la parola Fausto Ermini, consigliere di Forza Italia. Ermini sostenne che gli aspetti positivi del piano fossero “minoritari e insufficienti” rispetto a quelli positivi e anticipò il voto contrario del suo gruppo relativamente all’approvazione del piano. Diversi i motivi alla base di questa decisione. Innanzitutto veniva considerata sbagliata la previsione di un incremento della popolazione pari a circa 10.000 abitanti. Criticò anche la complanare, definita “una superstrada con mega svincoli da megalopoli americana”. Ed evidenziò l’indifferenza che si manifestava nei confronti del centro storico. Affermò poi che nel piano vi fosse “una spasmodica ed ossessiva ricerca di aree edificabili; queste aree vengono identificate nella zona di Ciconia e in particolare nelle aree vicino al nuovo ospedale, e cito la collina sotto San Giorgio”. Si perseverava, quindi, nell’errore compiuto con il piano Piccinato e cioè si tendeva a “intasare l’ormai saturo grande quartiere di Ciconia”. E considerò allarmante la bocciatura da parte della Regione della complanare. E sostenne che la Regione rilevò l’assenza, a monte della decisione di realizzare la complanare, di studi attendibili sui flussi di traffico e soprattutto sulla provenienza e sulla destinazione dei mezzi pesanti. A tale proposito, rese nota la posizione di Forza Italia, favorevole alla realizzazione del secondo ponte sul Paglia e di quella che Ermini definì la “complanare 2”, una complanare alternativa a quella proposta nel piano, da localizzare con minore impatto ambientale in una zona ricompresa tra la ferrovia e l’autostrada. Secondo Ermini, con il piano, non si riusciva, per il centro storico, a coniugare tutela e valorizzazione dei beni culturali, rispetto per le procedure amministrative e rispetto per i cittadini che non andavano “vessati ma guidati verso un restauro intelligente”. E secondo Ermini “si inaspriscono i vincoli e sono necessari costosi piani particolareggiati che dovranno accompagnare anche semplici frazionamenti e ristrutturazioni”.

Intervenne, quindi, Guido Alberto Taddei, del Partito Popolare. Taddei preannunciò il voto di astensione del suo gruppo, gruppo che comunque faceva parte dell’opposizione alla Giunta di sinistra. Secondo Taddei “il piano regolatore è fortemente politico, forse anche troppo, e la politica ha avuto una prevalenza sulla

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programmazione tecnica”, questo perché era basato soprattutto sulle richieste specifiche di singoli cittadini, piuttosto che essere il frutto di una pianificazione “a priori”. E per Taddei il piano non era omogeneo, le zone di completamente erano “a macchia di leopardo”, venivano escluse alcune ed inserite altre, anche se contigue, poichè si tendeva a gratificare alcuni e a penalizzare altri. Era un piano che “non arriva alla sufficienza. Poteva arrivare alla sufficienza se ci fosse stata la famosa complanare”. Secondo Taddei, in passato la politica urbanistica aveva spinto i cittadini a costruire anche vicino ai letti dei fiumi. E, riconobbe Taddei, questo non sarebbe avvenuto in attuazione del nuovo piano. Anche per il consigliere del Partito Popolare però, con il nuovo piano, si faceva pochissimo per il centro storico. Occorreva, invece, predisporre dei piani di recupero, nel centro storico. E definì il nuovo piano, un piano “virtuale” sia perché non prendeva in considerazione le caserme e il vecchio ospedale sia perché le nuove zone di espansione non erano eseguibili nell’immediato. Si poteva intervenire subito solo sulle zone B. Era giudicata insufficiente la sua valenza sociale: non teneva conto delle esigenze dei giovani, non prevedendo centri ad essi destinati, mentre maggiore attenzione era dedicata agli anziani. Insufficiente era considerata anche la sua valenza economica, in quanto non prevedeva nella misura necessaria incrementi degli edifici artigianali, commerciali ed industriali.

Il consigliere Stanislao Fella, poi, del gruppo di Alleanza Nazionale, iniziò il suo intervento rilevando che il nuovo piano si trovava di fronte ad una difficoltà enorme, sanare quanto attuato in seguito ai precedenti piani, ritenuti “sbagliati e disastrosi”, che avevano consentito di costruire molto e male, male soprattutto perché avevano previsto la realizzazione di zone di espansione, senza prevedere di costruire le strade per esse necessarie, zone che furono rivolte soprattutto alla creazione di una città alternativa al centro storico. Fella ricordò che gran parte delle critiche che Alleanza Nazionale formulò relativamente alla complanare furono poi riprese dalla Regione, con la bocciatura di quella strada, e questo perché la complanare fu frettolosamente inserita nel nuovo piano, senza che fossero stati elaborati i necessari studi, lo studio dei flussi di traffico, quello riguardante l’impatto ambientale, gli studi che affrontassero le problematiche paesistiche e idrogeologiche. Fella rilevò, diversamente da altri consiglieri di opposizione, che le zone di espansione erano molto limitate. Ma secondo Fella, come nei precedenti piani, anche con questo piano si consentiva di costruire nelle vicinanze di fossi. Anche, per Fella, poi, il nuovo piano trascurava il centro storico. E non si tutelava realmente l’ambiente, considerando ad esempio che non erano previste zone destinate al rimboschimento.

A questo punto prese la parola Franco Raimondo Barbabella, del gruppo socialista. Barbabella rilevò che, a suo giudizio, non ci fossero notevoli differenze tra il dibattito che si sviluppò alla metà degli anni ’70, in occasione dell’approvazione della variante generale Benevolo-Satolli, e il dibattito che si sviluppò per quanto riguarda

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l’approvazione del piano Rossi Doria. In entrambi i casi infatti  si manifestarono sia posizioni che erano contrarie a “processi espansivi” sia posizioni favorevoli al verificarsi di “processi espansivi” ancora più consistenti.  E Barbabella, riferendosi alle decisioni prese con il piano Piccinato, ricordò che, in applicazione di una cultura urbanistica allora predominante, si pensò che il centro storico si potesse salvare adottando, per questa parte del territorio comunale, una normativa molto rigida, e che le espansioni si dovessero realizzare lontano dal centro storico. Su questo ci fu una discussione “dura, seria” che ebbe un’eco anche sui giornali nazionali. Fu scelta Ciconia, come area dove far sorgere la nuova città, ma l’alternativa che fu prospettata era altrettanto discutibile. Fu formulata da un gruppo di orvietani, i quali proposero che la nuova città si espandesse nella zona, dove attualmente c’è la concessionaria della Fiat, nella zona dell’Arcone e sulle colline, ad esempio al Tamburino. Fu un merito “storico”, attribuibile agli amministratori di allora, a Torroni, a Cirinei, l’aver impedito quello che Barbabella definì uno “scempio”. Barbabella comunque, tra le righe del suo intervento, fece capire che anche la scelta di Ciconia fosse per lui sbagliata, ma di nuovo ribadì che era stata la conseguenza della decisione di dare vita ad una nuova città, frutto di quella cultura urbanistica prevalente allora, a cui ho già in precedenza fatto riferimento. Secondo Barbabella con la variante Benevolo-Satolli ci fu una svolta, perché si passò dall’idea della città nuova, che aveva come corollario il blocco della città vecchia, a una “cultura rovesciata”, al tentativo cioè di “reinterpretare la città vecchia limitando la città nuova”. E per far passare questa nuova cultura, fu necessaria una battaglia durissima, all’interno dei partiti, nella società e nelle istituzioni. E tale nuova linea fu definita da Barbabella “faticosissima, piena di conseguenza per il futuro” (purtroppo Barbabella non specificò meglio cosa intendeva e si espresse quindi in modo generico). Barbabella aggiunse che il progetto Orvieto, la valorizzazione del patrimonio storico, culturale ed ambientale, presente nella rupe, nacque allora, come frutto di quella nuova linea. E così proseguì Barbabella, riferendosi a quella nuova cultura urbanistica (si ricorda che Barbabella quando fu approvata la variante Benevolo-Satolli era assessore e quando fu sindaco a partire dal 1980 attuò una politica urbanistica in sintonia con quella variante) “qualcuno ci sperò troppo, come noi, qualcun altro la combattè come il diavolo, chi vinse? Probabilmente non lo so chi vinse, non sono io che lo posso dire, io dico che al termine di quella lunga battaglia durata quasi un decennio e mezzo, due decenni, chi aveva promosso quella battaglia è stato sconfitto” (anche in questo caso Barbabella è stato troppo generico nelle sue affermazioni). Barbabella aggiunse “la cultura del mattone, dell’edilizia, ha condizionato troppo la vita di questa città”. E sembra che per Barbabella quanto appena affermato sia da considerare la causa del fatto che ci siano voluti più di dieci anni per arrivare alla definizione del nuovo piano regolatore. Anche perché, in passato, spesso si è pensato che un piano regolatore potesse essere principalmente uno strumento che favorisse lo sviluppo economico, se contribuiva ad aumentare il volume d’affari delle imprese del settore edilizio, ritenuto molto importante nell’ambito del sistema economico orvietano. E quindi un piano

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regolatore era da valutare positivamente se prevedeva diverse zone di espansione, altrimenti doveva essere valutato negativamente. E alla fine degli anni ’80, essendo state completate le zone di espansione, c’era chi pensava che, per favorire le imprese edili, occorresse prevedere altre zone di espansione (tale discussione si sviluppò soprattutto all’interno del partito comunista orvietano). E lo stesso Barbabella rilevò che ci fu chi lo accusò, per la politica urbanistica che aveva attuato e che intendeva continuare ad attuare, di ostacolare lo sviluppo economico locale e tale accusa fu uno dei motivi per i quali si tentò di “cacciarlo” dal suo incarico di sindaco. Comunque Barbabella sostenne che il nuovo piano regolatore fosse un buon piano, sebbene avesse alcuni difetti, e per questo il gruppo socialista avrebbe votato favorevolmente alla sua approvazione (Barbabella ricordò che i socialisti orvietani non parteciparono alla definizione del nuovo piano non facendo parte della maggioranza). Infatti Barbabella ritenne importante che fosse stata adottata una cultura urbanistica moderna e comunque in linea con la cultura prevalente nella città. A questo punto Barbabella sembrò formulare, inaspettatamente, un’autocritica rispetto alla variante Benevolo-Satolli, quando rilevò che quel piano sfidava la “cultura media della città”, che era un piano “molto ideologico”. E Barbabella ricordò che nel 1976 si costituì un’associazione chiamata Archingeo - architetti, ingegneri, geometri -, che fu il soggetto, d’intesa con tutte le imprese edili, il quale soprattutto condusse una battaglia contraria nei confronti dell’approvazione della variante Benevolo-Satolli. Inoltre il nuovo piano era giustamente un piano flessibile. E una manifestazione della sua flessibilità è proprio una questione relativa al centro storico, che sbagliando alcuni hanno criticato, e cioè il non aver preso alcuna decisione circa le future destinazioni del vecchio ospedale e delle caserme. Infatti in questo modo, secondo Barbabella, si lasciava spazio, in futuro, al Consiglio comunale, quando sarebbe stato necessario, di decidere liberamente, tenendo conto delle esigenze che si sarebbe manifestate nel periodo in cui occorreva proprio decidere. E la sua flessibilità costituiva uno dei motivi principali per valutare positivamente il nuovo piano. Certo c’erano delle critiche che potevano e dovevano essere manifestate, ma che, oggettivamente, assumevano un’importanza secondaria rispetto alle linee generali del piano. Una critica che doveva necessariamente essere esplicitata, secondo Barbabella, era la previsione di una zona di espansione verso San Giorgio, in quanto contrastava con un indirizzo che in passato fu sempre seguito, nei precedenti piani regolatori, e cioè la necessità di non consentire espansioni edilizie verso le zone collinari. E non era un problema che si dovesse stralciare la complanare, in quanto sarebbe stato necessario, per essa, presentare un progetto esecutivo in Consiglio comunale, in variante al piano regolatore. Peraltro Barbabella concordava sul bisogno di studiare meglio la complanare, il suo impatto ambientale, di fare più attenzione ai suoi costi, per garantire la sua effettiva realizzazione, che doveva avvenire a stralci, prevedendo ad esempio che fosse costruito subito il secondo ponte sul Paglia.

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Dopo Barbabella intervenne il capogruppo dei Democratici di Sinistra, Massimo Frellicca, il quale inizialmente espose dettagliatamente l’ampia partecipazione che contraddistinse il processo di formazione del nuovo piano. Rigettò, poi, completamente sia la tesi secondo la quale con il nuovo piano si sarebbe promossa un’azione di notevole cementificazione del territorio comunale sia la tesi secondo la quale non erano previsti interventi significativi per il centro storico. E secondo Frellicca non era vero che la complanare fosse stata bocciata dalla Regione, ente che aveva solamente richiesto un supplemento di indagini, tant’è che nel documento predisposto dall’ufficio non si propose la cancellazione della complanare ma il suo stralcio e, fra le cartografie, nell’area dove potrà sorgere la complanare erano state individuate le cosiddette zone bianche, senza destinazione d’uso, in attesa della definizione del nuovo progetto esecutivo della complanare, che rimaneva comunque l’elemento fondante del nuovo piano.

Successivamente il consigliere Fabrizio Cortoni, del gruppo i Democratici, riconobbe la validità di alcuni aspetti del piano, gli interventi per il verde pubblico, per le residenze per gli anziani, gli interventi rivolti alla riqualificazione, anche delle frazioni. Diversamente da quanto sostenne Barbabella, però, Cortoni affermò che per il suo gruppo alcuni elementi critici che contraddistinguono il piano, come certe zone di completamento, la zona di espansione  verso San Giorgio, non potevano essere considerati elementi secondari. E rilevò che i consiglieri del suo gruppo provarono a chiedere alcune modifiche al piano, ma fu risposto loro che a quel punto esse non erano possibili, tecnicamente e giuridicamente, e che quindi il piano doveva necessariamente essere approvato in quella formulazione. Pertanto i consiglieri del suo gruppo non potevano fare altro che votare contro all’approvazione del piano.

Intervenne quindi il professor Bernardo Rossi Doria. A proposito della complanare, Rossi Doria affermò che da parte della Regione era pervenuta un’obiezione, un’osservazione, relativa alla sue caratteristiche tecniche, manifestatasi in un parere negativo, ma che, dalla Regione stessa, era stata riconosciuta però la sua utilità e la sua importanza dal punto di vista strategico e strutturale. Relativamente al centro storico, dichiarò che non sarebbe stato opportuno prevedere già allora le future destinazioni di alcuni immobili. L’essenziale, secondo Rossi Doria, era che fossero state stabilite delle regole, per quelli ed altri immobili, prevedendo che per il momento non fosse possibile modificare le destinazioni d’uso e individuando precise procedure per l’eventuale cambiamento di quelle destinazioni. Per questo motivo si poteva sostenere che il centro storico fosse ampiamente tutelato. Peraltro può essere interessante riportare anche alcune brevi affermazioni di Rossi Doria, dalle quali è possibile apprendere che egli aveva, a suo tempo, colorato con l’acquarello parti del piano Piccinato, nello studio di quell’urbanista, che fu amico di Leonardo Benevolo, che riteneva essere stato il suo maestro e con il quale discusse alcuni elementi della variante denominata Benevolo-Satolli. Inoltre Rossi Doria affermò chiaramente che,

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in passato, furono compiuti due grandi errori urbanistici, la lottizzazione della Svolta e la localizzazione della discarica. Sembra, perché Rossi Doria non fu su questo esplicito, che il motivo principale per considerare quelle due scelte degli errori derivava dall’incremento dei flussi di traffico che esse determinarono (certo Rossi Doria potrebbe aver ragione ma l’errore principale non fu quello di prevedere con il piano Piccinato una “nuova città” e di localizzarla a Ciconia?). Precisò inoltre Rossi Doria che lui avrebbe voluto inserire fra le norme di attuazione del piano, delle norme non regolamentari ma programmatiche che prevedessero che il nuovo regolamento edilizio contenesse anche una parte riguardante il decoro urbano, in modo tale che chiunque intendesse proporre delle trasformazioni da realizzare nelle zone B fosse informato su quali fossero le regole relative al decoro urbano. Ma il consulente giuridico, il professor Tarantini, si oppose alla possibilità che fra le norme di attuazione fossero inserite delle norme programmatiche ma che, eventualmente, fossero inserite nella relazione, come del resto avvenne per quanto riguarda le problematiche inerenti il decoro urbano.

Per concludere il dibattito, prese la parola il sindaco Stefano Cimicchi, con un lungo intervento. Fece, innanzitutto, un’interessante notazione sulle varianti parziali realizzate tra il 1992 e il 1995 (in quel periodo Cimicchi era già sindaco) tramite le quali vennero fornite delle risposte a delle domande provenienti da una parte dei cittadini orvietani, domande rimaste a lungo insoddisfatte e che non si potevano più trascurare, anche per la forza con quale alla fine furono rivolte agli amministratori. Con quelle varianti, aggiunse però Cimicchi, furono ridimensionate le richieste che alcuni avanzarono, da egli definite “autentiche porcate”. Cimicchi sostenne, di nuovo, che il nuovo piano fosse il primo piano “libero”, nel senso che era il primo piano i cui contenuti non erano stati concordati e stabiliti prima all’interno dei partiti. A questo punto Cimicchi si pose una domanda “come sono nate la Svolta, la Petrurbani e il Borgo?” e mi sembra che porsi quella domanda a quel punto del suo intervento volesse significare che, a suo giudizio, quelle lottizzazioni, le quali furono anche oggetto di molte critiche, fossero state decise da alcune componenti dei partiti di allora, tendenti a soddisfare gli interessi economici di gruppi di cittadini, piuttosto influenti. E Cimicchi aggiunse che con il nuovo piano, ed anzi dal 1992 in poi, si era messa la parola fine ad un processo di formazione delle scelte urbanistiche ben preciso, quello appunto caratterizzato dalla forte influenza esercitata dai partiti, considerati in questo caso come soggetti esterni alle amministrazioni comunali, tendenti a non perseguire l’interesse collettivo, ma gli interessi di ben precisi gruppi di cittadini. Cimicchi continuò rilevando che nel nuovo piano vi erano delle scelte politiche molto importanti, volte a promuovere uno sviluppo ecocompatibile. Ad esempio, con il nuovo piano, secondo Cimicchi, non si intaccavano affatto le aree di pregio agricolo e le aree verdi. E tale impostazione non veniva meno con la decisione di stabilire  sì delle regole per il centro storico, ma non tutte uguali per l’intera area interessata, ma diverse a seconda delle parti in cui essa fu suddivisa, e meno

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stringenti rispetto al passato, quando “il centro storico non poteva essere toccato”, quando “l’impossibilità di intervenire in alcuni ambiti ha comportato che fossero soppresse abitazioni per creare uffici, speculazioni, gente che è dovuta andare via perché il palazzo non si poteva ristrutturare, perché non si poteva cambiare la scalata, non si poteva aprire la finestra del gabinetto…”. Precisò poi che nel piano operativo, quindi tra gli interventi da attuare nei primi anni, fossero previste solo le zone B, le zone di completamento cioè, le infrastrutture, le zone industriali e le strutture sanitarie. Ribadì che il nuovo piano non puntava all’espansione e che, invece di indicare dove ci si doveva espandere, indicava dove non ci si doveva espandere.

Poi si passò alle dichiarazioni di voto.

Il consigliere Enrico Crespi, capogruppo di Rifondazione Comunista, dichiarò che il nuovo piano regolatore gli sembrava accettabile e annunciò il suo voto favorevole. Valutò positivamente soprattutto l’idea della “ricucitura” tra il centro e i poli suburbani e di questi fra di loro e la scelta  di averlo dimensionato in modo tale da consentire di fornire delle risposte anche ad esigenze che si potrebbero manifestare nei prossimi anni, e decenni. Vi erano anche aspetti discutibili, ma non tali da giustificare una bocciatura dell’intero piano.

Il capogruppo dei Democratici, Maurizio Conticelli, dichiarò che il suo gruppo avrebbe espresso voto contrario all’approvazione del piano. Ribadì che a suo avviso la complanare era stata proprio bocciata dalla Regione. E relativamente alla complanare precisò che i componenti del suo gruppo non erano mai stato contrari alla necessità di realizzarla, ma ad alcune sue caratteristiche. Inoltre rilevò che l’azione di riqualificazione indicata nel documento preliminare di indirizzo era più ampia rispetto a quella prevista nel piano. E criticò il fatto che alla fine, nel piano, si era tenuta in eccessiva considerazione l’esigenza di fornire risposte alla richieste specifiche dei singoli, perdendo di vista così l’interesse collettivo. Ribadì la sua opinione che il piano fosse fortemente “espansionistico”, soprattutto perché non si devono considerare solo le zone C ma anche le molte zone B previste ed inoltre il raddoppio degli indici di cubatura. E sostenne che le zone C dovessero essere attuate solo dopo la realizzazione della complanare.

Guido Alberto Taddei annunciò la non partecipazione al voto dei consiglieri del gruppo del Partito Popolare. Infatti il piano fu da lui considerato troppo “burocratico”, in quanto non poteva essere attuato immediatamente, dopo la sua approvazione, perché sarebbe stato necessario definire le norme di attuazione e il regolamento edilizio. Poi criticò la scelta di inserire nel piano operativo, quindi tra gli interventi ad attuazione immediata, quasi esclusivamente le zone di completamento, le zone B, ritenuta da Taddei “quasi insignificanti”.

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In rappresentanza del gruppo socialista intervenne il consigliere Franco Raimondo Barbabella. Dichiarò che il suo gruppo avrebbe votato a favore, per vari motivi. Innanzitutto perché era un piano flessibile. Poi perché uno dei suoi obiettivi più importanti erano rappresentato dalla realizzazione di efficaci interventi di riqualificazione urbana. E ritornando sulle vicende urbanistiche del passato, Barbabella rilevò come lo scontro che si sviluppò nella politica e nella società orvietana negli anni ’80 derivava soprattutto dalla volontà di alcuni di omologare Orvieto al “consociativismo sotterraneo e affaristico di quegli anni” (una domanda a questo punto mi pare d’obbligo: ma quel consociativismo di cui parlò Barbabella qualche successo anche negli anni ’80 e soprattutto negli anni precedenti non lo ottenne?). E Barbabella sostenne che quella volontà non passò e che quindi non venne liquidata l’esperienza amministrativa, e in essa anche quella urbanistica, che contraddistinse una parte degli anni ’70 e gli anni ’80, anche se per questa opposizione qualcuno pagò (molto probabilmente si riferiva a se stesso Barbabella il quale fu costretto alle dimissioni dall’incarico di sindaco). Indicò poi alcuni interventi da attuare subito dopo l’approvazione del piano, la definizione del progetto per la complanare, l’intervento per liberare la zona scolastica di Ciconia dal traffico, la progettazione delle interconnessioni tra Ciconia e il centro storico - non riferendosi solo al parco urbano del Paglia ma anche alla progettazione di quelle zone a servizio del raccordo tra i due centri -, gli interventi per la riqualificazione urbana. Precisò infine che la decisione del gruppo socialista di votare a favore non dipendeva solo dal fatto che esso faceva parte della maggioranza, ma principalmente dalla considerazione che gli elementi positivi del piano superavano ampiamente i limiti, che del resto il gruppo rappresentato da Barbabella aveva pubblicamente evidenziato.

Il consigliere Sergio Ercini, in rappresentanza del gruppo “Libero Comune”, anche se proprio nel giorno in cui fu approvato il piano Rossi Doria decise di entrare di nuovo a far parte del Partito Popolare - peraltro in quella stessa riunione il consigliere Guido Alberto Taddei precisò che nel Consiglio comunale era solo lui a rappresentare il Partito Popolare -, dichiarò che avrebbe votato contro l’approvazione del piano, in seguito alle valutazioni critiche già espresse nel suo primo intervento nel dibattito.

Il consigliere Stanislao Fella annunciò che il gruppo di Alleanza Nazionale avrebbe votato contro l’approvazione del piano, soprattutto perché una parte fondamentale del piano era venuta meno con la bocciatura da parte della Regione della complanare (peraltro sostenne che la bocciatura fu determinata dall’aver previsto che una parte del suo tracciato attraversasse una zona di esondabilità del fiume Paglia).

Infine il consigliere Massimo Frellicca dichiarò che il gruppo dei Democratici di Sinistra avrebbe votato a favore.

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E il piano regolatore, redatto dal professor Bernardo Rossi Doria, fu approvato con 13 voti favorevoli e 7 contrari, dei consiglieri Leoni, Olimpieri, Fella, Ermini, Ercini, Conticelli e Cortoni. Come preannunciato il consigliere Taddei non partecipò al voto.




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Conclusioni

In questo capitolo conclusivo sono presenti alcune mie valutazioni relative ai diversi piani urbanistici che sono stati approvati ad Orvieto.

Parte di queste valutazioni sono già state formulate nei capitoli nei quali sono stati esaminati i singoli piani. Ho ritenuto opportuno riportarle anche in questo ultimo capitolo, pur se talvolta in forma più sintetica, per renderle più evidenti ai lettori.

Due premesse mi sembrano essenziali.

In primo luogo, le valutazioni esposte sono soprattutto di natura critica.

Io non credo però che i diversi piani siano stati contraddistinti solamente da aspetti negativi, tutt’altro. Però mi è sembrato opportuno evidenziare soprattutto le valutazioni critiche, principalmente perché, in futuro, si possano evitare  gli errori commessi in passato, ammesso che quelli da me rilevati siano effettivamente tali, ed, inoltre, riconosciuti tali dalle Amministrazioni comunali che si succederanno e che dovranno approvare altri piani urbanistici.

Inoltre, convengo con quanti hanno rilevato e rilevano che gli aspetti negativi dei piani urbanistici del Comune di Orvieto sono molto meno rilevanti rispetto a quelli che hanno caratterizzato altre città, soprattutto di dimensioni molto più grandi rispetto a quelle di Orvieto.

Per la verità la situazione urbanistica di Orvieto va confrontata con quella di città che hanno più o meno lo stesso numero di abitanti, non certo con metropoli quali, ad esempio, Roma. Questa osservazione l’ho riportata perché spesso a considerare poco significativi i problemi urbanistici di Orvieto sono persone che hanno abitato o che abitano a Roma e che, ovviamente, giudicano la situazione di Orvieto molto migliore di quella della capitale d’Italia. Ma, ripeto, un confronto con Roma non è possibile, non dovrebbe essere formulato.

Però, se problemi urbanistici Orvieto li ha, come credo che li abbia, essi non possono essere né sottaciuti né sottovalutati, soprattutto perché gli errori del passato non dovrebbero essere più compiuti in futuro e poi perché è giusto individuare le responsabilità e le cause degli errori compiuti in passato, soprattutto se essi esplicano i loro effetti negativi anche nell’attuale periodo.

Inizio però con una prima valutazione fortemente positiva, attribuibile un po’ a tutti i piani urbanistici approvati, pur se soprattutto ad alcuni essa è riferibile.

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I piani urbanistici del Comune di Orvieto hanno garantito la tutela e, anche, la valorizzazione del centro storico. Hanno impedito che tale importante parte del territorio comunale subisse, nel corso degli anni, delle trasformazioni che ne alterassero, in modo negativo, l’identità caratteristica. Il che non vuole dire che non siano avvenuti cambiamenti ma tali cambiamenti sono stati quasi tutti positivi, volti appunto alla valorizzazione del centro storico, dalla ristrutturazione di componenti fondamentali del patrimonio storico-artistico, il Duomo ma non solo, alla ristrutturazione di edifici privati. Certo, se ciò è avvenuto il merito principale va attribuito al cosiddetto progetto Orvieto e, quindi, alla concessione di cospicui fondi statali, peraltro molto ben utilizzati, volti al risanamento e alla valorizzazione della rupe di Orvieto, ma condizione essenziale affinchè tutto ciò si verificasse è anche rappresentata dai caratteri assunti dalla pianificazione urbanistica. E la stessa situazione non si è affatto manifestata in tutti i centri storici italiani dove spesso, invece, la loro tutela è stata del tutto insufficiente e dove, raramente, alla tutela si è affiancata la valorizzazione. Tant’è che il complesso di interventi che ha caratterizzato la rupe di Orvieto negli anni ’80 e ’90 rappresenta ancora, o dovrebbe rappresentare, un modello da seguire non solo in Italia ma anche all’estero.

E tale caratteristica della pianificazione urbanistica del Comune di Orvieto deve essere considerato un merito storico di quanti hanno amministrato la nostra città, soprattutto nel periodo interessato dalla progettazione e dalla realizzazione degli interventi appena citati.

Quindi molto bene la pianificazione urbanistica per il centro storico, mentre, purtroppo, lo stesso non si può affermare per le periferie.

E tale situazione ha contraddistinto anche diverse altre città dell’Umbria: piani urbanistici che hanno consentito di tutelare i centri storici ma che non hanno previsto interventi altrettanto positivi nelle periferie dove, spesso, si è costruito troppo e male.

A tale proposito può risultare utile esaminare la valutazione, per certi versi ironica ma fino a un certo punto, che diversi osservatori hanno rivolto soprattutto al Pci umbro e alle sue derivazioni successive - ma la stessa vale anche per le altre componenti della sinistra regionale -, i quali osservatori hanno notato come il simbolo di quel partito non dovesse essere tanto la “falce e martello” ma invece “calce e carrello”, a causa dell’azione svolta da una parte notevole dei suoi esponenti, soprattutto all’interno dei Comuni, tendente a privilegiare gli interessi delle imprese edili e delle società che gestivano supermercati. Di qui la notevole “cementificazione” delle periferie umbre e la consistente diffusione della grande distribuzione. E ciò si è verificato anche ad Orvieto.

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Quindi, a mio avviso, i problemi urbanistici, anche ad Orvieto, hanno contraddistinto, soprattutto, se non prevalentemente, le periferie.

Per poter pervenire a tale conclusione, può essere utile distinguere le valutazioni per singolo piano urbanistico, partendo da quello più vecchio, per arrivare a quello più recente.

Non è facile valutare i contenuti del piano Bonelli, per un semplice motivo: non fu mai attuato.

Ma questo piano suscita ugualmente un notevole interesse, soprattutto di carattere storico e culturale.

Consente, infatti, di conoscere come fosse Orvieto nell’immediato dopoguerra, ed oggi tale conoscenza è molto limitata, non essendoci tra l’altro studi che ricostruiscano appunto come Orvieto fosse, dal punto di vista urbanistico, in quel periodo.

Inoltre esaminando il piano Bonelli si può apprendere anche che certe posizioni relativamente agli interventi da realizzare ad Orvieto o certi giudizi su quanto fu realizzato furono manifestate da Bonelli, in primo luogo, ma probabilmente anche da altre persone, già alla metà degli anni ’50, posizioni e giudizi che ancora emergono, nell’ambito del dibattito cittadino, “solo” 60 anni dopo.

Innanzitutto le considerazioni relative al settore agricolo. Viene confermata da Bonelli la tesi, sostenuta anche da altri, secondo la quale tale settore era caratterizzato da problemi di notevole rilievo, che peraltro lo caratterizzarono anche nei decenni precedenti al periodo nel quale Bonelli elaborò il suo piano. E l’esistenza di tali problemi, le cui cause furono diverse, esercitò effetti non solo sull’agricoltura, ma essi si estesero anche ad altri settori, in primo luogo l’industria, ostacolandone lo sviluppo.

Anche Bonelli rilevò la presenza di un eccessivo numero di esercizi commerciali. Anche Bonelli, scrivo, perché attualmente, e ormai da diversi anni, il numero degli esercizi commerciali rispetto alla popolazione residente è eccessivo ad Orvieto, comunque maggiore rispetto a quanto si verifica nelle altre città più importanti dell’Umbria. Tale situazione è poco conosciuta dagli orvietani, diversamente da quanto sarebbe necessario, ma è appunto avvalorata la sua esistenza da quanto scrisse Bonelli nel 1956.

Bonelli già attribuiva una funzione ben precisa al centro storico, la stessa funzione che fu ritenuta essenziale, e ne fu oggettivamente il presupposto, da coloro che

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idearono e attuarono, circa 25 anni dopo, il cosiddetto Progetto Orvieto. Infatti il professor Bonelli rilevò la necessità di conservare e valorizzare il “carattere artistico e paesaggistico” del centro storico.

Bonelli, inoltre, in forte anticipo rispetto a molti, era già consapevole, nel 1956, che il centro storico dovesse “appartenere” più ai pedoni che agli autoveicoli.

Invece Bonelli assunse una posizione molto originale relativamente alla presenza dei militari. A suo giudizio era eccessiva e doveva essere, quanto meno, ridotta. Originale questa posizione perché soprattutto da parte degli operatori economici, la presenza dei militari fu ritenuta sempre determinante per le prospettive del centro storico, e, anche quando la caserma Piave fu chiusa, per decisione dello Stato centrale, tale opinione rimase sempre piuttosto diffusa, tra gli abitanti del centro storico.

Infine il fatto che l’approvazione in via definitiva del piano Bonelli non avvenne mai è di notevole interesse se si concorda con la mia opinione secondo la quale ciò è stato determinato, anche, ma non solo, dalla discussione, e dai contrasti, che si sono manifestati più volte, pur successivamente, fra quanti sostenevano e sostengono che le scelte urbanistiche, in tutto il territorio comunale e non solo nel centro storico, debbano essere contraddistinte da vincoli piuttosto stringenti e quanti, invece, sostenevano e sostengono che tali scelte debbano essere caratterizzate, non dico dall’assenza di vincoli, ma dalla presenza di regole piuttosto permissive.

Tale discussione e tali contrasti non si sono certo manifestati solo nella città di Orvieto, in Italia, ma comunque ad Orvieto, perché di Orvieto mi occupo qui, sono stati piuttosto accesi e, forse, in certi periodi, hanno avuto la meglio posizioni troppo estreme, in un senso o in un altro.

Infatti in certi periodi, nella politica urbanistica, soprattutto in quella praticata concretamente, non tanto e non soltanto in quella prevista dai piani regolatori, hanno prevalso i sostenitori di vincoli troppo rigidi, in altri i sostenitori di regole eccessivamente permissive.

Forse sarebbe stato preferibile che, sempre, si fosse manifestato un equilibrio tra queste diverse, e spesso opposte, posizioni, cosa che, raramente, è avvenuta.

Il piano Piccinato, oggettivamente, fu il piano urbanistico più importante fra quelli fino ad ora elaborati.

Infatti l’aspetto di maggiore rilievo del piano Piccinato fu la scelta di Ciconia come luogo dove far sorgere quella che si potrebbe chiamare la “nuova Orvieto”.

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E tale scelta determinò un cambiamento radicale dell’assetto urbanistico di Orvieto e una serie di conseguenze, i cui effetti si manifestano ancora oggi. E’ sufficiente citare i problemi inerenti la viabilità che persistono e dei quali una delle principali cause, se non la principale, fu la scelta di dare vita a Ciconia, come attualmente è, un agglomerato urbano in cui abitano circa 5.000 persone, un numero consistente per un comune come quello di Orvieto.

E alcuni importanti interrogativi non possono che emergere relativamente alla scelta compiuta con l’espansione edilizia realizzata a Ciconia.

Era vero, come fu sostenuto spesso nella fase di approvazione del piano Piccinato, che non ci fossero alternative a Ciconia come zona di espansione principale? E, soprattutto, non era possibile in alternativa prevedere più zone di espansione delle stesse dimensioni invece della decisione di realizzare una zona, localizzata a Ciconia, decisamente più estesa delle altre? Fra l’altro nel dibattito che si sviluppò in occasione dell’adozione del piano furono evidenziate alcune possibili alternative. Quali furono i motivi, quelli veri, che impedirono il loro accoglimento? O meglio erano realmente validi i motivi addotti, da quanti in Consiglio comunale hanno sostenuto il piano Piccinato, per giustificare la scelta di prevedere, di fatto, come principale e quasi unica zona di espansione, appunto Ciconia?

Inoltre, anche nel caso del piano Piccinato, come, per la verità, per molti altri piani urbanistici, relativi a molte altre città, si è pensato prima ai luoghi dove costruire e solo dopo alle infrastrutture viarie da realizzare affinchè non ci fossero eccessivi problemi di viabilità. E, di nuovo, ritorna ad essere presa in considerazione la scelta di Ciconia. C’era sì la consapevolezza che l’assetto viario dovesse essere modificato in seguito alla forte crescita demografica che ci sarebbe stata in quella località, ma non si valutò quanto fosse possibile, e in quali tempi, cambiare, come indicato, quell’assetto viario. E forse sarebbe stato meglio prevedere la più importante zona di espansione edilizia in un’area dove sarebbero stati necessari cambiamenti nell’assetto viario di minore entità o prevedere più zone di espansione di dimensioni pressocchè uguali. Un solo esempio, il piano Piccinato prevedeva la costruzione di un secondo ponte sul fiume Paglia: ancora non c’è, anche se la sua realizzazione dovrebbe essere ormai prossima.

Furono formulate previsioni demografiche, alla base della determinazione del fabbisogno edilizio, che si sono rivelate totalmente sbagliate, anche perché si ipotizzava un incremento della popolazione molto consistente. Non è stata l’unica volta che questo è avvenuto ad Orvieto, in relazione alle decisioni di natura urbanistica, e ciò si è verificato in molte altre città. Sorge un dubbio, chi ha formulato quelle previsioni demografiche forse era consapevole che non si sarebbero affatto

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realizzate e nonostante questo, per  giustificare un elevato fabbisogno edilizio, ha continuato a prenderle in considerazione?

Fu proposto da alcuni consiglieri comunali dell’opposizione di dare vita ad un’ampia area destinata ad insediamenti produttivi nella zona vicina al casello autostradale. Questa scelta fu criticata da alcuni esponenti della maggioranza di sinistra poichè, fin da allora, fu da loro riconosciuto che quella zona era soggetta ad alluvioni. E perché quindi si realizzò comunque una relativamente piccola area destinata soprattutto ad attività commerciali e si è scelto di localizzare in quella zona la nuova sede del supermercato della Coop? Se si considera quello che si è verificato alcuni anni or sono, l’alluvione che provocò notevoli danni, per fortuna solo alle “cose”, sarebbe stato necessario che la consapevolezza dei rischi di alluvione, che contraddistinguevano quell’area, avesse dovuto, successivamente, impedire la realizzazione di quanto fu invece costruito. Quindi si può concludere che i danni connessi all’alluvione potevano essere evitati, in considerazione appunto della consapevolezza dei rischi che lì esistevano, consapevolezza che già si era manifestata alla metà degli anni ’60.

E gli interrogativi che ho appena esposto riguardo alle principali caratteristiche del piano Piccinato ne determinano altri. Dietro le scelte dei rappresentanti dei partiti di maggioranza e dietro l’opposizione dei partiti di minoranza c’era solo un modo diverso di considerare l’interesse generale o c’era anche la volontà di tutelare interessi precisi di singoli o di gruppi, di singole imprese, di singoli proprietari di terreni?

Per quanto riguarda la variante generale al piano Piccinato, denominata Benevolo-Satolli, essa è un vero piano, per le sue caratteristiche e anche per il suo rapporto con lo stesso piano Piccinato.

Infatti il piano Benevolo-Satolli fu profondamente diverso rispetto al precedente e, oggettivamente, rappresentò una svolta nella politica urbanistica del Comune di Orvieto, e fu anche l’espressione di un orientamento critico nei confronti di quanto deciso con il piano Piccinato.

Ciò risulta evidente già prendendo in considerazione le previsioni demografiche utilizzate dal piano Benevolo-Satolli. Si ipotizzò che la popolazione in futuro sarebbe rimasta stabile o si sarebbe ridotta. Si fece anche una previsione al 1985 della popolazione secondo la quale i residenti nel comune di Orvieto sarebbero stati circa 22.000 (il dato reale non si discostò di molto da tale previsione).

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Con il piano Piccinato, invece, si prevedeva, anche per il periodo preso in considerazione da Benevolo e Satolli, una consistente crescita della popolazione, che invece non si verificò.

E da quella previsione demografica, Benevolo e Satolli derivarono quello che rappresenta il principale carattere distintivo del loro piano: la consapevolezza che non ci fosse un problema di soddisfazione di un fabbisogno abitativo ulteriore rispetto a quello esistente, ma solo la necessità di soddisfare il fabbisogno esistente.

Ciò rappresenta anche la principale e notevole differenza con il piano Piccinato, in base al quale si realizzò un’espansione edilizia molto consistente.

Inoltre con il piano Benevolo-Satolli e in alcuni interventi pronunciati nel dibattito che si sviluppò in Consiglio comunale, iniziarono ad emergere temi e problematiche che furono oggetto di notevole attenzione, successivamente, quando fu elaborato il progetto Orvieto.

Si fece riferimento alla necessità di realizzare interventi di consolidamento della rupe, di operare per rivitalizzare il centro storico, di prevedere alcuni interventi che furono poi realizzati, negli anni ’80 e ’90, nell’ambito del cosiddetto progetto di mobilità alternativa.

Quindi sembra essere avvalorata la tesi secondo la quale il piano Benevolo-Satolli abbia rappresentato la condizione necessaria, dal punto di vista urbanistico, affinchè nei decenni successivi si potesse dare vita a quel complesso di interventi, di notevole rilievo, di tutela e valorizzazione del centro storico, principalmente del suo patrimonio storico-artistico, che fu denominato progetto Orvieto.

Mi sembra opportuno, a questo punto, riportare parte delle considerazioni svolte da Franco Barbabella, in occasione del dibattito consiliare relativo al piano Rossi Doria, perché contiene alcune valutazioni sul piano Benevolo-Satolli ed anche sul piano Piccinato. Queste sono appunto opinioni di Barbabella, e non del sottoscritto, ma che mi sembrano decisamente interessanti e, molto probabilmente, ampiamente corrispondenti al vero. Barbabella rilevò che, a suo giudizio, non ci fossero notevoli differenze tra il dibattito che si sviluppò alla metà degli anni ’70, in occasione dell’approvazione della variante generale Benevolo-Satolli, e il dibattito che si sviluppò relativamente all’approvazione del piano Rossi Doria. In entrambi i casi infatti  si manifestarono sia posizioni che erano contrarie a “processi espansivi” sia posizioni favorevoli al verificarsi di “processi espansivi” ancora più consistenti.  E Barbabella, riferendosi alle decisioni prese con il piano Piccinato, ricordò che, in applicazione di una cultura urbanistica allora predominante, si pensò che il centro storico si potesse salvare adottando, per questa parte del territorio comunale, una

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normativa molto rigida, e che le espansioni si dovessero realizzare lontano dal centro storico. Su questo ci fu una discussione “dura, seria” che ebbe un’eco anche sui giornali nazionali. Fu scelta Ciconia, come area dove far sorgere la nuova città, ma l’alternativa che fu prospettata era altrettanto discutibile. Fu formulata da un gruppo di orvietani, i quali proposero che la nuova città si espandesse nella zona, dove allora c’era la concessionaria della Fiat, nella zona dell’Arcone e sulle colline, ad esempio al Tamburino. Fu un merito “storico”, attribuibile agli amministratori di allora, a Torroni, a Cirinei, l’aver impedito quello che Barbabella definì uno “scempio”. Barbabella comunque, tra le righe del suo intervento, fece capire che anche la scelta di Ciconia fosse per lui sbagliata, ma di nuovo ribadì che era stata la conseguenza della decisione di dare vita ad una nuova città, frutto di una cultura urbanistica prevalente in quegli anni. Secondo Barbabella con la variante Benevolo-Satolli ci fu una svolta, perché si passò dall’idea della città nuova, che aveva come corollario il blocco della città vecchia, a una “cultura rovesciata”, al tentativo cioè di “reinterpretare la città vecchia limitando la città nuova”. E per far passare questa nuova cultura, fu necessaria una battaglia durissima, all’interno dei partiti, nella società e nelle istituzioni. E tale nuova linea fu definita da Barbabella “faticosissima, piena di conseguenza per il futuro”. Barbabella aggiunse che il progetto Orvieto, la valorizzazione del patrimonio storico, culturale ed ambientale, presente nella rupe, nacque allora, come frutto di quella nuova linea. E così proseguì Barbabella, riferendosi a quella nuova cultura urbanistica (si ricorda che Barbabella quando fu approvata la variante Benevolo-Satolli era assessore e quando fu sindaco a partire dal 1980 attuò una politica urbanistica in sintonia con quella variante) “qualcuno ci sperò troppo, come noi, qualcun altro la combattè come il diavolo, chi vinse? Probabilmente non lo so chi vinse, non sono io che lo posso dire, io dico che al termine di quella lunga battaglia durata quasi un decennio e mezzo, due decenni, chi aveva promosso quella battaglia è stato sconfitto”. Barbabella aggiunse “la cultura del mattone, dell’edilizia, ha condizionato troppo la vita di questa città”. Barbabella proseguì rilevando che, in passato, spesso si è pensato che un piano regolatore potesse essere principalmente uno strumento che favorisse lo sviluppo economico, se contribuiva ad aumentare il volume d’affari delle imprese del settore edilizio, ritenuto molto importante nell’ambito del sistema economico orvietano. E quindi un piano regolatore era da valutare positivamente se prevedeva diverse zone di espansione, altrimenti doveva essere valutato negativamente. E alla fine degli anni ’80, essendo state completate le zone di espansione, c’era chi pensava che, per favorire le imprese edili, occorresse prevedere altre zone di espansione (tale discussione si sviluppò soprattutto all’interno del partito comunista orvietano). E lo stesso Barbabella rilevò che ci fu chi lo accusò, per la politica urbanistica che aveva attuato e che intendeva continuare ad attuare, di ostacolare lo sviluppo economico locale e tale accusa fu uno dei motivi per i quali si tentò di “cacciarlo” dal suo incarico di sindaco. E ritornando sulle vicende urbanistiche del passato, Barbabella rilevò come lo scontro che si sviluppò nella politica e nella società orvietana negli anni ’80 derivava soprattutto

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dalla volontà di alcuni di omologare Orvieto al “consociativismo sotterraneo e affaristico di quegli anni”. E Barbabella sostenne che quella volontà non passò e che quindi non venne liquidata l’esperienza amministrativa, e in essa anche quella urbanistica, che contraddistinse una parte degli anni ’70 e gli anni ’80, anche se per questa opposizione qualcuno pagò (molto probabilmente si riferiva a se stesso Barbabella il quale fu costretto alle dimissioni dall’incarico di sindaco).

Il piano Rossi Doria fu un piano molto atteso e che, almeno in parte, non soddisfece le aspettative che, nel corso degli anni, si manifestarono riguardo al nuovo piano, la cui elaborazione in molti sollecitarono, nel corso degli anni.

Ma se quelle aspettative andarono deluse, le responsabilità, per la gran parte, non sono attribuibili a Rossi Doria.

Perché il piano Rossi Doria fu un piano molto e lungamente atteso? Non è facile rispondere a questa domanda.

Io personalmente ricordo che almeno dalla metà degli anni ’80 si è spesso parlato ad Orvieto, per la verità prevalentemente negli ambienti politici e fra i tecnici, della necessità di approvare un nuovo piano regolatore.

Se ne parlava, se ne parlava, ma l’inizio del processo di realizzazione del nuovo piano slittava sempre. A me, ma non credo solo a me, non risultarono mai chiari ed evidenti i motivi che determinarono questo slittamento. Probabilmente non si riusciva a raggiungere un accordo politico sulle linee generali che dovessero caratterizzare il nuovo piano regolatore.

E perché spesso, anche pochi anni dopo l’approvazione del piano Benevolo-Satolli, fu rilevata la necessità di elaborare un altro piano?

Il piano Piccinato, oggettivamente, fu l’espressione di una politica urbanistica fortemente espansiva. Il piano Benevolo-Satolli fu il frutto di un orientamento quasi opposto, favorevole ad una politica urbanistica che non può che essere definita restrittiva, tendente a limitare le nuove espansioni edilizie e tendente a sottoporle a regole, a norme, molto stringenti e vincolanti.

E quanto meno una parte consistente di coloro i quali hanno sostenuto la necessità di approvare un nuovo piano, intendevano, tramite il nuovo piano, contrastare quelle caratteristiche, fortemente restrittive, del piano Benevolo-Satolli e della politica urbanistica che concretamente l’Amministrazione comunale, sotto la guida di Franco Barbabella, almeno fino alla metà degli anni ’80, attuò.

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Tale politica urbanistica fu sì oggetto di molte valutazioni positive, soprattutto perché consentì la tutela del patrimonio edilizio e di quello storico-artistico della città antica, favorendo di fatto l’attuazione del cosiddetto progetto Orvieto, ma fu anche criticata ampiamente sia perché limitava fortemente la realizzazione di nuove abitazioni in varie parti del territorio comunale sia perché le nuove costruzioni, gli ampliamenti e le ristrutturazioni delle abitazioni esistenti dovevano sottostare all’osservanza di norme considerate troppo rigide e limitative.

Che tali critiche una parte di verità l’avevano è dimostrato, tra l’altro, dal fatto che in quel periodo si assistette ad un flusso migratorio di una certa consistenza da Orvieto verso Porano, che determinò una diminuzione della popolazione nel primo comune e un contemporaneo aumento dei residenti nel secondo, anche perché a Porano si attuò una politica urbanistica opposta a quella attuata nel comune di Orvieto e cioè una politica fortemente espansiva, che consentì fra l’altro la costruzione di un numero abbastanza consistente di nuove abitazioni, a prezzi di vendita decisamente più bassi di quelli che caratterizzavano il mercato immobiliare nel comune di Orvieto.

Tali critiche nei confronti della politica urbanistica attuata dall’Amministrazione guidata da Franco Raimondo Barbabella, tramite il suo incarico di sindaco di Orvieto, si manifestarono anche all’interno del suo stesso partito, il Pci.

Ed è possibile quindi che tali critiche fossero alla base di almeno una parte delle ripetute richieste volte ad evidenziare la necessità di un nuovo piano regolatore per Orvieto.

Ed ora, come in altre parti di questo capitolo dedicato alle conclusioni, emerge un altro interrogativo: furono quelle critiche, espresse anche all’interno del suo stesso partito, che determinarono le improvvise dimissioni di Barbabella da sindaco, nel 1987, che non gli consentirono di completare il secondo quinquennio alla guida dell’Amministrazione Comunale, come ci si attendeva?

Perché le aspettative che suscitò l’elaborazione di un nuovo piano, con il piano Rossi Doria andarono, almeno in parte, deluse?

In primo luogo perché gli amministratori che si sono succeduti da quando si iniziò a parlare della necessità di approvare un nuovo piano urbanistico non rimasero certo con le mani in mano. Infatti, dall’approvazione del piano Benevolo-Satolli, che risale alla fine degli anni ’70, all’ approvazione del piano Rossi Doria, furono varate dal Consiglio comunale ben 10 varianti parziali, che incisero considerevolmente sull’assetto urbanistico del comune di Orvieto.

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Forse quelle 10 varianti parziali costituirono un nuovo piano, “innominato”, e influenzarono notevolmente le scelte urbanistiche e non dell’Amministrazione comunale.

E tali varianti parziali, a mio avviso, incisero notevolmente sulle stesse caratteristiche del piano Rossi Doria, proprio perchè quanto attuato in seguito alle varianti parziali, normalmente, avrebbe dovuto essere contenuto in un piano urbanistico vero e proprio, per la sua rilevanza, e, quindi, i potenziali contenuti del piano Rossi Doria, quando finalmente fu elaborato e approvato, furono in qualche misura ridotti, proprio a causa del fatto che decisioni urbanistiche importanti erano state già prese con le varianti parziali citate.

E poiché la realizzazione della strada complanare rappresentò oggettivamente l’intervento più importante previsto dal piano Rossi Doria e poichè solo ora sta terminando il primo stralcio, peraltro quello di minore rilievo, di questa infrastruttura viaria, oggettivamente le potenzialità connesse all’attuazione del piano sono state fortemente limitate da quanto avvenuto relativamente alla complanare.

Senza dubbio un obiettivo prioritario del piano fu anche la realizzazione di interventi volti alla tutela dell’ambiente, tramite, fra l’altro, un’azione molto consistente di riqualificazione urbana. E pertanto potrebbe avere ragione, almeno in parte, chi, nel dibattito in Consiglio comunale, sostenne che con il piano Rossi Doria in qualche modo si tentava di affrontare gli errori urbanistici compiuti in passato.

Il fatto che quell’obiettivo fosse davvero prioritario non viene smentito né dalla previsione di alcune zone di espansione né dalla previsione che la popolazione insediabile nel territorio comunale, in attuazione del piano, potesse oltrepassare, seppur di poco le 30.000 unità, con un incremento del 50% rispetto alla popolazione che allora abitava ad Orvieto.

Questo perchè tali previsioni erano contenute nel cosiddetto piano strutturale. Infatti con il piano Rossi Doria fu applicata, per la prima volta, la prescrizione inserita nella nuova legge urbanistica regionale secondo la quale occorreva distinguere il piano strutturale dai piani operativi. Il primo doveva contenere gli interventi da realizzare anche a medio e a lungo termine, durante l’intero periodo di durata del piano, i secondi gli interventi da attuare nel breve periodo, o meglio durante i periodi nei quali l’Amministrazione comunale era guidata da un determinato sindaco.

E quindi quelle previsioni non influenzarono gli interventi da realizzare nel breve periodo, cioè in attuazione del primo piano operativo.

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Inoltre, nel piano Rossi Doria non furono ipotizzati possibili utilizzi per due aree molto importanti e piuttosto estese, nel centro storico, che al momento dell’approvazione definitiva del nuovo piano erano o già disponibili o lo sarebbero state entro breve tempo, e cioè l’ex caserma Piave e l’ex ospedale in piazza del Duomo. Tale scelta non fu considerata sbagliata dall’estensore del piano, dalla Giunta e dalla maggioranza dell’Amministrazione comunale, in quanto fu ritenuto che non esistessero, al momento dell’elaborazione e dell’approvazione del piano, le condizioni per assumere decisioni definitive riguardo ad aree così importanti. Ma l’assenza di ipotesi circa il futuro utilizzo di quelle aree fu ampiamente criticata dalle opposizioni. Io non credo che le argomentazioni a sostegno di tale critica fossero sufficientemente valide.

A questo punto mi sembra opportuno riportare parte delle considerazioni dell’allora sindaco di Orvieto Stefano Cimicchi circa un importante tratto distintivo, a suo giudizio, del piano Rossi Doria. Cimicchi sostenne che il nuovo piano fosse il primo piano “libero”, nel senso che era il primo piano i cui contenuti non erano stati concordati e stabiliti prima all’interno dei partiti. E Cimicchi si pose quindi una domanda “come sono nate la Svolta, la Petrurbani e il Borgo?” e mi sembra che porsi quella domanda volesse significare che, a suo giudizio, quelle lottizzazioni, le quali furono anche oggetto di molte critiche, fossero state decise da alcune componenti dei partiti di allora, tendenti a soddisfare gli interessi economici di gruppi di cittadini, piuttosto influenti. E Cimicchi aggiunse che con il nuovo piano, ed anzi dal 1992 in poi, si era messa la parola fine ad un processo di formazione delle scelte urbanistiche ben preciso, quello appunto caratterizzato dalla forte influenza esercitata dai partiti, considerati in questo caso come soggetti esterni alle amministrazioni comunali, tendenti a non perseguire l’interesse collettivo, ma gli interessi di ben precisi gruppi di cittadini. Personalmente non so se quanto sostenuto da Cimicchi  corrisponda, quanto meno completamente, alla verità. Ma la sua mi sembra una ricostruzione credibile di quanto avvenuto, per un periodo molto lungo, nell’ambito del processo di elaborazione e di attuazione delle più importanti decisioni in campo urbanistico, per il comune di Orvieto. Occorrerebbe verificare, con più attenzione, se quanto avvenuto in passato, non sia effettivamente più avvenuto con il piano Rossi Doria e con la politica urbanistica attuata negli anni successivi fino ad oggi.

Ma quanto rilevato da Cimicchi mi induce ad esporre il principale interrogativo che, a mio avviso, suscita l’esame dei piani urbanistici elaborati ad Orvieto e delle politiche urbanistiche concretamente attuate nel corso degli anni.

E cioè, in quale misura è stato determinante l'obiettivo di soddisfare l’interesse generale della comunità orvietana  e in quale misura invece le decisioni urbanistiche sono state pesantemente influenzate dalla volontà di soddisfare gli interessi, più o meno legittimi, di gruppi di cittadini, di singoli cittadini e di singole imprese?

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Un’ultima osservazione.

Quanto meno negli ultimi 10-15 anni, nella società orvietana, si è discusso poco o niente di politica urbanistica.

Anche gli amministratori, almeno nelle sedi deputate, in primo luogo nel Consiglio comunale ne hanno discusso poco.

Stupisce, ad esempio, che le associazioni ambientaliste, molto attente, più o meno giustamente, a questioni quali alcuni interventi volti a sviluppare la geotermia, l’eolico o altre fonti energetiche alternative, che, a loro giudizio, determinerebbero pesanti effettivi negativi sull’ambiente, siano state silenti sulle politiche urbanistiche realizzate nel comune di Orvieto e negli altri comuni dell’Orvietano.

Ma anche altre componenti della società orvietana sono rimaste silenti.

Quindi la politica urbanistica deve essere oggetto di attenzione solamente da parte degli “addetti ai lavori”, gli amministratori, e poi anche i "tecnici", geometri, architetti e ingegneri che siano?

Io credo di no.

E, ritengo, che la discussione si debba sviluppare, innanzitutto, sulle destinazioni d’uso, di alcuni importanti immobili presenti nel centro storico, e cioè l’ex caserma Piave e l’ex ospedale.

Ovviamente, si dovrebbe discutere anche riguardo alla politica urbanistica relativa alle altre parti del territorio comunale ma, oggettivamente, il futuro di quei due immobili presenti nel centro storico rappresenta la principale o quanto meno la più immediata problematica che  dovrebbe essere analizzata approfonditamente e, ripeto, non solo dagli “addetti ai lavori”.

Io spero che questo e-book possa essere utile proprio per contribuire a sviluppare un dibattito piuttosto ampio e diffuso, nella comunità orvietana, sulla politica urbanistica, presente e futura, considerando come base iniziale la riflessione su quanto avvenuto in passato. E su come la politica urbanistica seguita possa essere collegata ad un progetto di sviluppo di medio-lungo periodo del comune di Orvieto, progetto di cui avverto, per il momento e purtroppo, l’assenza.